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Nuovi e vecchi realismi

«Il leader è tale, oggi, quanto più sfugge alle appartenenze, quanto più appare altro da quegli organismi che sono i partiti...». [Luca Illetterati]

Nuovi e vecchi realismi
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14 Ottobre 2014 - 09.41


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di Luca Illetterati

La metafora organica ha un ruolo fondamentale all’interno della teoria politica. Le istituzioni sono spesso considerate come forme di organismo; il sistema del diritto viene pensato in termini di corpo delle leggi, le parti dell’organismo statale vengono definite perlopiù in termini funzionali, nello stesso modo in cui le parti di un vivente vengono descritte nel loro rapporto con il tutto di cui sono, appunto parti.

Secondo Kant, ad esempio, se uno stato dispotico può essere paragonato a un mulino a braccia, per cui coloro che fanno funzionare la macchina agiscono sotto il giogo dell’imposizione e per uno scopo che non li vede di fatto coinvolti, uno stato costituzionale lo si può paragonare invece a un corpo organico, nel quale ogni parte è se stessa solo in relazione alle altre parti e il tutto è tale solo attraverso l’azione integrata delle sue varie parti.

La metafora organica, presente in realtà già nella tradizione classica, diventa dopo Kant una sorta di luogo comune nel descrivere il rapporto fra il tutto e le parti di quegli enti sociali che sono gli stati. Un invasato Hans Castorp, il giovane protagonista della Montagna incantata (o magica, nella nuova traduzione) di Thomas Mann, all’interno di una lunga e strepitosa discussione sul concetto di vita in senso biologico giunge addirittura a dire che la città, lo stato, in generale le comunità organizzate in base alla suddivisione del lavoro non sono semplicemente da paragonare alla vita organica, perché si tratta a tutti gli effetti di corpi che replicano la vita dei corpi biologici.

L’aspetto interessante che in qualche modo rimbalza nelle stesse pagine di Mann è che da una parte il ‘900 è certamente il secolo della critica delle teorie politiche di tipo organicistico, lette come elementi di dominio della totalità sugli individui, dall’altra, sempre il ‘900 è altrettanto certamente il secolo in cui la vita, nel suo aspetto fisico e biologico, diventa l’oggetto stesso della pratica politica.

Uno degli elementi che sembra connotare le democrazie contemporanee è peraltro la perdita di potere esplicativo del linguaggio plasmato sulle metafore organicistiche. E non tanto e non solo per il sostituirsi ad esse di metafore tecniche, che non sarebbe certo un elemento di novità essendo questo radicato nel sorgere stesso delle teoria politica moderna, quanto piuttosto per uno smottamento ben più radicale che chiama in causa il rapporto fra le parti, e fra le parti e il tutto, che è proprio tanto della macchina quanto dell’organismo.

Come se le parti che compongono gli organismi sociali si fossero, in una qualche strana forma, progressivamente autonomizzate, rese ognuna indipendente e separata dal resto. Con conseguenze radicali, di cui vediamo, forse, adesso, solo aspetti ancora marginali. Dentro questo tipo di società, ad esempio, il leader non è più colui nel quale le masse si identificano in nome di una qualche appartenenza. Il leader è tale, oggi, quanto più sfugge alle appartenenze, quanto più appare altro da quegli organismi che sono i partiti, i quali, nelle democrazie contemporanee, si comportano come certe fibre organiche, che si muovono e rispondono agli stimoli come fossero ancora vive, pur essendo, di fatto, morte.

Di fronte al crollo di autorità ed autorevolezza dei più diversi organismi collegiali, che fino a qualche tempo fa avevano una funzione decisiva in relazione al funzionamento organico della struttura statale (sindacati, partiti, organizzazioni degli industriali, ecc.), il potere sembra giocarsi oggi perlopiù a livello di un riconoscimento sintonico immediato, che sfugge alle tradizionali logiche di comprensione, fra il sentire comune espresso nelle forme più varie e dislocate e un individuo specifico che in qualche modo le incarna.

Di qui l’importanza dei sondaggi o di quel surrogato di legittimazione che sono le consultazioni online, le quali hanno la funzione di bypassare tutti gli organismi tradizionalmente deputati alla rappresentanza e di coprire, con una vernice luccicante di democrazia diretta e retorica della trasparenza, decisioni in realtà iperverticistiche.

Si capisce più in profondità e nelle sue radici questo processo leggendo l’ultimo libro di Roberto Esposito (Le persone e le cose, Einaudi, 2014): un piccolo volume, che, da un lato mira ad essenzializzare in forma molto agevole e fluida il percorso segnato dai suo precedenti lavori (soprattutto Immunitas, del 2002, Bios, del 2004, Terza persona del 2007 e Due del 2013, anche questi tutti per Einaudi) e dall’altro sembra aprire un nuovo programma di ricerca in questo suo originale tracciato che lega criticamente storia dei concetti, filosofia politica e ontologia.

Secondo Esposito uno dei tratti fondamentali delle società occidentali, uno degli elementi costitutivi della metafisica conscia ed inconscia che ne determina le strutture portanti – ciò che Michel Foucault avrebbe chiamato i regimi di verità e dunque le pratiche del potere – è la grande divisione fra le persone e le cose. Quella che si potrebbe chiamare l’ontologia del senso comune si basa, in effetti, su questo discrimine, per cui l’essere persona viene a definirsi come il non-essere cosa e l’essere cosa come il non-essere persona. Se si pensa a una parte consistente del dibattito bioetico su inizio vita e fine vita questo è perlopiù il lessico che viene utilizzato, per cui ci si chiede, con procedimenti astrattivi che talora gridano vendetta, quando un certo ente comincia ad essere persona o quando smette di esserlo per diventare cosa. Persona è dunque la non-cosa e cosa è la non-persona.

Ovviamente dietro questa ontologia ingenua si nascondono infiniti problemi e una dose non indifferente di ideologia. Uno degli aspetti certamente più interessanti del lavoro di Esposito è proprio la decostruzione che egli opera di queste due nozioni, quella di persona e quella di cosa, ovvero l’operazione di svelamento che egli mette in atto dei dispositivi che stanno alle spalle di questa grande divisione e della dialettica strutturale che in realtà unisce le persone e le cose o che, per meglio dire, rende possibile il passaggio dallo stato di persona allo stato di cosa e da quello di cosa allo stato di persona.

Che le cose abbiano a che fare con le persone è evidente dalla strepitosa rilevanza che la proprietà delle cose riveste per le persone. Il possesso delle cose è, infatti, ciò che segna la differenza, nelle guerre, tra il vincitore e il vinto; e non a caso nel diritto romano il possesso è il discrimine tra coloro, i patres, che possono godere di un prestigio e di un potere (sancito appunto dal patrimonium), rispetto a quelli che ne sono invece privi.

E’ evidente dunque che la padronanza delle cose porta con sé, quasi come suo corollario, la disponibilità delle persone, trasformando appunto quella che appare come un’opposizione fondamentale e apparentemente salda in una implicazione reciproca, per cui il concetto di persona, per autosostenersi e legittimarsi (si pensi alla dinamica hegeliana del riconoscimento), ha bisogno che esistano persone di cui disporre e che sono, dunque, a un tempo, sia persone che cose. E’ questo, ad esempio, lo statuto degli schiavi, i quali sono appunto tali proprio perché sono, a un tempo, sia persone che cose. Uno statuto anfibio tra persona e cose che essi condividono nell’ordinamento romano – e quindi nel fondamento del lessico giuridico – con altre categorie, come quella delle mogli, dei figli, dei debitori insolventi.

Ciò che consente questo passaggio dalla persona alla cosa, secondo Esposito, è il corpo. Una persona può infatti entrare nella sfera di disponibilità di un’altra persona e assumere in questo modo lo statuto di cosa, solo in quanto corpo. Anzi a ben vedere è proprio la distinzione classica tra anima e corpo, quella cristiana tra corpo e spirito, e quella moderna tra res cogitans e res extensa ciò che rende possibile considerare un ente sia come persona che come cosa. Una distinzione (quella tra corpo e anima/spirito/mente) che è, in realtà, l’occultamento più estremo e radicale dell’esperienza del corpo vivente, in quanto si fonda sul dominio ontologico dell’elemento immateriale rispetto a quello corporeo, il quale si trova così ridotto, necessariamente, a cosa.

In realtà, ciò che il dispositivo fondamentale di questa grande dicotomia che sta alla base del senso comune, del diritto, della teologia e della filosofia non pensa o non può pensare è in effetti, secondo Esposito, proprio lo statuto ontologico del corpo, la sua peculiare consistenza, il suo modo d’essere e le ragioni che esso incarna. Pensare radicalmente la corporeità significa, infatti, giocoforza, mettere in discussione gli assi portanti della grande divisione tra persone e cose; portarne alla luce gli effetti ideologici, rendere attivo un movimento di sgretolamento della pretesa autosussistenza delle nozioni di persona e di cosa e conseguentemente degli edifici giuridici, teologici ed epistemici che si fondano, in diversa misura, proprio su di esse.

Se da una parte questa ontologia binaria che divide il mondo in persone e cose è, secondo un paradosso solo apparente, la condizione di possibilità del passaggio dallo stato di persona allo stato di cosa, essa è, peraltro, anche all’origine dell’assoggettamento delle cose alle persone, per cui esse, nel momento stesso in cui entrano all’interno della logica del discorso, vengono negate in quanto cose, vengono trasformate in simulacri universali in cui la concretezza della cosa, la sua viva presenza, viene annullata. In questo starebbe anche il pericolo delle diverse forme di realismo oggi di moda, sostiene Esposito. E cioè che la cosa ci venga di fatto sottratta proprio dal movimento che la approssima, ovvero che il cosiddetto “ritorno al reale” nasconda, al suo interno, ideologicamente, un vortice annientante.

Ciò che si tratta dunque di pensare juxta propria principia è il corpo, l’essere del corpo, la sua irriducibilità tanto allo statuto della persona, quanto a quello della cosa; una irriducibilità negata e rimossa in quello che viene considerato da Esposito, talvolta forse con un eccesso di generalizzazione, il dispositivo della grande divisione: “soltanto il corpo – scrive Esposito – è in grado di riempire lo iato che due millenni di diritto, teologia e filosofia hanno scavato fra cose e persone, ponendo le une nella disponibilità delle altre”.

Se da una parte, dunque, il corpo, proprio in quanto obliato nella sua specifica consistenza ontologica, è stato il terreno di transito dalla persona alla cosa, esso è anche il punto di contrasto dell’ordine dicotomico che rende possibile questo passaggio, l’elemento in grrado di far deflagrare la grande divisione.

Di qui la centralità concretamente politica di un pensiero del corpo. Pensare il corpo come categoria politica appare, in effetti, quanto mai necessario quanto più il lessico filosofico politico classico, fondato sui concetti politici moderni e sulla loro metafisica, si mostra oggi incapace di pensare sia le forme ancora spesso confuse e disordinate che va assumendo la coagulazione sociale di nuove soggettività sia unas nuova e per molti versi inedita pratica del potere.

Accanto allo spappolamento di quelle strutture di mediazione fra sovrano e popolo che sono i partiti e i tutti i corpi cosiddetti intermedi e accanto e allo sfaldamento delle strutture istituzionali chiamate a gestire l’equilibrio tra la funzione impersonale e le persone che le costituiscono, va infatti assumendo una rilevanza sempre più decisiva da una parte una pressione di corporeità ancora non identificate e resistenti ai diversi processi di identificazione tradizionali, dall’altra la persona del leader, che non a caso è tanto più riconosciuto quanto più è (altezzosamente) solo, quanto meno si trova cioè immerso all’interno di un organismo collettivo, ovvero quanto meno si riferisce ad appartenenze collettive. Un processo che, sciogliendo i corpi della rappresentanza mette al centro il corpo fisico del leader: il suo linguaggio specifico ed immediato, la sua gestualità, il suo modo di vestire, il suo modo di gestire direttamente, al di là di tutti gli apparati, la comunicazione.

Non si capisce nulla di tutto questo e in generale di quella che viene chiamata a volte genericamente la spettacolarizzazione della politica, se non si mette in campo una concettualità nuova in grado di porsi al di là della tradizionale dicotomie tra persone e cose. Oppure, peggio, per rimanere ancorati alle metafisiche rassicuranti, si interpreta tutto questo banalmente come un effetto parentetico tutto interno alle tradizionali pratiche del potere.

Altrettanto, se si rimane legati alle forme di pensiero tradizionali e dunque alla logica e alla metafisica che sottendono, rischia di diventare del tutto sterile qualsiasi esercizio di critica e di opposizione. E questo perché la realtà, su questo converrà anche Esposito, malgrado la sua critica ai nuovi realismi, resiste alle sue riduzioni intellettualistiche e non accetta di essere ridotta a un sistema categoriale e a un universo concettuale del tutto inadeguato alla possibilità di una sua comprensione.

(14 ottobre 2014)

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