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'L''arte che umanizza'

'L''arte che umanizza'
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3 Gennaio 2013 - 10.58


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di Anna BrunoComune-info

Fare arte, giocare con l”arte, esternarsi nell”arte significa riempire lo spirito e. creare. E «creare è crearsi», è forgiarsi, prendere forma, ma anche liberarsi delle certezze e rendersi disponibili a cogliere i biblici segni dei tempi. È entrare nel nuovo che, di volta in volta, ci si pone di fronte. Tuttavia questo esige che il vento interiore si faccia prorompente perché possa abbattere le porte della prigionia dell”anima che, a quel punto, trova il coraggio della liberazione per ritornare ad esser creante, aerea, fluida, universale. Senza riserve alcune.

Per abbattere quella porta, simbolo della comunicazione dentro-fuori e delle possibilità altre, sono indispensabili consapevolezza e umiltà. Da sempre, l”uomo vive l”angoscia dell”equilibrio, teso com”è in un”esistenza contrapposta tra materia e spirito, razionalismo e creatività, realtà e sogno. La tensione però è spesso quella di protendere verso una delle due direzioni, ma questo genera squilibrio. È più facile forse, gratifica l”esigenza di controllo della mente e dei suoi occhi scrutatori giudicanti, non richiede di «essere» ma semplicemente di «alimentarsi» di sapere o allora solo di sogno, e di questi far sfoggio.

 

Eppure materia e spirito, perenni duellanti e alleati insieme, se isolati non danno sapore alla vita. Perché la materia possa evolvere e andare oltre, ha bisogno di una lettura attraverso i sensi, attraverso il sentire spirituale. E lo spirituale dal canto suo, se isolato, non avrebbe sostanza a cui ispirarsi. E tuttavia sembra che l”uomo ancora oggi, nonostante il progresso tecnologico, paventi l”equilibrio tra le parti, creatore dell”indiscussa armonia del sé. Anzi sembra che tale progresso abbia inasprito la forza trascinante del sapere, che a quel punto si è sempre più incasellato, inscatolato per argomenti, «industrializzato» e in questo suo habitat difeso, lasciando che la creatività soffocasse per la morsa delle catene. Quando queste non mordono, essa si mette a servizio di utili e non di fini. Alllora tra creativi, creativi a servizio e non più creativi, lo scarto si è fatto enorme. E se arte è comunicazione, l”incomunicabilità è divenuta parte del nostro vissuto.

L”agire artistico di per sé, è conciliatore di tale dicotomia; attiene alla materia quanto all”immaterialità. Si ispira dalla prima per superarla, andare oltre, in sconfinati mondi, a seconda del credo e del sentire dell”artista, che a sua volta lascia il suo operato al libero sentire dell”osservatore. Al confronto con esso, ma solo se l”osservatore è libero di lasciarsi andare e tornare al suo sentire più profondo, quello infantile, magari represso ma mai soppresso.

«Parlare di arte è – per usare un”immagine di Origene – come affidarsi ad un oceano dai tanti misteri», ma forse è questo che più spaventa. L”arte aiuta a svelare i misteri, i propri misteri e ad accoglierli con «afflizione» (laddove per afflizione intendiamo consapevolizzazione) ma anche con umiltà. Per farne tesoro, ricchezza, superamento, evoluzione, ricomposizione degli abissi sconfinati dell”essere. Diceva James Joyce: «Cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere la terra bruta o da ciò che essa genera, dai suoni, dalle forme, dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, una immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere: questa è arte».

La pratica artistica come il vissuto, è creatività, e non estemporanea espressione narcisista. Ma la creatività non può fare da sola. Essa necessita della compagnia dell”impegno, della disciplina, del senso della responsabilità, della ricerca, e di un esercizio continuo. Perché si arrivi allo stupore di fronte allo svelamento del proprio talento represso, nascosto, bloccato, uno di quei talenti di cui racconta la parabola evangelica (Mt. 25, 14-30), portatore di doni e di bellezza, per la natura, per il proprio sé e per quello dell”altro. Fare arte allora è riportarsi alla luce, è riportarsi a sé e al proprio abbraccio.

«L”errore fondamentale, raccontava il poeta francese Jean Josipovici, è stato quello di giudicare la Natura in termini umani quando l”atteggiamento giusto sarebbe stato di giudicare l”uomo in termini di Natura» perché la vita dell”uomo è strettamente legata al cosmo, e se non si torna a questa consapevolezza, se non si ristabilisce l”universale nell”individuale, non riusciremo più a capire il valore del mondo materiale nella sua perfezione fisica. E di conseguenza continueremo ad usarlo male, senza più provare amore per esso. E al posto dell”amore lasciamo che proliferi l”incapacità di amare: «L”uomo razionale, continuava J. Josipovici, è un uomo diviso e come tale, percepisce il mondo esterno come un susseguirsi di problemi intricati e complicati perché i suoi rapporti con la vita si stabiliscono attraverso vie indirette, canali artificiali che a poco a poco finiscono per fargli perdere contatto con quel mondo vivente che egli voleva dominare e che si prende, in tal modo, la sua rivincita».

Non si può allora far vivere la Ragione da sola, il Soggetto ha bisogno dell”oggetto, altrimenti si crea meccanicità, spaccatura, incapacità di percepire l”unità nella dicotomia, e dunque incapacità di amare. E l”arte ha questo compito, ingrato a volte, quello di farci cadere una volta per tutte dentro di noi, di accettare quel terzo occhio di cui ci raccontano nelle loro opere grandi artisti come Mirò, Paul Klee e altri e altri ancora, ma anche i bambini. «mentre l”intelletto fa dell”uomo un solitario, la Poesia, al contrario, lo riporta a ricongiungersi con tutte le cose» e a trovare la pace.

L”artista tedesco Otto H. Jajek all”apertura dell”Esposizione del Dentsherkunstlerbund a Stoccarda disse: «E” nostra intenzione dimostrare che l”arte può contribuire alla realizzazione della pace per l”uomo; che lavorare nell”arte significa lavorare nella pace, che essa serve a far familiarizzare gli uomini tra loro, che l”arte partecipa nel mondo a ciò che costituisce l”uomo». A rafforzare il suo discorso, all”interno della stessa Esposizione, il teologo Hans Kung, offriva una prospettiva rinnovata, illuminata e illuminante, nel senso e la funzione dell”arte: «Nell”età dei mass media, l”arte figurativa non ha certamente più lo stesso valore di informazione (.) si addice ad essa un valore di orientamento di vita (.) il suo particolare servizio all”uomo consiste nel rappresentare sensibilmente, senza cattiva consolazione e falsa consacrazione, ciò che ancora non esiste, il modo in cui potrebbe essere sia l”uomo che la società (.) credo in una nuova arte al servizio di una nuova arte del vivere (.) Io sono convinto che anche oggi l”arte, l”opera d”arte, può essere un grande simbolo», un pozzo inesauribile di simboli e sapienza con l”augurio che, soprattutto in questa fase di crisi, diventi presto un consapevole progetto comune di umanizzazione verso quel tanto sognato «uomo planetario» di cui si affannava a raccontarci Ernesto Balducci e che ritrova i suoi segni sacri, di pace e nonviolenza, nei disegni dei bambini, uguali per tutti i bambini del mondo.

Fonte: http://comune-info.net/2013/01/larte-che-umanizza/

 

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