soprattutto nei film di Hollywood che continuano ad esaltare il coraggio
delle grandi testate o di singoli giornalisti con toni romantici e a
volte epici. Che fanno cassetta, ma non rispecchiano la realtà . Dai
tempi del Watergate i media americani hanno visto erodere buona parte
della propria credibilità , sotto i colpi di una serie di inefficienze e
talvolta di scandali. Dai giornalisti pluripremiati che inventavano
storie di sana pianta, all’incapacità cronica e talvolta compiacente di
contrastare le tecniche degli spin doctor per orientare i media,
l’elenco è lungo e tutt’altro che lusinghiero.
Ora Sheryl Attkisson, grande della star Cbs, lancia un j’accuse pesante nel suo ultimo libro “Stonewall“.
In parte non sorprendente: che la maggior parte dei giornalisti
americani siano liberal ovvero di sinistra e che riservino a Obama un
atteggiamento privilegiato, fazioso quasi fino al servilismo, era giÃ
stato denunciato da alcuni studiosi.
Dove invece la Attkisson squarcia davvero un velo è sulla parte
invisibile della gestione dei grandi media americani, sulle connessioni
invisibili con l’establishment. Secondo la Attkisson, la decisioni su
cosa pubblicare e cosa no, vengono prese da una ristretta cerchia di
dirigenti di New York, legati all’establishment che ragiona e decide
secondo criteri imperscrutabili e prevaricatori. «Ci chiedono di creare una realtà che coincida con quello che fa comodo credere a loro», denuncia la star della Cbs. E chi non si adegua, chi si ostina a
fare il proprio lavoro di inchiesta liberamente, intepretando il ruolo
di cane da guardia, viene emarginato, intimidito, escluso.
E’ quel che è successo alla Attkisson non appena ha toccato temi
sgraditi alla Casa Bianca. Messa subito all’indice, con corollari
inaccettabili in democrazia , come il sistematico e impunito hackeraggio
del suo computer da parte dei servizi segreti. Roba da Unione
Sovietica, non da libera America.
Il quadro che emerge è quella di un mondo mediatico che tende ad
assecondare le volontà dell’establishment anziché monitorarlo e
sfidarlo. Il potere delle lobby è quasi assoluto eppure quasi mai
descritto e men che meno denunciato dalla stampa. Le reti che contano a
Washington non sono mai rivelate, certi temi scomodi e davvero
importanti per la società Usa al più sfiorati, la ricostruzione dei
grandi fatti della politica internazionale sempre monocromatica e
conformista. Le penne che non si adeguano vivono sul web ma non trovano
spazio in tv o sulle grandi testate. La Attkisson non è sola. Il più
grande giornalista d’inchiesta, Seymour Hersh, da tempo, non a caso, è
fuori dal giro dei giornaloni. Opinionisti di calibro ma fuori dagli
schemi come Paul Craig Roberts, ex assistente di Reagan, vengono
marginalizzati.
L’impressione è che i mali della stampa si inseriscano in un contesto
più ampio, nel quale la comunicazione è usata sempre più a fini
strategici, con modalità opache. Oggi sappiamo che le rivoluzioni
democratiche in Egitto, Tunisia e Libia sono state in realtÃ
generosamente ispirate da Washington, così come la rivolta di Piazza
Maidan a Kiev, dove, pur di sottrarre l’Ucraina all’influenza russa,
l’Occidente ha sdoganato gruppi paramilitari neonazisti. Cinismo della
politica internazionale, certo; ma oggi le guerre si combattono non
solo con le armi, anche, talvolta soprattutto, usando tecniche
asimmetriche come l’influenza mediatica.
Singolari, ad esempio, sono gli scoop del Consorzio internazionale del giornalismo,
che l’anno scorso ha attaccato le piazze offshore e la scorsa settimana
ha svelato le pratiche fiscali in Lussemburgo, in entrambi i casi
avendo accesso a una mole impressionante di documenti riservatissimi, di
cui il Consorzio, ovviamente, non rivela la fonte. Chi può aver violato
così massicciamente la riservatezza di grandi gruppi o di archivi di
Stato? Non certo un manipolo di volenterosi cronisti… Qualcuno
ovviamente li ha imbeccati fornendo file solitamente inaccessibili.
Sottratti da chi? A quali fini? E perché ora?
Queste sono le domande
che la stampa libera dovrebbe porsi, ma che in realtà non formula mai.
Semmai fa da cassa di risonanza, con effetti pervasivi, sovente
devastanti e la Svizzera lo sa bene. La pressione mediatica è stata
decisiva per indurre Berna alla resa sul segreto bancario, benché le
premesse giuridiche fossero infondate, come è stato dimostrato dall’assoluzione del banchiere Weil.
Ma questi sono i metodi che vengono usati per vincere le guerre
invisibili. E che pochi giornalisti capiscono e ancor meno denunciano.
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