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Il furto della morte femminile

Il furto della morte femminile
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7 Marzo 2011 - 15.42


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stabat-mater-megadi Michela Murgia

Questa riflessione è la versione integrale dello stralcio uscito su Repubblica il 23 febbraio scorso ed è contenuta nel libro Parola di Donna, l”antologia curata da Ritanna Armeni per le edizioni Ponte alle Grazie. Nelle pagine dell”antologia si incontrano cento donne che hanno detto la loro su cento parole che hanno cambiato non solo il mondo, ma soprattutto gli spazi di mondo per le donne stesse. La riflessione che segue anticipa per temi (ma non per linguaggio) quella che uscirà a maggio in libreria nel mio saggio Ave Mary, così tante volte rimandato che in casa editrice ormai lo hanno ribattezzato “Mary per sempre”.

Ho avuto la sfortuna di nascere quando il movimento delle donne non era più raggiungibile dalla mia posizione geo-anagrafica, se mai lo era stato. Negli anni ottanta l”eco delle voci femministe che invocavano rispetto e diritti si era già attenuato, mutando in discorsi complessi dentro stanze al di fuori delle quali lo si sarebbe udito in misura via via sempre minore; la mia generazione intanto cresceva altrove, in un”altra ansa del tempo, attraversando la contraddizione senza riconoscerla.

Da un lato beneficiavo di cose ottenute da altre, ma quella mediazione non aveva trasportato il suo senso fino a me.

Dall”altro i mostri che erano stati combattuti si erano fatti furbi, e a vent”anni io non avevo ancora gli strumenti per oppormi al travaso della vecchia etica in una nuova estetica.

Confusamente capivo che c”era una scelta da fare, ma se non potevo essere più la donna-soggetto degli anni settanta, modello che mi era arrivato distorto e impraticabile, non mi interessava nemmeno essere la donna-oggetto degli anni ottanta, figlia del culto dell”apparire che in quel periodo trovava la sua massima ribalta nella nascente tv commerciale e nella dittatura della moda, mai stata così marcata.

Altre donne risolsero la contraddizione facendosi protagoniste della libertà di restare graziosi oggetti. In nome di quella libertà non fu facile discutere la loro scelta; sembrava persino sensato affermarsi mutando in arma quello che fino a quel momento era stato un campo di battaglia degli interessi altrui. A chi come me non sceglieva quella strada restava solo la legittimazione professionale, idealmente vissuta dentro i punitivi tailleur pensati da una moda conservatrice che ci costringeva ad immaginarci competenti solo dentro panni d”uomo. Il modello della mater familias cadde in disuso, tant”è che proprio in quegli anni il tasso di natalità si cristallizzò.

Per la prima volta da secoli il numero delle morti superò quello delle nascite, e credo fu proprio in quel momento che la morte sparì da ogni rappresentazione. L”Italia era preda di una crescita economica ubriacante, che imponeva l”equivalenza tra vita e attivismo. Aprirono altle palestre, perché il culto dell”efficienza aveva bisogno delle sue chiese. La produttività professionale divenne principio di senso, sfociando in arrivismo.

Il benessere smise di essere uno stato dell”anima e divenne una merce acquistabile, la gioventù e la bellezza si scoprirono valori etici e il consumo assurse al rango di scopo finale dell”orgia sociale che fu quel decennio.

Quella narrazione di mondo, benché profondamente mortifera, non aveva né poteva avere modelli di rappresentazione per la morte, se non in alcuni filoni di controcultura che morirono nicchie. Il femminismo, se aveva riflettuto di morte, non ce ne aveva lasciato eredità. Restavano solo le collaudatissime traduzioni sociali degli imprinting religiosi del cattolicesimo, per i quali la morte è la conseguenza di una colpa ontologica. Una colpa, a voler essere precisi, tutta della donna.

La storia che ci era stata raccontata sin da piccole era molto chiara in merito, e non faceva sconti: venivamo da un mondo perfetto, eravamo stati creati integri e integre, senza dolore, incapaci di morire e privi di ogni urgenza, in uno stato di benedizione perenne. Non importava il motivo per cui le condizioni erano cambiate, in fondo a chi mai è importato il perché la donna cadde in tentazione e vi indusse l”uomo? Contava solo che da quel momento la morte era entrata far parte del creato, insieme al sudore della fronte e alle doglie del parto.

Ci insegnarono che Eva, l”unico nome che bestemmiare è stato sempre veniale, significa sì madre dei viventi, ma anche e soprattutto madre dei morenti, principio imperfetto di una nuova generazione costretta per colpa sua a misurarsi con lo sconosciuto concetto di limite. In quel racconto non c”era solo la cosmogonia con cui siamo stati da sempre spiegati e spiegate, almeno da questa parte di mondo.

Per la donna c”era anche un”esplicita condanna a vita, alla vita, quella altrui a costo della propria, in una riproduzione compulsiva senza risparmio né possibilità di scelta. È stato così per secoli, finché le lotte femministe non hanno fatto a pezzi l”icona della donna fattrice. Gli anni ottanta tradussero questo risultato civile in una rinuncia alla riproduzione tout court, perché la manutenzione ossessiva di sé sembrava già più che sufficiente. Non fu un caso se in quegli anni la chirurgia estetica fece capolino nell”immaginario e ci restò.

Il debito ancestrale femminile non si può tuttavia eludere così. Aver stabilito che il dare la vita è una scelta e non un obbligo non cancella la colpa: la donna che non dà la vita resta in ogni caso un”addetta obbligata ai suoi aspetti problematici, quelli che più strettamente confinano con la morte: la malattia, la vecchiaia, la fatica e il dolore. È la natura femminile prendersi cura, dice la vulgata dell”unico paese d”Europa dove la donna è un ammortizzatore sociale; ma è solo un altro modo per ribadire che i difetti della vita sono i confini stessi della nostra colpa ontologica, l”unica che non sarà dimenticata in una civiltà che dell”oblio di sé ha saputo far cultura.

Se dunque non vogliamo dare acriticamente la vita, occuparci del suo limite non solo è oblazione dovuta, ma va vissuta con l”aggravante paradosso di “non poter morire” a nostra volta, giacché non ci è permesso consumarci con dignità mostrando il nostro tempo. Non possiamo neanche invecchiare. Per questo di una donna che non nasconde i suoi anni si dice che sia “poco curata”, rivelando come la “cura” in un mondo come il nostro non sia altro che la negazione del limite.

L”uomo, il maschio, muore e lo sa; lo ha imparato da secoli di narrazioni che lo vogliono laicamente eroe, o religiosamente martire. La sua morte è bella da vedere e da raccontare, è un luogo immaginario vivibile, perché tutti abitiamo i racconti che di noi stessi ci sono stati fatti. Ma per la donna la morte non è un luogo vivibile in prima persona, perché è ancora lo spazio della cura di qualcun altro.

Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti. Dalla madre del crocifisso all”ultima delle vedove algerine, l”unica morte frequentabile è quella altrui, ai cui piedi piangere dolorose. Dopo aver lottato per non farci obbligare alla vita, la prossima battaglia sarà riprenderci la morte, la nostra.

Tratto da:
michelamurgia.com

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