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'Eoo, il vento che soffia dall''Est'

'L''architettura per una geopolitica "Eoocentrista". Il superamento degli stati nazionali a favore di nuovi centri di potere e fazioni transnazionali. [Giovanni Caprara]'

'Eoo, il vento che soffia dall''Est'
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7 Gennaio 2015 - 10.16


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di Giovanni Caprara

Nel linguaggio politico e sociale, il vento non è più solamente una condizione atmosferica, ma viene declinato a sinonimo di cambiamento e novità. Da Est spira l’Eoo, che attraversa tutta l’Asia in direzione dell’Occidente. Un evento atmosferico rapportabile al nascente trilateralismo Cina, Russia ed Iran. O meglio quello che resta dei Brics.

Le rivalità geopolitiche fra i principali attori nella scena globale hanno ridisegnato gli scenari internazionali: l’annessione della Crimea alla Russia, la candidatura ucraina ad entrare nella Nato, le dispute fra Cina e Giappone per la predominanza su un braccio di mare, l’Iran che tenta di aumentare la propria credibilità in materia di nucleare e di alleanze con Siria ed Hezbollah, l’Isis come nuovo nemico e la Palestina che sta ottenendo sempre più consensi politici dall’Occidente. Contrapposizioni che rinnovano l’importanza strategica per la geopolitica, come campo di influenza sulle dinamiche regionali e globali.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, si sono poste come leader della governance mondiale, adottando schemi non innovativi ed affrontando solo marginalmente questioni di alta rilevanza come la liberalizzazione del commercio, piuttosto che il cambiamento climatico. L’approccio al nuovo ordine mondiale di Usa ed Ue, è avvenuto con una posizione sostenuta dall’obsolescenza dell’hard power russo e della scarsa credibilità dell’economia cinese, basata sullo sfruttamento della popolazione. Ma la ripresa militare e politica della Russia, quanto l’affermazione della Cina come potenza finanziaria, hanno sovvertito le stime Occidentali, benchè le aspettative delle due Nazioni abbiano subito una battuta di arresto: Eric Delbecque e Christian Harbulot, hanno sottolineato il rischio del patriottismo economico, inteso come una ideologia protezionista ed isolazionista. Due aggettivi che sembrano riassumere le dinamiche economiche e la politica cinese.

La prima è principalmente fondata su una produzione interna basata sullo sfruttamento della popolazione con salari minimi ed orari di lavoro massacranti. Se tale condizione dovesse subire un cambiamento, il patriottismo economico potrebbe ingenerare un effetto contrario alle aspettative dei decision makers cinesi. Pertanto, la Cina dovrà aprirsi ai mercati esteri, o puntare sul mercato interno variando le regole che lo contraddistinguono: il sistema economico mondiale è “chiuso”, per cui ad un esportatore deve coesistere un importatore.

La Cina, ha effettivamente iniziato il viatico di prediligere un maggior consumo interno piuttosto che esportare merci, ma questo non ha ancora sortito gli effetti sperati, in quanto ai minori introiti provenienti dall’estero, si aggiungono i mancati guadagni interni perchè esiste ancora un’importante percentuale di cinesi meno abbienti, e dunque non in grado di acquistare beni di prima necessità.

Il modello economico cinese, una fusione tra capitalismo e socialismo, con un ruolo essenziale assegnato alla pianificazione, è stato il motore principale della crescita esponenziale acquisita negli ultimi trent’anni. In una società globalizzata, però, rischia di risultare obsoleto. La pianificazione garantisce una spinta decisionale, ma compromette la capacità di reagire in fretta a cambiamenti repentini. Esattamente gli stessi che caratterizzano il mondo contemporaneo. Il ritmo di crescita asiatico si è abbassato di tre punti percentuali, anche per una questione meramente fisiologica: il Pil cresce se ci sono tanti “spazi” da occupare, dove per spazi si intendono persone, settori e territorio. La Cina è sterminata, ma non infinita.

Esiste comunque il pericolo reale che la posizione cinese provochi il coagularsi di due blocchi economici, uno occidentale ed uno asiatico. Quest’ultimo porterebbe ad una situazione potenzialmente conflittuale. Infatti la Cina non corre alcun rischio di deflusso delle gestioni di portafoglio come conseguenza della riduzione degli acquisti di titoli da parte della Fed. E, naturalmente, le smisurate garanzie pubbliche della Cina, pari a 3.800 miliardi dollari in riserve di valuta estera, offrono un’ampia assicurazione in caso di contagio finanziario.

Il sistema bancario cinese è in [i]credit crunch[/i]: la Banca centrale di Pechino è intervenuta, con quello che nelle sale trading è definito “un-taper”, cioè ha iniettato nel sistema finanziario 29 miliardi di renmimbi, pari a quasi 5 miliardi di dollari, in un’operazione di finanziamento market-wide, a causa del tasso interbancario salito al 9%, il quale corrisponde ad una netta mancanza di fiducia tra i vari istituti di credito, ed alla volontà di quest’ultimi di immobilizzare più liquidità possibile.

La Banca Centrale aveva sempre fornito la valuta agli altri istituti, ma non era mai intervenuta con operazioni open market di tale entità.

Christian Harbulot è il direttore dell’École de Guerre Économique di Parigi, e da anni auspica una decisa azione del governo francese in tema di intelligence economica e protezionismo industriale nei settori “strategici”, per sostenere e favorire l’economia nazionale transalpina all’interno proprio di una tradizione di “patriottismo economico”, un progetto che sembra appartenere al governo cinese.

Una delle contraddizioni storiche della globalizzazione è quella di aver portato ad un mercantilismo esasperato dove il ruolo degli stati nel supportare le rispettive economie nazionali è diventato determinante. La globalizzazione si è rivelata un processo storico contraddittorio e sostanzialmente incompiuto.

Robert Kagan, nel suo “Il ritorno della storia e la fine dei sogni”, già sette anni fa aveva predetto che lo stato nazionale era tutt’altro che defunto, e prefigurato uno scontro tra un Occidente liberaldemocratico ed un Oriente autoritario ed autocratico, attraverso le “linee di faglia” lungo l’Est Europa, il Caucaso, il Golfo ed i due Mari Cinesi.

Questo si può sintetizzare nell’evidenza che, in un mondo dove si stanno superando gli stati nazionali a favore di nuovi centri di potere e fazioni transnazionali, è sufficiente creare un soggetto economico forte per averne uno politico altrettanto forte. Cina e Russia hanno realizzato un’alleanza finanziaria e politica che, potrebbe essere definita “tattica”, ma è in realtà un progetto a lungo termine dalle conseguenze di non semplice identificazione nell’assetto mondiale.

La comunione di intenti fra la Russia e la Cina, rivela però un non significativo valore assoluto: infatti l’accordo per la fornitura del petrolio russo ai cinesi è di 430 miliardi di dollari, ma tale cifra va distribuita nell’arco temporale di 30 anni, il che corrisponde a 14 miliardi di dollari all’anno. Nello stesso periodo, la Russia esporterà verso l’Europa 3.900 miliardi di energia: l’Europa è il miglior mercato del mondo, e resta l’obiettivo dei produttori africani, mediorientali e russi, tant’è che Putin e Lavrov hanno tentato il progetto del South Stream, benchè la sua cancellazione rappresenti un detrimento anche per l’Ue.

Diverse aziende europee erano compartecipanti al programma, come l’Eni e la società per azioni Saipem, collegata alla multinazionale italiana. Quest’ultima accuserà una perdita, mitigata tuttavia dalla cessione a Gazprom della propria quota partecipativa, come previsto nel contratto. Le infrastrutture offshore del progetto, come l’Électricité de France e la tedesca Wintershall, insieme a quelle onshore, ossia la joint venture di cui fanno parte tutte le società nazionali dei Paesi di transito del gasdotto, verranno colpite dalla rinuncia russa alla cancellazione del progetto South Stream.

L’Iran stesso, ha accettato lo yuan per la vendita del proprio petrolio, ma in contemporanea si è attivato per un accordo con l’Azerbaijan per immettere nel Bte, Tanap e Tap il proprio gas diretto in Puglia. L’accordo tattico sino-russo, non è riuscito comunque ad evitare il collasso del rublo, sul quale incidono le sanzioni occidentali che valgono una flessione dell’economia pari a 40 miliardi di dollari all’anno. A queste si sommano circa 90 – 100 miliardi di dollari persi annualmente a causa del calo del 30% del prezzo del petrolio.

L’intervento della Banca Centrale russa, con un significativo rialzo dei tassi, non sembra sortire gli effetti sperati. Pertanto la soluzione potrebbe svolgersi con un enorme intervento sui mercati, oppure ritoccando ancora una volta al rialzo i tassi. Il calo del potere d’acquisto del rublo, si riflette direttamente nell’aumento del costo della vita e verso l’acquisto di beni-rifugio come oro ed immobili, i cui prezzi, per effetto della maggior domanda, lievitano, e per tal motivo sono in grado di preservare il loro valore.

Le prospettive di crescita, secondo la Banca di Russia, saranno nei prossimi anni pari od attorno allo 0%: l’istituto di emissione ha previsto che la Russia rischia una profonda recessione, con un calo del PIL del 4,5% nel 2015, se il prezzo del greggio dovesse stabilizzarsi a quello del dicembre 2014. La crisi finanziaria russa potrebbe ulteriormente acuirsi laddove il Governo dovesse autorizzare altri interventi militari in Ucraina, oppure alzare il livello di scontro con l’Occidente implementando i sistemi d’arma con conseguenti esborsi non programmati.

Tutto questo comporterebbe ulteriori sanzioni economiche contro Mosca, che minerebbero ancor di più l’economia locale; se dovessero essere colpiti gli interessi energetici russi, la ridondanza sarebbe particolarmente dura: il bilancio verte per metà sul settore energetico e, secondo Reuters, sussiste il rischio che gli introiti provenienti dalle esportazioni in Europa crolleranno di un quarto entro il 2020. Si tratta di 18 miliardi di dollari, 13 miliardi di euro, ovvero il 50 per cento in più del deficit di bilancio previsto a settembre, quindi prima della crisi, che era pari a 12 miliardi di dollari.

Il ministro delle Finanze, Anton Siluanov, ha annunciato l’emissione di un bond denominato in rubli con scadenza maggio 2016 per 5 miliardi di rubli, circa 107 milioni di dollari, l’importo più basso collocato dalla Russia da 14 mesi a questa parte. Sarebbe anche il bond governativo a più breve termine da quasi un anno. Stando ai movimenti sul mercato secondario, il rendimento dovrebbe attestarsi intorno al 10,15%. In ogni caso, il governo russo non ha immediate necessità finanziarie nonostante il prezzo del petrolio sia sceso di oltre il 25% dal picco di giugno 2014. Il contestuale deprezzamento del rublo non ha provocato alcuna crisi fiscale nel paese che deriva il 45-50% delle sue entrate proprio dalla vendita di petrolio e gas. Al contrario, il crollo del rublo, aumentando il valore delle entrate in dollari, ha accresciuto dell’85% su base annua a 1.130 miliardi di rubli, oltre 24 miliardi di dollari, il surplus di bilancio realizzato dal governo nei primi 10 mesi del 2014.

Di fatto, Cina, Russia ed Iran, stanno tentando di rivedere lo status quo che regola le dinamiche economiche globali, e l’accettazione dello yuan dalla Russia come valuta per la fornitura di petrolio alla Cina, potrebbe rappresentare a lungo termine, un significativo progresso in tal senso. La Banca Centrale russa e quella Popolare cinese hanno convenuto sulla realizzazione di [i]swap[/i] delle rispettive valute nazionali. Tale accordo potrebbe agevolare un regime valutario meno dollaro-centrico nei mercati energetici internazionali, e corrisponderebbe all’assunzione della Cina ad attore principale sullo scenario energetico globale. Il commercio estero cinese è già regolato in renminbi, e l’emissione di strumenti finanziari con questa valuta è già in ascesa, con la risultanza di una maggiore flessibilità dei tassi di cambio dello yuan.

Tale trasformazione economica, potrebbe circoscrivere il predominio del dollaro, con la risultanza di incidere negativamente sulla posizione strategica degli Stati Uniti.

La Cina non desidera occupare una posizione di secondo livello sul piano finanziario globale, e pertanto l’obiettivo principale diventa quello di limitare l’influenza statunitense nell’Asia. Un alleato lo troverebbe nell’Iran, il quale ha come obiettivo di ridisegnare la politica nel Vicino Oriente, eliminando anche gli alleati degli Stati Uniti, in particolare gli arabi sunniti. Teheran si è posta come collante fra le fazioni di Hezbollah e Siria, ed ha intrapreso azioni solitarie contro l’Isis, il tutto con una realpolitik efficace, agevolata dalla fine della guerra in Iraq, i cui confini permeabili hanno reso possibili le intermediazioni fra i diversi centri di potere. Certamente un blocco valutario sino-russo inciderebbe nel medio termine negativamente sulla posizione strategica degli Stati Uniti. I quali peraltro, puntando decisamente sullo shale-oil, hanno risolto almeno le questioni strategiche legate alla dipendenza energetica, ed al loro stretto legame con i paesi arabi del Medio Oriente.

Gli interventi politici ed economici della Cina, Russia ed Iran, hanno comunque ottenuto una variazione degli equilibri del potere ed in parte ridisegnato le dinamiche della politica internazionale spostando l’attenzione dalle dispute militari a quelle energetiche e finanziarie, ma come conseguenza diretta, hanno ingenerato la reazione degli avversari storici. I legami dell’Occidente con gli alleati asiatici si sono rinsaldati, il nazionalismo giapponese è aumentato notevolmente, l’accordo per il nucleare iraniano è addivenire e la Russia, per rimanere credibile, investe sul piano miliare a discapito del tentativo di rinsaldare i legami post guerra fredda con l’Occidente. A questo, ha corrisposto un netto aumento del Pil statunitense, fissato al 5% nel terzo trimestre del 2014. Una performance al rialzo sul previsto 4,3%, che segna un dato ancor più rilevante se rapportato al maggior tasso registrato nello stesso periodo, ma risale al 2003.

Leslie Gelb e Dimitri Simes, in un articolo apparso sul New York Times, suggeriscono i rischi che questa geoeconomia potrebbe ingenerare: una mancata cooperazione in materia di contrasto al terrorismo, l’agevolazione allo sviluppo indisturbato del programma nucleare della Corea del Nord e dell’Iran stesso, sino al rispristinarsi di una nuova guerra fredda, ma più farraginosa ed imprevedibile della precedente. Le crisi internazionali presenti e future, mancherebbero della multipolarità che le ha risolte o limitate, pertanto una gestione dei conflitti senza quella fermezza politica globale indispensabile per una trattazione efficace.

L’aspetto più negativo che tenderebbe a coinvolgere tutta la popolazione mondiale, dunque non solo i Paesi allineati, è la possibilità della non collaborazione di Cina, Russia ed Iran, sui temi di maggiore rilevanza. Infatti, sarebbe difficile raggiungere identità di vedute comuni in materia di cambiamenti climatici, sicurezza alimentare e gestione dell’immigrazione. Ciò costringerebbe a rivedere la posizione degli Stati Uniti ed Unione Europea, le quali al momento, mantengono ancora la loro centralità. Ma il nuovo corso geopolitico dell’”eoocentrismo” asiatico ha comunque iniziato il suo viatico.

(6 gennaio 2015)

Bibliografia:

Richard Falk, Geopolitical winds blow in China’s direction, A magazine of art and politics, 2013.

Walter Russel Mead, The return of geopolitics, Foreign Affairs, 2014.

Enrico Oliari, Fornitura di gas russo alla Cina: perché si esagera, Notizie Geopolitiche, 2014.

Giuseppe Gagliano, Guerra economica ed intelligence, Fuoco Edizioni, 2013.

Arduino Paniccia, Le dinamiche economiche fra la Russia e la Cina, Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis, 2014.

Giuseppe Timpone, La Russia annuncia il ritorno sul mercato dei bond, ma i tassi sono proibitivi, Investire oggi, 2014.

Francesco Trupia, Il blocco del South Stream e la vittoria di Putin contro le sanzioni, Eurasia rivista, 2014.

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