‘di Zeno Leoni – Megachip.
Ancora una volta «il manifesto» si deve rivolgere ai suoi affezionati, per affrontare un”emergenza che fin dalla nascita, come una mannaia sospesa sopra la testa, non ha mai smesso di condizionare l”attività editoriale. “Tre mesi per vivere”, è infatti l”eloquente titolo della lettera che sta girando sul web. Le ragioni che spingono al disperato appello dal sapore di ultima spiaggia, sono sicuramente tante e su quelle più determinanti, è pacifico che «il manifesto» non abbia colpe. Ma se una critica costruttiva vuol essere fatta, chi ha guidato la redazione negli ultimi anni qualche dubbio se lo deve porre.
E in parte l”ammissione di responsabilità c”è anche stata. Come lascia trapelare il “perché siamo diventati politicamente pigri, rischiando il conformismo” di Gabriele Polo, mittente del messaggio ai lettori, che in soldoni – e bonariamente – assomiglia più a un “perché ci siamo rincoglioniti”.
Qualcuno potrebbe stupirsi, tuttavia, non è solo la linea politica del Manifesto a fare acqua. Ma è, in primis, il metodo di fare informazione: la scelta delle notizie.
Lontano da valutazioni ideologiche e, premesso, che la scomparsa del «manifesto» è da leggere come l”ennesimo successo dell”unica classe in lotta – quella dei padroni – il primo dei due errori commessi dal giornale negli ultimi anni, è da individuare nella rincorsa vana – e stupida – a colossi dell”editoria come il «Corriere della Sera», «La Stampa» e soprattutto «la Repubblica», quando si trattava di scegliere, giorno per giorno, gli argomenti di cui parlare.
Tanto per fare un esempio estremo, ma molto eloquente, è utile tornare indietro di un anno (17 settembre 2009), all”attentato che costò la vita ai sei parà del contingente italiano in Afghanistan. In quell”occasione, «la Repubblica» – come del resto il «Corriere» – fu in grado di riempire per il giorno seguente ben dieci pagine, mobilitando almeno più di venti persone fra cronisti ed editorialisti – senza contare chi stava in redazione o i fotografi – con inviati dal fronte afghano, dai sei paesi natali dei soldati italiani, dal Giappone – dove Napolitano era in visita – dagli Stati Uniti – perché lì, giustamente, c”è la regia delle missioni internazionali – dal Medioriente – per sentire le reazioni al fatto in quel delicato contesto – e ovviamente da Roma – per rilevare le dichiarazioni dei parlamentari e pubblicare editoriali di esperti opinionisti.
Ciò che salta all”occhio, è che «la Repubblica», fu capace di mettere in campo una squadra di reporter forse numericamente superiore, al numero di persone che «il manifesto» può disporre per un”intera edizione del giornale, dalla pagina politica a quella sportiva. Chiaro. Come poter competere, dunque?
La parola chiave è caratterizzazione, differenziazione.
Sembra impossibile come giornalisti con alle spalle carriere di parecchi lustri, non riescano a comprendere che la situazione del «manifesto» sia un po” quella del commerciante titolare di una piccola alimentari, senza voler banalizzare. Il quale un giorno, si trova a dover fronteggiare l”apertura di un nuovo grande centro commerciale, a pochi metri dal suo esercizio. Da quel momento, quali strategie di vendita deciderà di adottare? Continuerà a tenere sugli scaffali pacchi di merendine Mulino Bianco, le stesse che il supermercato mette a un euro o un euro e mezzo di meno? O comincerà a fare panini con un buon prosciutto di qualità , casereccio, strappato da un corpulento – e povero – maiale ruspante di qualche contadino, per offrire una merenda competitiva?
Nell”ipotesi di trovarsi di fronte a un astuto venditore, bisognerebbe prendere per buona la seconda opzione. Insomma, se allo stesso prezzo posso permettermi di acquistare un corpo di sessanta facciate, contro uno di quindici, per quale motivo dovrei scegliere «il manifesto»?
“Per una linea politica alternativa”, verrebbe da rispondere.
Già , il taglio politico combattivo, sarebbe una buona ragione per non cedere alle sirene di grandi sperperi di carta. Ma il problema – il secondo – è che ci troviamo di fronte a una linea editoriale che in questi anni ha fatto il don Abbondio della situazione, mentre le altre testate non erano pavide per niente riguardo i loro interessi socio-economici.
Una posizione politica tosta e non moscia, sicuramente avrebbe arginato il calo di vendite, comӏ stato evidenziato da tanti lettori o ex. I quali, sentono un vulnus difficilmente sanabile con il quotidiano, soprattutto quelli alla sua sinistra.
Proprio quelli a cui, invece, dovrebbe rivolgersi «il manifesto», perché strappare lettori alla propria destra, è, per le ragioni suddette, impossibile. I fatti lo dimostrano. La questione politica del «manifesto», è ben rappresentata dal caso di Silvio Berlusconi, Patrizia D”Addario e tutti i contorni della vicenda, sulla quale si sono proferite troppe energie. Il modo di trattare certi argomenti di cronaca – spesso con un superfluo e marcato piglio femminista – ha avuto poco appeal fra i lettori e, rasentando il gossip, non rientra nel terreno politico battuto da un giornale che si reputa comunista.
Non sarebbe stato meglio riempire le poche pagine, con qualcosa di più battagliero, politicamente e culturalmente? E se proprio ci si voleva occupare della vicenda, non era forse il caso di evidenziare il fatto che ai banchetti di Tarantini si sono seduti anche altri, formalmente lontani da Berlusconi e che nel sistema pugliese ci hanno mangiato in tanti?
Forse non era il caso. È tuttavia ovvio che, un cambio di marcia nei contenuti, non sarebbe stato sufficiente in un paese dove la parola cultura è diventata sinonimo di “sperpero di denaro pubblico”.
Questo non va omesso. Con quel “siamo diventati politicamente pigri”, si vuole confessare che l”affannato tentativo di conquistare l”area alla sinistra del Pd e dei suoi scontenti – sempre di più – non è servito.
E si dimostra che quell”area politica, non è poi così interessata alla causa di un giornale comunista. Il quale, proprio per definizione, dovrebbe ricominciare ad occuparsi d”altro, per ritrovare la perduta capacità di fare opinione. Come una volta.
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