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Quando il No Profit va in Borsa

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26 Settembre 2010 - 14.59


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bonacina_vitaIntervista a Riccardo Bonacina, a cura di Davide Pelanda – Megachip.

Dopo ben 16 anni di attività, il settimanale «VITA» si è ingrandito dando vita al Gruppo Editoriale VITA, fino a diventare un punto di riferimento del no profit italiano. E ora un salto di qualità: entrare in Borsa. Ne parliamo con Riccardo Bonacina, ex giornalista Rai, che dal 1994 al 2001 è stato direttore e fondatore del settimanale VITA, mentre attualmente è presidente del Gruppo nonché direttore editoriale della rivista.

Presidente come siete arrivati al grande passo dell”entrata in Borsa?

«Una storia già lunga oltre 15 anni rischia di intiepidirsi se non trova l”energia per rimettersi in gioco. Abbiamo pensato che potevamo fare di più, che dovevamo rilanciare anche imprenditorialmente tutto quello che avevamo conquistato, l”andamento in equilibrio, le certezze anche personali. Abbiamo pensato di rigiocare il tutto in una prospettiva di crescita che desse un po” più di forza ai nostri mezzi e alla nostra progettualità, e quindi alle nostre battaglie e ai nostri racconti. Abbiamo disegnato un piano industriale 2010-2012 e quindi avevamo bisogno di reperire risorse.

C”erano due strade, quella del debito e quella dell”aumento di capitale.

Essendo la strada del debito da evitare per non indebolire la nostra indipendenza, abbiamo scelto quella dell”aumento di capitale. Avendo già 44 soci nel capitale sociale, abbiamo pensato che il mercato (l”Aim, segmento per piccole e medie imprese) fosse la strada più adeguata alla nostra natura di public company, essenziale per un media che non vuole un padrone».

 

Come è nata l”idea di questa rivista no profit, e come si è evoluta?

«Eravamo un gruppo di giornalisti, facevamo una trasmissione quotidiana su Raidue. Si chiamava “Il coraggio di vivere”, in onda dal 1991 al 1994. Credo sia stata la prima esperienza di programma sociale, ed è anche rimasta l”unica.

Si lavorava molto in collaborazione con le associazioni, con un rapporto vero. Ci trovavamo intorno a un tavolo per affrontare insieme i temi, capire quali esperienze e quali servizi era in grado di mettere in campo il non profit rispetto ai bisogni dell”uomo e ai problemi sociali. È nei corridoi, però, che nasce l”idea vera e propria di un giornale. Con le associazioni ci dicevamo sempre che mancava, perché la tv ci portava due milioni di telespettatori a puntata, ma è fatta per evocare risposte emotive, non crea cultura. Può influenzare comportamenti nell”immediato, ma non incide sul pensiero profondo. Ci serviva un giornale, qualcosa come un «Espresso»-«Panorama» per far emergere la cultura che porta con sé il terzo settore.

Nel 1994 ci cambiano il direttore di rete, vogliono inglobarci in un contenitore pomeridiano sciogliendo la testata e la redazione che lavorava in maniera autonoma. Io ed un gruppo di giornalisti abbiamo deciso allora di lasciare la Rai e ci siamo imbarcati in quest”avventura tante volte caldeggiata. In quell”estate abbiamo scritto un progetto, convocato le associazioni che frequentavamo in trasmissione e condiviso con loro la possibilità concreta di tentare questa scommessa. Il 27ottobre 1994 siamo usciti col primo numero. Un parto molto veloce. E un”enorme scommessa in termini di sostenibilità di quello che andavamo a fare, di reddito personale e rischio d”impresa».

 

Siete un notevole punto di riferimento per il cosiddetto Terzo Settore italiano. Dal suo punto di vista privilegiato come vede oggi l”associazionismo e il volontariato? E” in crisi, senza soldi, senza più personale?

«Non sta benissimo, ma se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Non sta benissimo perché ha perso capacità di attrattiva verso i più giovani, forse smarrendo la sua vocazione anche educativa. L”essere stato schiacciato sui soli servizi esternalizzati dalla funzione pubblica, un po” per scelta un po” per obbligo, non ha fatto bene al Terzo settore in generale. Segni positivi comunque ne vedo, vedo tanta gente disponibile all”impegno. Sebbene in forme nuove e meno tradizionali. Anche il terzo settore dovrà fare i conti con la società dell”individualismo compiuto e seminare novità, non a prescindere, ma standoci in mezzo».

 

Quanto ci guadagna lo Stato ed i Governi tutti, passati e presenti, ad avere appunto il Terzo Settore attivo?

«È una domanda mal posta. Come se dicessi: cosa guadagna mia moglie se le do una mano? È” ovvio che senza l”impeto di gratuità e la voglia di costruzione di ciascuno, singolo e organizzato, le nostre città sarebbero un deserto e le emergenze insopportabili se non nella forma della guerra. Il Terzo settore nella sua accezione migliore è il pulviscolo di quelli che fanno e danno qualcosa in più oltre il loro dovere. Ma lei si immagina se lo Stato avesse il monopolio dei servizi dove la relazione fa parte della cura (dalla scuola alla cura domiciliare)? Lo Stato riconosca ciò che la società fa, regoli, dia il quadro normativo, incoraggi. Si occupi di noi quando saremo in galera».

 

Che peso ha la politica ed il governo attualmente in carica nella vostra vita di editori? Siete amati, odiati, censurati?

In una parola, essenziale, siamo indipendenti, persino dai finanziamenti pubblici. Abbiamo un principio chiaro: crediamo che la libertà da un punto di vista proprietario sia un bene primo di chi fa informazione, perché se non sei libero, prima o poi, smetti di raccontare la verità. O almeno la tua.

Ci proteggiamo a monte. Dopo 14 anni di attività, posso permettermi di dire che «VITA» non deve nulla a nessuno se non al lavoro e al sacrificio di chi ci ha lavorato, perché certo, ai nostri giornalisti andare al «Corriere della Sera» offrirebbe guadagni maggiori e benefit indiscutibilmente più vantaggiosi.

Ma questo ci permette di non subire le pressioni e i vincoli del mondo politico ed economico, ci lascia spazio di manovra. La libertà è soprattutto poter dire dei no. È capitato di far uscire pubblicità che non erano in linea col nostro taglio editoriale, e di fronte alle proteste dei lettori siamo stati liberi di porre rimedio all”errore ed evitare di pubblicarle una seconda volta. Ma per poter dire dei no devi costruire un qualcosa che sta in piedi da solo».

 

Siete considerati una rivista di nicchia (che cifre di tiratura avete e quanto vendete) che non date fastidio e non “disturbate il navigatore”?

«Siamo una rivista che sa chi è il suo pubblico – il che è un grande vantaggio – e che sa come servirlo (la invito a leggere i nostri principi). Diffondiamo 35mila copie la settimana, 7mila copie del mensile «Communitas», abbiamo una platea di 25mila utenti unici al sito Vita.it. E le posso assicurare che diamo molto fastidio. Diciamo che non stiamo mai a guardare, abbiamo sempre il caschetto»

 

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