Perché abbiamo bisogno dei BRICS della conoscenza | Megachip
Top

Perché abbiamo bisogno dei BRICS della conoscenza

Possiamo continuare a ignorare quanto sta accadendo nel mondo e le connessioni che attiviamo - o meno - con le nostre scelte? [Domenico Fiormonte]

Perché abbiamo bisogno dei BRICS della conoscenza
Preroll

Redazione Modifica articolo

25 Gennaio 2015 - 11.14


ATF

di Domenico Fiormonte

È di qualche mese fa la [url”notizia”]http://www.lastampa.it/2014/07/16/economia/la-sfida-dei-paesi-emergenti-nasce-la-banca-dei-brics-YS2ThHISerSsfyK1l50W7L/pagina.html[/url] che i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) hanno creato una loro banca. La neonata istituzione finanziaria nasce come sfida diretta alla supremazia occidentale incarnata, a partire dal dopoguerra, da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. I BRICS hanno firmato accordi in altri settori e aspirano a dotarsi di una loro agenzia di rating, un loro circuito finanziario e una [url”Internet privata”]http://www.itworld.com/internet/377182/bric-nations-plan-their-own-independent-internet[/url] che aggiri il traffico che passa obbligatoriamente dai nodi USA. D’altra parte l’assetto geopolitico dell”industria delle telecomunicazioni è noto: i maggiori fornitori e proprietari di connettività al mondo sono i cosiddetti “tier 1 providers” (T1P). La loro rete è così vasta che non hanno bisogno di comprare transit agreements da altri provider. Sebbene gli intrecci finanziari e commerciali fra questi colossi non siano pubblici, i T1P ufficialmente dovrebbero essere quattordici, ma secondo alcuni il cuore della dorsale è in mano a sette sorelle: Level 3 Communications (USA), TeliaSonera International Carrier (Svezia), CenturyLink (USA), Vodafone (UK), Verizon (USA), Sprint (USA), e AT&T Corporation (USA).

È evidente che i BRICS non siano molto favoriti da questa situazione. Essi rappresentano un quarto del Prodotto Interno Lordo del pianeta, il 43% della popolazione (3 miliardi di persone) e possiedono riserve in valuta pregiata per 4.400 miliardi di dollari. E da tempo si parla di allargare il gruppo ad altri paesi emergenti, come per esempio Turchia e Indonesia (con tassi di crescita del PIL intorno rispettivamente al 5% e 6% annui).

A questi dati vorrei affiancare un sunto sulla situazione del “[url”costo della conoscenza”]http://www.madrimasd.org/blogs/futurosdellibro/2014/07/15/136606[/url]”del sociologo ed editor spagnolo Joaquín Rodríguez. Traduco, con qualche aggiunta, quanto scrive Rodríguez:

“Fra i primi cinque gruppi editoriali del mondo, tre si dedicano alla pubblicazione di contenuti scientifico-tecnico-professionali e alla gestione e identificazione di informazioni utili per comunità altamente qualificate che necessitano di contenuti aggiornati. La anglo-olandese Reed Elsevier (fra le altre cose promotrice di Science Direct e Scopus), l”americana Thomson-Reuters (produttrice di Web of Science) e WoltersKluwer (azienda olandese che si è fusa col gigante tedesco Bertelsmann &Springer, facendo nascere SpringerScience+Business). Si tratta di tre giganti che non soltanto fatturano cifre inconcepibili per editori che lavorano in altri settori [Reed Elsevier nel 2013 ha fatturato 7,2 miliardi di dollari, n.d.t.] ma, soprattutto, dominano e controllano la produzione, circolazione e uso della conoscenza prodotta dalla comunità scientifica.”

Ma che cosa c’entra la banca BRICS con il dominio anglofono dell’editoria scientifica? Faccio un passo indietro. Nel marzo 2014, in seguito a una mail di insulti inviata “accidentalmente” alla lista di discussione dell”Associazione di Informatica Umanistica e Cultura Digitale ([url”AIUCD”]http://www.umanisticadigitale.it/[/url]), mi sono dimesso dall”omonima associazione. Non è utile qui ripercorrere le tappe di quella vicenda, ma occorre tuttavia comprendere le ragioni profonde di quello scontro, dove si sono confrontate visioni geopolitiche divergenti. In ballo a mio parere vi era molto di più di una valutazione sull”opportunità o meno dell”affiliazione all’associazione europea di informatica umanistica (EADH), ma (vedi [url”mia mail di risposta”]http://mailman.humnet.unipi.it/pipermail/aiucd-l/2014-February/000275.html[/url]):

“tre livelli di problemi fra loro strettamente interconnessi: 1) un problema squisitamente politico, ovvero la rappresentanza di AIUCD e delle altre organizzazioni nazionali all”interno degli attuali contenitori (la Alliance of Digital Humanities Organization e la European Association of Digital Humanities), nonché del funzionamento degli stessi; 2) un problema di rappresentazione delle diversità culturali, linguistiche, disciplinari, ecc. all”interno e all”esterno delle organizzazioni; 3) un problema di presenza scientifica delle ricerche non-anglofone all”interno del panorama internazionale delle DH.”

Purtroppo non è stato possibile discutere di queste cose in un”assemblea plenaria, ma si è preferito procedere in modo autoreferenziale, siglando l”accordo con EADH senza ratifica da parte dell”assemblea. Detto ciò, quello che mi preme analizzare qui è la debolezza delle ragioni (e dei ragionamenti) che stanno dietro scelte ormai assai frequenti negli ambienti accademici e scientifici (non solo italiani). Si tratta dell”ansia e della paura di essere “tagliati fuori” dal gioco “internazionale”. Ci ricorda qualcosa?

L’affiliazione a EADH è tutto sommato un problema secondario. Il vero nodo è ADHO, un organismo che si definisce internazionalmente rappresentativo delle Digital Humanities, ma creato da “constituent organisations” (USA, UK, Australia, Canada e Giappone) le quali decidono chi entra, come e perché. In sostanza una sorta di club inglese che poco ha a che fare con un’organizzazione democratica. Il comportamento di queste e altre organizzazioni e consorzi dominati dagli anglofoni ricorda ciò che scrive il giurista finlandese Martti Koskenniemi criticando la prassi del diritto internazionale: “Ti accetterò, ma solo a condizione che io possa pensarti nel modo in cui posso pensare me stesso”.

Va detto che la comunità degli umanisti digitali è più aperta e attenta alla diversità di molte altre comunità scientifiche, dove il problema della supremazia anglofona è dato per scontato (si pensi al [url”caso di autolesionismo”]http://www.eraonlus.org/it/politica-e-lingue/item/10763-prove-inconsapevoli-di-colonizzazione-linguistica-lo-strano-caso-del-politecnico-di-milano.html#.VLpXWy6GMY2[/url] del Politecnico di Milano). In campo umanistico c’è un dibattito in corso e le cose sono in movimento. Sulla lista diGlobal Outlook Digital Humanities (http://www.globaloutlookdh.org) ha scritto un collega cubano che voleva iscriversi e ha ricevuto incoraggiamenti vari. Tuttavia perché se sono un cittadino cubano o poniamo uzbeko posso affiliarmi individualmente a ADHO e se sono italiano, spagnolo o tedesco devo passare attraverso EADH? L’intenzione esplicita è quella di incoraggiare le affiliazioni senza l’obbligo di abbonarsi alla costosa rivista, ma questo non mette minimamente in discussione il modello chiuso di ADHO, ma anzi lo rafforza. E d’altronde questo l”unico modo per aprire mantenendo il controllo. (Per inciso: 7 membri su 9 dello Steering Committee di ADHO provengono da UK, USA, Australia e Canada. Uno dal Giappone e uno dalla Germania.).

In conclusione, la scelta di ADHO, e dunque dell’associata EADH, sembrerebbe quella di mantenere nelle proprie mani il controllo sulle Digital Humanities, cercando di diffondere una immagine “internazionale”di questa comunità scientifica, i cui strumenti però continuano a essere tutti anglofoni: la conferenza annuale, la mailing list Humanist, la rivista LLC/DSH, le monografie più o meno sponsorizzate (tipo Companion). Per non parlare di software, linguaggi e cosiddetti “standard”. Le Digital Humanities infatti si occupano soprattutto di digitalizzazione del patrimonio testuale e il ruolo degli standard è cruciale. Geoffrey Bowker e Susan Leigh Star ci [url”hanno mostrato”]http://mitpress.mit.edu/books/sorting-things-out[/url] che gli standard (considerati come “information infrastructures”) hanno un forte carattere simbolico ancor prima che materiale e il loro controllo costituisce una della caratteristiche centrali della vita economica. Basti pensare al tempo: il meridiano di Greenwich (1884) pone al centro del mondo uno spazio-tempo locale, quello della località inglese. Ma questo è nulla a confronto della “code hegemony” esercitata in nome e per conto dell’impero anglofono. Il Board of Directors del consorzio internazionale UNICODE, che si occupa della codifica di tutte le lingue del mondo, è formato da Intel, Google, Microsoft, Apple, IBM, OCLC e IMS Health. Nemmeno un rappresentante di una istituzione culturale, di ricerca o di istruzione pubblica. Se questa è la base non possono sorprendere le [url”critiche”]http://cfeditions.com/NetlangEN/[/url] che da vari fronti sono state rivolte all’etnocentrismo di UNICODE e alla difficoltà per le lingue di scarso valore commerciale di essere rappresentate (cioè di esistere) adeguatamente.

Al cuore della standardizzazione dei protocolli e dei linguaggi della comunicazione digitale vi è dunque il problema linguistico. Come scriveva George Steiner in After Babel

“the meta-linguistic codes and algorithms of electronic communication which are revolutionizing almost every facet of knowledge and production, of information and projection, are founded on a sub-text, on a linguistic ‘pre-history’, which is fundamentally Anglo-American (in the ways in which we may say that Catholicism and its history had a foundational Latinity). Computers and data-banks chatter in ‘dialects’ of an Anglo-American mother tongue.”

Il problema ovviamente non è l’inglese in sé, ma [url”l’egemonia di un codice sull’altro”]http://www.eraonlus.org/it/politica-e-lingue/item/11108-il-falso-mito-dell%60inglese-n%C3%A9-democratico-n%C3%A9-redditizio.html#.VLpXVy6GMY3[/url]. È questo “Anglo-American Esperanto” che permette di declinare e strutturare l’impero della conoscenza digitale in proporzioni e secondo modalità mai sperimentate prima nella storia (nemmeno dal cattolicesimo romano). Mi domando: è questo ciò che conviene a italiani, spagnoli, portoghesi, francesi e in definitiva a tutto il resto del mondo? La mossa dei BRICS, creare una banca, non è solo com’è ovvio una mossa economica, ma un segnale geopolitico (e culturale): Cina, India, Brasile, Russia e molti altri grandi paesi del mondo sono a favore di un mondo multipolare. Stati Uniti, Europa e i loro (sempre meno controllabili) satelliti, al momento, no. Dal punto di vista geolinguistico, nessuno dei paesi BRICS, nemmeno la Cina, sarebbe in grado di imporre la propria lingua al resto del mondo. Mentre è chiaro il vantaggio assoluto dei “proprietari” dell’attuale lingua franca e degli immaginari a essa collegati. Ovviamente non possiamo sapere se i BRICS si opporranno, dopo il monopolio sul prestito e sulla rete, anche a quello sulla conoscenza. D’altronde non abbiamo bisogno che un cartello di potenze regionali si sostituisca all’impero esistente, ma di fondare un sistema di relazioni politiche, sociali ed economiche completamente diverso. Un nuovo giocatore in campo, tuttavia,è un buon auspicio.

Possiamo continuare a ignorare quanto sta accadendo nel mondo e le connessioni che attiviamo – o meno – con le nostre scelte? Da Snowden allo strapotere delle multinazionali editoriali, da Monsanto a Google, c’è un filo rosso che unisce il problema dell’accesso alla conoscenza con quello della rappresentanza politica, la difesa del seme autoctono alla difesa della parola locale. Quali lingue, quale cibo, quali memorie sopravvivranno nel futuro? E chi sarà a deciderlo? Il problema della diversità bioculturale si intreccia allora a quello degli interessi energetici, alimentari, tecnologici, ecc. e la comunità scientifica — tutte le comunità scientifiche — sono chiamate a prendere posizione rispetto a un mondo che cambia – ed a un altro che non ne vuole sapere di cambiare. C’è uno squilibrio nelle forze in campo e abbiamo un disperato bisogno di riequilibrare il sistema. La mia perplessità sull’adesione a EADH da parte dell’associazione italiana di informatica umanistica non si basava altro che su questo: una visione diversa del rapporto centro-periferie (a iniziare dalla problematicità di queste definizioni), il rifiuto di una subordinazione ai codici dominanti e ai temi di ricerca mainstream, l’esplorazione di alleanze alternative e in definitiva la creazione di un progetto culturale che uscisse fuori dai limiti imposti dalla fretta, dalla paura e dall’ansia di legittimazione.

(25 gennaio 2015)

Una precedente versione di questo articolo è stata pubblicata in italiano, spagnolo e portoghese:

[url”http://infolet.it/2014/07/17/a-quando-i-dh-brics/”]http://infolet.it/2014/07/17/a-quando-i-dh-brics/[/url]

[url”http://reartedix.hdplus.es/dixit/para-cuando-los-brics-del-conocimiento/”]http://reartedix.hdplus.es/dixit/para-cuando-los-brics-del-conocimiento/[/url]

[url”http://hdbr.hypotheses.org/5179″]http://hdbr.hypotheses.org/5179[/url] [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]

Native

Articoli correlati