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Enrico Berlinguer non muore

'Trent''anni dopo la scomparsa del segretario del PCI, scomparso anche il PCI, va analizzato perché oggi cresca il richiamo alla questione morale da lui posta.'

Enrico Berlinguer non muore
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11 Giugno 2014 - 12.27


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di Salvatore Cannavò.



Il ricordo non è mai solo un ritorno al passato. Serve, spesso, a
rivivere il presente selezionando e riadattando la memoria. Si spiega
così il diffuso bisogno di Enrico Berlinguer. A pesare,
nell’immaginario di questi giorni, c’è indubbiamente la forza del
trentennale, le rievocazioni su stampa e in tv, il film molto ben
recensito di Walter Veltroni. Eppure, in questa
overdose di berlinguerismo di ritorno si fa a fatica a distinguere il
bene dal male, il bisogno dall’eccesso, l’utilità dalla rimozione.

In campagna elettorale, ad esempio, i leader dei due principali schieramenti, Renzi e Grillo, si sono strappati di mano i lembi di quell’eredità a colpi di urla e insulti: “Giù le mani”, “sciacquatevi la bocca”. Come ha spiegato al Fatto Achille Occhetto,
entrambi hanno pochi titoli per intestarsi azione e pensiero
dell’ultimo grande leader comunista. 

Se Berlinguer fosse vivo, per
cultura e formazione sarebbe ben distante dal Movimento 5 Stelle e lo
guarderebbe magari incuriosito ma restando estraneo a quel miscuglio,
spesso creativo altre volte confuso, di partecipazione dal basso e di
potenza leaderistica. Lui, che di fronte al movimento del ’77, utilizzò
la categoria degli “untorelli” e scomodò il riferimento
ai “diciannovisti”, non era certo uomo di movimento e di
scompaginamento. 

Ma nemmeno si può dire che c’entrasse con un partito,
il Pd, che del Pci raccoglie l’eredità simbolica ma di cui non esprime
nessuna continuità. Quel partito, comunque lo si giudicasse, è stato la
rappresentanza, spesso moderata altre volte più radicale, di un
interesse corposo e radicato nel Paese: il mondo del lavoro,
di cui costituiva la speranza di riscatto. Berlinguer parlava al
“popolo lavoratore”, alla “classe lavoratrice”, termini che Renzi salta a
pié pari non in virtù di un’analisi post-industriale ma per convinzione interclassista.
Nemmeno si può realizzare una linea retta tra chi ancora viveva dentro
la scia formata dalla Resistenza, dai suoi uomini, i suoi valori e la
loro rettitudine di fondo e chi, oggi, è chiamato a rispondere di tutte
le inchieste giudiziarie sul rapporto tra affari e politica.

Il
punto vero è che Berlinguer è un uomo d’altri tempi, figlio della
politica del secondo Novecento, con le sue grandezze e le sue miserie. Ha attraversato il cuore dell’esperienza comunista,
avendo il tempo per essere apprezzato da Togliatti e poi divenirne il
migliore erede. Tra il “compromesso storico” e la “svolta di Salerno”
non c’è soluzione di continuità, una volta esclusa la via
insurrezionale, al Pci non restava che cercare la via democratica al
socialismo che, in Italia, nel secondo ’900, passava per un rapporto,
anche conflittuale ma inesorabile, con la Dc. Quanto duro fosse quel
conflitto lo sperimentarono entrambi. Il primo cacciato dal governo De Gasperi e poi battuto nel ’48; il secondo usurato da Andreotti e Moro, fino alla tragica uccisione di questo, e poi costretto a un lento rinculo.

In questa parabola politica, Berlinguer può essere considerato l’ultimo leader comunista. Dopo di lui si avrà solo una gestione opaca, quella di Alessandro Natta,
e poi il declino e lo scioglimento celebrato da Achille Occhetto.
L’ultimo segretario resta lui anche perché con lui il Pci consuma la sua
parabola eccezionale: con lui tocca le vette elettorali del ’76; poi,
sull’onda dell’emozione della sua morte, realizza il sorpasso sulla Dc
alle europee del 1984. Nel più grande funerale politico della storia
italiana si condensa il senso di questa parabola. In quel giorno di
giugno, infatti, un intero popolo, quel “paese nel paese” di cui parlò
Pasolini, intuì che una storia era finita, che un ciclo si era
consumato. Il Pci ci aveva provato a trasformare l’Italia, sia pure in
forma originale, ma alla fine fu costretto ad arretrare. Più forte di
tutto era stata la protervia di Bettino Craxi, la spudoratezza di Giulio Andreotti,
la pochezza della classe dirigente italiana. La via italiana al
socialismo ha prodotto importanti riforme – l’Italia avanza realmente
solo tra gli anni 60 e i 70 per poi inabissarsi nel buio – ma non ha
prodotto quello che in America latina chiamano “il cambio”, il
mutamento, la palingenesi.

Eppure, ed ecco il bisogno del presente, Berlinguer non muore.
Di Forlani nessuno ricorderà nemmeno il nome e Craxi sarà per sempre
uno dei tanti mali di questo Paese. Ma “l’Enrico nazionale” resterà in
futuro anche perché riuscì a chiudere la parabola del Pci con la forza
evocativa della questione morale. La stessa sua morte,
avvenuta in piedi, davanti alla propria gente guardata in faccia con un
sorriso malcelato nonostante il malore, è intimamente connessa al rigore
morale dell’uomo. Quello che ognuno ha deciso di portarsi nel proprio
serbatoio dei ricordi personali. Messo all’angolo dal pentapartito,
privo di alleanze, finito “in mezzo al guado”, Berlinguer decise di
cercare l’alleanza direttamente con il popolo, non solo il suo. La
“questione morale” servì al Pci per reggere all’onda d’urto della
sconfitta di fine anni 70, all’inversione a U che la lotta di classe,
allora, subì dopo i 35 giorni alla Fiat, al contesto internazionale
incrinato dall’avvento del neoliberismo di Reagan e Thatcher
e dagli scricchiolii dell’Urss. In quel passaggio intuì che al partito
che guidava serviva un fondamento più ampio e una base per reggere al
cambiamento di fase. Colse un’esigenza diffusa. Si
servì di un credito accumulato e della “diversità” che il Pci poteva
ancora sbandierare. Il filo di quell’intuizione non fu srotolato perché
morì improvvisamente e perché, senza di lui, scoppiò la rissa nel Pci e
l’incapacità, o impossibilità, di uscire fuori dal guado.

L’intuizione
si rivelerà feconda negli anni e nei decenni a venire. La crisi della
politica, che conosceremo poi, è, infatti, in primo luogo crisi morale –
sia sul piano degli affari e delle inchieste che su quello della
distanza dalla vita reale – per questo Berlinguer è vivo e attuale.
Ha reagito alla crisi del progetto comunista lanciando nel futuro
un’idea della politica resa possibile solo in virtù della propria
credibilità. E lo ha fatto potendo riassumere su di sé, sulla propria
persona, tutta la forza accumulata da quel mondo che lo saluterà
disperato al suo funerale. La questione morale è il prodotto del “paese
nel paese” e quella “classe lavoratrice” gli consentirà di accendere una luce per i posteri. Nessuno ci riuscirà più con quella forza e quella credibilità. Per questo vive ancora.

Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/11/enrico-berlinguer-non-muore/1023010/.

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