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Il secolo carbonifero di Erich Priebke

In lui si riassume un’epoca ormai incomprensibile a quasi tutti, oggetto così estraneo ai flussi di oggi da non poterlo nemmeno collocare in un cimitero.[Miguel Martinez]

Il secolo carbonifero di Erich Priebke
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18 Ottobre 2013 - 20.50


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di Miguel Martinez.

Erich Priebke è morto a 100 anni,
una bella cifra per fare riflessioni storiche: è vissuto più a lungo
dell’intero movimento comunista, o del dominio della plastica.

Leggo che è nato il 29 luglio del 1913.

Diciotto giorni prima, il governo bulgaro aveva reso pubblica una lettera che un certo Philippos Spiliotopoulos, ufficiale greco, aveva scritto a casa:

“Questa guerra è
stata molto dolorosa. Abbiamo incendiato tutti i villaggi abbandonati
dai bulgari. Loro hanno incendiato i villaggi greci e noi quelli
bulgari.

Loro massacrano,
noi massacriamo, e il fucile Mannlicher ha compiuto la propria opera
contro tutti gli appartenenti a quella nazione disonesta che ci sono
caduti tra le mani. Dei 1.200 prigionieri che abbiamo preso a  Nigrita,
solo quarantuno restano nelle carceri, e ovunque siamo stati, non
abbiamo lasciato una sola radice di quella razza.

Ti abbraccio dolcemente, e abbraccio anche tuo fratello e tua moglie” [1]

Alcuni mesi dopo, il 1 dicembre del 1913, Henry Ford inaugurava la prima catena di montaggio del mondo, sul modello della catena di smontaggio (“disassembly line“)
delle macellerie industriali di Chicago, dove gli animali venivano
massacrati e fatti a pezzi mentre si spostavano lungo un nastro (trecento operai per ogni maiale). Il corpo umano era finalmente sottoposto a regole che imponevano movimenti rigidi di esseri intercambiabili.

Nello stesso anno, il democratico Woodrow Wilson arrivava alla presidenza degli Stati Uniti e introduceva la segregazione razziale negli uffici del governo federale;
lo stesso Wilson, poi, costruirà l’immenso complesso
militare-industriale che imporrà la segregazione razziale anche nei
ranghi dell’esercito.[2]

Torniamo indietro di meno di un anno: il 25 novembre del 1912, il governo francese introduceva la Prestation, l’obbligo di lavoro forzato nelle colonie per gli indigeni incapaci di pagare le tasse nel denaro che i colonizzatori avevano imposto loro. La Prestation si affiancava alla più antica Corvée nei Villages de la Liberté,
il nome quasi americano con cui i francesi definivano i centri in cui
decine di migliaia di africani venivano costretti a lavorare
gratuitamente per le imprese private della madrepatria che li aveva
liberati, si diceva, dalla schiavitù.

Scaliamo ancora un anno. Spinto da una forsennata campagna mediatica, con tanto di fanciulle indossanti unicamente la bandiera tricolore, un riluttante governo italiano decideva di invadere la Libia:
il primo domino a cadere dell’antico ordine, cui faranno seguito le
rivolte balcaniche contro l’impero ottomano e l’aggressivo panico
austroungarico di fronte alle mire serbe, che accenderà la miccia della
prima guerra mondiale.

Dall’attacco contro la Libia, nascerà
l’inattesa alleanza tra clericali e nazionalisti, questi ultimi i
sostenitori del terzo articolo della dichiarazione dei diritti dell’uomo
e del cittadino, lanciata dalla rivoluzione francese “sotto gli auspici dell’Essere Universale”:

“Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa.”

Il primo novembre del 1911, gli italiani inventarono, in Libia, il bombardamento aereo, base non solo di massacri straordinari, ma anche fondamento del dominio totale dai cieli che subiamo oggi. L’inappellabile diritto Hiroshima, che glorifica ciò che altrove condanna, in base alla distanza in metri tra il carnefice e il cadavere.

Nella fase finale di quella guerra, condotta dal generale Graziani,

“gli arabi
furono allontanati dai pozzi e cacciati nel deserto, dove l’aviazione
italiana ne fece strage. Per anni, si trovarono i loro cadaveri
mummificati lungo le piste che conducono in Egitto. Secondo cifre
ufficiali, nel periodo 1928-31 la popolazione araba diminuì del 37%.

Dei sopravvissuti, quasi la metà era rinchiusa nei campi di concentramento” [3].

Un anno dopo la nascita di Priebke, il chimico Fritz Haber – che in seguito avrebbe ottenuto il Premio Nobel – iniziò a lavorare alla produzione delle prime armi chimiche per conto dell’esercito tedesco. Presto imitato dai francesi, dagli inglesi e anche dagli italiani, che con l’aiuto di una tonnellata di iprite vinsero la battaglia di Vittorio Veneto contro un esercito austriaco già dissoltosi da diversi giorni.

In tutti questi elementi, apparentemente così diversi, vediamo il segno di un nuovo mondo, dove la forza statale e militare cerca di determinare i processi storici, attorno al nucleo della nazione, definito controllando il lavoro e i corpi e stabilendo chi fa parte della comunità e chi no.

Ma proprio mentre nasceva Priebke,
successe qualcosa che destabilizzò tutti questi elementi: il momento
magico fu quando il ministro della marina inglese, Winston Churchill, in
collaborazione con la Anglo-Persian Oil Company, decise di far usare il petrolio anziché il carbone alla marina militare inglese.

Il carbone ha una doppia valenza: è insieme risorsa energetica ed elemento costitutivo dell’acciaio.

La riforma di Churchill non solo avviò il passaggio dal solido al liquido, che caratterizzerà tutta l’epoca successiva.

Mettiamo in fila le parole: terra,
carbone, miniere, minatori, grandissime imprese e anonime maestranze,
classi, classe operaia, lotta di classe, eserciti di massa, Germania,
ingegneria, acciaio, stato…

Togliamo il carbone,
e in un colpo solo, comprendiamo la radice materiale di due guerre
mondiali e del grande collasso in cui potè esplodere la rivoluzione
bolscevica, una variante della visione del Controllo Totale.[4]

Il sistema statunitense,
come vediamo da questo video che risale alla seconda guerra mondiale,
riesce a salvare il rapporto acciaio/carbone, pur entrando nell’era del
petrolio, creando così un’inimitabile sintesi di violenza militare e flessibilità capitalistica.

La Germania non aveva invece accesso al petrolio, e qui cogliamo le tremende conseguenze della crisi di un dispositivo straordinario che, essendo capitalistico, deve aumentare incessantemente la produzione e non può farlo.

Il che suona molto marxista e astratto, finché non pensiamo alle vite vere delle persone.

Immaginiamo dei bambini, attorno ai dieci anni, che giocano attorno alla casa di Priebke mentre nasce Erich.

Nessuno di loro arriverà ai cinquant’anni, almeno non nella maniera in cui ci siamo arrivati noi.

Uno scomparirà nelle sabbie della Libia, l’altro congelato davanti a Leningrado.

Uno finirà a sparare su presunti
partigiani bielorussi di cui non conosce la lingua,[5] un altro
apprenderà in trincea che la sua famiglia è stata sterminata in un
bombardamento aereo.

Un altro, diventato comunista, sarà impiccato di notte dalla Gestapo, e un altro ancora morirà di stenti, schiavo in una miniera comunista negli Urali.

Un altro ancora, lasciato morire di fame
mentre cerca di mangiare l’erba in un campo americano, con la scusa
perfetta – la guerra è finita, non è un prigioniero di guerra e quindi
il cibo non gli è dovuto.

I pochi sopravvissuti dovranno imparare a
rinnegare la propria gioventù, a scivolare via come se non fossero mai
esistiti, a nascondere le colpe vere e a caricarsi di colpe che non
hanno. Senza la stupenda via di fuga degli italiani, che hanno potuto
godere del piacere di massacrare accanto ai perdenti e di festeggiare
accanto ai vincitori.

Le strutture tendono a sopravvivere per
decenni al crollo delle proprie fondamenta, soprattutto in tempi sempre
più accelerati come i nostri.

Solo adesso comincia a dissolversi del tutto il pilastro dell’era del carbone, lo Stato Nazione, sommerso ormai da onde di petrolio.

Paradossalmente, queste sopravvivenze scompaiono nello stesso momento in cui finisce impercettibilmente ma per sempre, anche l’era del petrolio.

E quale simbolo migliore di ciò, della morte di Erich Priebke, nel cui corpo e nei cui processi mentali così poco flessibili si riassume un’intera epoca ormai incomprensibile a quasi tutti, oggetto così estraneo ai flussi contemporanei da non poter essere nemmeno collocato in un cimitero.

Quanto più comprensibile il dialogo tra giovani italiani in vacanza pagata a Nassiriya, nell’Iraq, alcuni anni fa:

«Lo vedo da dentro il trigicon (mirino ndr) – esclama il militare, un carabiniere della Msu – guarda quanto è bellino là a terra, lo vedi che muove la testa?» E la risposta: «Guarda come si muove sto bastardo: Luca annichiliscilo». Qualche minuto dopo si saprà che «Luca sta sera non paga da bere, lo ha annichilito, ha ammazzato il cecchino».

I nostri ragazzi, gli “Eroi di
Nassiriya” di tante strade e piazze, siamo certi, nell’improbabile
ipotesi che qualcuno chiedesse loro il conto, sarebbero felici di
pentirsi pure su Facebook:

“Quando un soldato italiano muore, le sue stellette si staccano, e salgono in cielo ad aumentare le gemme del firmamento.

Per questo, forse, il nostro cielo è il più stellato del Mondo.”

L’Italia migliore, insomma, figuriamoci quella peggiore.

In fondo, il pentimento pubblico
– opposto ai ripensamenti profondi e sinceri di una vita, magari velati
per pudore – è il rito supremo che, nell’Italia clericale, permette di
essere riammessi ai piaceri della sudditanza.

Quanto vorrei poter alzare il telefono e chiamare Roberto Giammanco
per parlare di questo articolo, ovunque lui si trovi. Spero che
qualcosa dell’apertura di spirito che lui mi ha insegnato, si trovi tra
queste righe.

Note:

[1] Non possiamo garantire dell’autenticità di un documento pubblicato dai nemici dei greci; quello che ci interessa è la definizione di un campo di discorso, quello di ciò che verrà poi chiamato “pulizia etnica”.


[2] I media statunitensi crearono il mito, sembra falso,
del corridore Jesse Owens con cui Hitler si sarebbe rifiutato di
congratularsi perché era nero. Al suo ritorno dalla vittoria, la
direzione dell’albergo Waldorf Astoria obbligò il negro a prendere l’ascensore di servizio perché non si mescolasse con i bianchi. Con grande dignità, Owens disse:


“Dopo tutte
quelle storie che ho sentito a proposito di Hitler e il suo rifiuto di
salutarmi, sono tornato al mio paese di nascita, e non mi veniva
permesso di sedermi nella parte anteriore di un autobus”, ricordava
Owens. “Sono stato costretto a restare nella parte  posteriore. Non
potevo vivere dove volevo. E allora dove sta la differenza?”


[3] Sven Lindqvist, Sei morto! Il secolo delle bombe, Milano, Ponte alla Grazie, 2001, p. 115.


[4] Infatti, fu proprio nel marzo del 1913 che Lenin scrisse un opuscolo intitolato, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo:


“La dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta.
Essa è completa e armonica, e dà agli uomini una concezione integrale
del mondo, che non può conciliarsi con nessuna superstizione, con
nessuna reazione, con nessuna difesa dell’oppressione borghese. Il
marxismo è il successore legittimo di tutto ciò che l’umanità ha creato
di meglio durante il secolo XIX: la filosofia tedesca, l’economia
politica inglese e il socialismo francese.”


Non solo ogni bene viene dall’Occidente,
ma la “dottrina giusta” può cambiare la storia, come presumevano anche
le volontà nazionaliste; viceversa, si è sempre manifestatori di un ineluttabile destino, che sia della razza o della classe.


[5] Tra l’incudine nazista e il martello sovietico, circa due dei nove milioni di abitanti della Belorussia persero la vita, e altri milioni furono deportati e ridotti in schiavitù dalle due parti. Lo sapevate?

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