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di Mark Adin.
Abbiamo letto tutti i commenti, di chi lo conosceva e chi no. Mi pare che in pochi abbiano capito davvero cosa facesse là , il “muscoloso” lombardo. Curioso: di lui sono stati notati i muscoli e la erre moscia, l”orecchino e il tatuaggio. Ci siamo dovuti appendere alle sue stesse parole, sul Tubo, perché ci fornissero indizi concreti. Che ci faceva un Lecchese a Gaza? A chi demandava la propria sussistenza? La sua presenza era utile a chi? Come passava la giornata? Di che si occupava la sua organizzazione? Ci siamo tenute tante curiosità , purtroppo, che ci hanno impedito di sapere, e dunque capire. Ci hanno raccontato la morte, ma ne hanno censurato la vita.
L”efferatezza dell”omicidio ha inorridito sopra ogni altra cosa, forse ha reso impossibile spingersi oltre. Certo non ci aspettavamo che dicesse due parole istituzionali il Primo Gangster della Repubblica o qualcuno del suo codazzo, ma insomma.
L”impressione è che una domanda su tutte sia stata taciuta e nessuno abbia avuto la faccia di porla: “Ma non poteva starsene a casa?”.
In effetti, la domanda non è fuori luogo se la traduciamo con “cosa stava facendo lì, esattamente?”.
Sarebbe stato utile ricevere risposte, avremmo compreso qualcosa di più, sarebbe stato importante, avrebbe dato più forza alla sua figura, che avrebbe potuto essere meglio onorata.
Mi ha molto colpito la compostezza della persona dopo di lui più straziata: la madre. Siamo stati impressionati dall”orgoglio civile, dalla assenza di cedimento e di lacrime. Come è possibile che una madre, per di più italiana, possegga tale forza e tanta lucidità ? Dove mai si è vista tanta dignità ?
Soltanto una madre che ha capito, condiviso, pensato, anticipato le possibili conseguenze, può trovare uno stato d”animo così fermo e, nonostante tutto, sereno. Consapevolezza, solidarietà , adesione senza condizioni. Sembra quasi che il dolore abbia sorpreso tutti meno che lei, forse perché questo dolore l”aveva già scontato, con la piena coscienza che quello del figlio non era gioco, che sarebbe potuto succedere, e soprattutto che “quella” era la vita che Vic aveva liberamente scelto, che percepiva pura. Anche per questo la inorgogliva.
Ma la cosa appartiene a loro, al loro intimo intatto legame. Ne siamo fuori.
A me, invece, i pacifisti hanno sempre fatto sorridere. I “colorati cortei del popolo della pace” mi hanno spesso fatto scuotere la testa con le loro banalità pittoresche, gli zaini, i bambini, le chitarre. La dico tutta: persino Gino Strada e i suoi mi sono talvolta sembrati spiazzati, come meccanici che si indignano con gli sfasciacarrozze: anime belle nel posto sbagliato.
No, non è così. E” solo un velo di rabbia di fronte all”agnello sgozzato.
Ognuno di noi ama, a modo suo e secondo una sua misura, l”Utopia. E si incammina per raggiungerla, in uno scalognatissimo percorso nel quale c”è chi cammina veloce e chi lentamente. Ma non si può essere ingenerosi e giudicare gli altri. Sono conti che ognuno è bene tiri per sé, contabilità personali.
Essere utopisti non è un fatto di ingenuità , se mai è una questione di coraggio.
Utopia e coraggio sono elementi indissolubili.
Su una cosa meglio essere chiari, per evitare equivoci: l”Utopia NON esiste, ma NON è inutile cercarla. Essa non è un punto di arrivo, una meta reale; se mai è un cammino, una direzione, una specie di bussola. Non la stazione, bensì il binario. Chi ha più coraggio arriva più in là . E il viaggio, più si va lontano, più diventa pericoloso. Ci si può perdere anche la vita. “Noi siamo gente che finisce male, galera od ospedale” diceva il cantautore, l”aveva capito anche lui.
D”altronde, senza Utopia, non si può cambiare il Mondo per renderlo migliore. Fare di questo impulso un fatto di ingenuità sottende che quello in cui ci troviamo sia il mondo migliore possibile e non si possa cambiare.
Per fortuna siamo in tanti a non crederlo.
Certo, per avere una madre così, bisognerà pure meritarselo, bisognerà pure mettersi in cammino.
Restiamo umani, restiamo utopisti.
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