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Lingua veicolare: dove sta scritto che debba essere per forza l'inglese?

Nel mondo globalizzato è inevitabile che si affermi una lingua ‘veicolare’. Che sarebbe il web senza l’inglese? Eppure ci sono alternative. Eccole. [Aldo Giannuli]

Lingua veicolare: dove sta scritto che debba essere per forza l'inglese?
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14 Marzo 2015 - 20.09


ATF

di
Aldo Giannuli
.

Nel Mondo della globalizzazione è
inevitabile che si affermi una lingua “veicolare” che permetta di interagire:
tanto per dirne una, cosa sarebbe internet senza l’inglese? Dunque, è pacifico
che si debba andare ad una lingua di comunicazione, anche se questo non
significa affatto che le altre debbano scomparire o diventare lingue di serie
B. Il pluralismo culturale resta una fonte di arricchimento insostituibile ed
irrinunciabile.

Ed allora, lingua comune sia, ma non è
poi così scontato che debba essere l’inglese. Intanto alcuni dati non saranno
inutili e li riprendiamo da una fonte insospettabile di anti anglismo, il libro
di Huntington sul conflitto di civiltà, per il quale, nel 1992, i parlanti la
lingua inglese erano il 7,6%  della popolazione mondiale, mentre il cinese
mandarino era parlato dal 15,2% e lo spagnolo dal 6,1%. Una stima decisamente
avara che considera solo Usa, Uk, Canadà e Australia e che non tiene conto
della tradizionale diffusione dell’inglese tanto nei paesi del nord Europa
quanto in quelli ex coloniali come India e Sudafrica. Poi va detto che
l’inglese è la lingua più studiata nel mondo. In totale, la stima più
realistica è quella di un 20-22% della popolazione mondiale in grado di parlare
e comprendere sufficientemente la lingua inglese.

Il numero potrà sembrare basso, dato che
la sola India ha circa il 18% della popolazione mondiale, ma bisogna
considerare che una larga fetta degli indiani (regioni rurali interne,
sottoproletariato urbano ecc) non parlano affatto inglese ed un’altra parte
rilevante parla un inglese molto approssimativo ed elementare, al di sotto del
limite di sufficienza. E lo stesso si può dire di paesi come il Sudafrica, il
Kenia o Myanmar.

Quanto agli studenti che apprendono
l’inglese a scuola, va detto che in maggioranza poi ne conservano solo tracce
del tutto insufficienti e, comunque, non sono in grado di utilizzare un
dizionario monolingue.

Dunque, nel complesso, circa l’80%
della popolazione mondiale non conosce affatto l’inglese o ne ha rudimenti
assai scarsi. Anche scendendo al di sotto della soglia di sufficienza e
considerando quanti hanno conoscenze utili ad avere una conversazione
elementare, non andiamo molto oltre un terzo della popolazione mondiale e,
quindi, la grande maggioranza della popolazione mondiale (non meno dei 2/3)
ignora del tutto l’idioma di Shakespeare.

Per quanto il quinto considerato è
sicuramente la parte più dinamica e “globalizzata” (che viaggia, studia, si
connette in internet, segue la stampa e la Tv ecc.), siamo ancora abbastanza
lontani da quello che potrebbe essere la lingua comune mondiale.

A questo bisogna aggiungere altre
considerazioni. Parlare di inglese come di una lingua unica è un po’
fuorviante, in realtà inglese originario, inglese americano e inglese indiano
hanno non irrilevanti differenze tanto per la pronuncia quanto per la
costruzione lessicale e grammaticale. L’inglese originario è una lingua molto
ricca di espressioni idiomatiche che non sempre presenti, ad esempio,
nell’inglese-americano che, però, ne ha di proprie. Certo, un inglese ed uno
statunitense si capiscono, ma i due idiomi vanno divaricando e l’inglese
americano tende a prevalere. D’altra parte, la maggior parte di quanti
conoscono l’inglese non come lingua materna, ma per averlo studiato, spesso
ignorano quelle espressioni idiomatiche ed hanno un lessico piuttosto ridotto.

Dunque, per una ragione e o per
l’altra, una larga fetta di quel 20-22% di cui dicevamo, parla una sorta di “basic english” che assolve a funzioni di
livello non eccelso. Inoltre, inizia a profilarsi un fenomeno tipico, quello
delle “lingue miste” (lo spanglish
nel sud degli Usa e il chinglish in
alcune zone costiere della Cina) che hanno un effetto contraddittorio, perché,
da un lato, gettano un ponte fra la lingua franca e quella locale, favorendone
la penetrazione, ma dall’altro creano sorta di enclaves linguistiche meno in grado di comunicare con il resto del
Mondo, e dunque, finiscono per erodere la diffusione della lingua veicolare.

Ci sono, poi, considerazioni di ordine
politico che meritano d’esser fatte: il successo dell’inglese è legato alla sua
doppia funzione imperiale, prima con l’Inghilterra e dopo, ed ancor di più, con
gli Usa. Il massimo di espansione dell’anglofonia è coinciso con il momento
felice del mono-polarismo americano, ma siamo sicuri che il futuro conserva
questo ruolo imperiale agli Usa? Il servilismo delle classi dirigenti europee
(Francia a parte) dà per scontato che la partita sia chiusa e che l’inglese
abbia vinto definitivamente, ma questa è la resa dell’Europa, non del resto del
Mondo.

C’è un altro fenomeno che merita di
essere notato: cinese a parte, la seconda lingua parlata al Mondo è lo
spagnolo, con il 6,5% di parlanti nativi (un po’ di più se a Spagna e America
latina ispanofona, aggiungiamo le Filippine), dunque, una percentuale non molto
inferiore a quella stimata da Huntington per i parlanti originari di lingua
inglese. Vero è che lo spagnolo non ha una India ed è studiato meno
dell’inglese, per cui, fatte le stesso considerazioni di prima per l’inglese,
il totale di quanti conoscono quella lingua come prima o come seconda,
raggiunge a mala pena il 13%, però occorre considerare che il tasso di
fertilità dei latinos è nettamente
superiore a quello dei nord americani (e non parliamo degli inglesi, canadesi o
australiani). In secondo luogo, la forte immigrazione dei sud americani negli
Usa sta cambiando la geografia linguistica deli States: già da un ventennio, in
molti stati del sud, gli avvisi al pubblico sono trilingui (inglese, spagnolo e
spanglish. Infine occorre mettere in conto che, per le stesse ragioni politiche
che hanno sin qui assistito l’inglese, in alcuni contesti, lo spagnolo incontra
meno resistenze dell’inglese e penetra più facilmente.

In particolare, già da anni si studia
la possibilità di un graduale passaggio del Brasile dal portoghese allo
spagnolo, anche perché, in questo modo, esso potrebbe più efficacemente
aspirare alla leadership continentale. E questo fatto da solo regalerebbe allo
spagnolo un altro 4,5% di parlanti sul piano mondiale. Dunque, i giochi non
sono per nulla fatti e, in un futuro non lontanissimo, potremmo anche assistere
ad una gara fra inglese e spagnolo, mentre, nonostante la grande quantità di
parlanti originari, ben maggiore di inglese e spagnolo messi insieme, appare
meno probabile un testa a testa fra inglese e cinese mandarino (la maggioranza
dei parlanti usa lingue fonetiche e non ideografiche).

Ma è proprio detto che si debba
accettare come lingua veicolare mondiale una lingua nazionale? E’ un po’ come
avere una moneta nazionale come moneta di riferimento internazionale: significa
assegnare a qualcuno un vantaggio su tutti gli altri. In una visione non
gerarchica dell’ordine mondiale (o il meno gerarchica possibile) questa
primazia non si giustifica ed assegnare questo vantaggio può produrre più
attriti di quanto non si immagini.

Dunque, ci sono alternative alla
scelta di una lingua nazionale in funzione di lingua veicolare. Una prima
alternativa è quella di una lingua artificiale come le “lingue ausiliarie
internazionali” che sorsero nel XIX secolo (volapük, esperanto ecc.) ma bisogna
dire che si è trattato di esperimenti che non hanno avuto mai grande fortuna.
Costruire un lessico con prestiti linguistici dalle lingue nazionali produce
una lingua che ha seri problemi fonetici, ed ancora maggiori di natura
grammaticale e sintattica, scarsa armonia ed ovviamente non ha alle spalle una
letteratura ed una cultura. Se volete un esempio, basti leggere il padre nostro
in esperanto:

«Patro nia, Kiu estas en la ĉielo,sanktigata estu Via nomo.Venu Via regno,fariĝu Via volo,kiel en la ĉielo tiel ankaŭ sur la
tero.
Nian panon ĉiutagan donu al ni hodiaŭkaj pardonu al ni niajn ŝuldojn,kiel ankaŭ ni pardonas al niaj
ŝuldantoj.
Kaj ne konduku nin en tenton,sed liberigu nin de la malbono.(Ĉar Via estas la regno kaj la potencokaj la gloro eterne.)Amen»

Non mi pare un grande risultato. Le
lingue cd ausiliarie sono state prodotti di laboratorio sterili come certi
ibridi animali. E si trattava di lingue artificiali costruite tutte su lingue
europee, immaginiamo che problemi potrebbero esserci con una lingua artificiale
che mescoli anche lingue idiografiche come il cinese, sillabiche come l’indi o
il giapponese ecc. Credo non si metterebbe insieme neppure l’alfabeto. Quindi
direi che possiamo lasciar perdere questa ipotesi.

Ne esiste un’altra: usare una lingua
morta, debitamente aggiornata nel lessico e semplificata nella parte
grammaticale e sintattica, riducendo al minimo eccezioni ed articolazioni.
L’esperimento è già stato fatto e con successo in Israele, che ha richiamato in
vita l’antico ebraico debitamente trattato. Anche l’arabo parlato (non quello
scritto che è intangibile essendo lingua sacra), in fondo, è una lingua antica
che si modifica e si aggiorna costantemente nel parlato.

Dunque, un’operazione non impossibile
che risolverebbe il problema del vantaggio ad una lingua nazionale (anche se,
sicuramente, alcune, per la maggiore vicinanza morta a quella prescelta,
avrebbero un residuo di vantaggio).  Personalmente ritengo che la scelta
più opportuna sarebbe il latino, in primo luogo per la larga diffusione
scolastica di cui gode, perché ha una letteratura importante, perché quasi
tutte le lingue europee (quantomeno dell’Europa centrale ed occidentale) hanno
attinto ad essa, perché è legata ad un passato storico studiato in gran parte del
mondo. Ma soprattutto per un’altra ragione specifica.

Recentemente ho spiegato a dei miei
studenti questa mia idea sul latino ed hanno riso, ma non hanno più riso quando
gli ho letto questo articolo de “La Repubblica” (22 dicembre 2014): “Perché il
latino è la lingua ideale per comunicare su twitter”. Infatti il latino è una
lingua sintetica e non analitica e, grazie ad artifici retorici come la callida iunctura (il “nesso furbo”), l’ordo verborum
(l’ordinamento delle parole), costrutti sintattici come l’ablativo assoluto ed
espedienti stilistici come il verbo sottinteso, ha caratteristiche di
asciuttezza e concisione sin qui insuperate, che la rendono adattissima ad usi
molto concentrati come twitter o gli sms. Perché non discuterne?

Certo c’è sempre un vizio un po’
eurocentrico, ma sarà sempre meglio che parlare la lingua dell’Impero vivente.

Aldo
Giannuli.

Riportiamo anche uno dei più
interessanti commenti all’articolo nello stesso blog di Giannuli.

E se fosse il
giapponese?

di Alessandro.

Ho
trovato molto interessante l’articolo e mi permetto di intervenire solo su un –
aspetto in particolare – per partecipare al dibattito e offrire la mia
esperienza.

Oltre
all’italiano e all’inglese parlo in giapponese e l’indonesiano.

È
su queste due ultime lingue che vorrei spendere due parole.

Il
giapponese è un esempio perfetto di lingua in grado di filtrare e annettere a sé
qualunque cosa serva ai suoi parlanti per interagire tra essi e col mondo
esterno. È una delle poche lingue che nella sua pratica scritta accetta senza
arrossamenti di sorta segni grafici cinesi, autoctoni, latini, greci, numeri
arabi, e a quanto mi risulta abbia consegnato al mondo (o per lo meno
battezzato) il fenomeno degli “emoji”. In particolare questo ultimo fenomeno
(che per il suo periodo iniziale ha appunto adottato i segni greci per
costruire facce e faccette di ogni tipo) dimostra a mio avviso come, pur aldilà
di una cosciente partecipazione globale, il giapponese sia una lingua più viva
di altre, moderna e capace di servire nuove strategie comunicative ai suoi
parlanti – e forse per risulta anche al mondo intero attraverso il canale della
comunicazione su Internet.

Ci
si chiede sempre perché l’inglese sia così poco parlato in un Paese pur
avanzato come il Giappone.

Un
motivo è la lontananza culturale percepita in Giappone (dalla popolazione) col
mondo occidentale. Su questo si potrebbe scrivere per anni ma fidatevi per ora
di quanto dico.

Un
secondo motivo tecnico non indifferente è il repertorio fonologico del
giapponese che consta incredibilmente di solo cinquanta suoni! Questo punto in
particolare rende ai giapponesi lo studio di altre lingue difficoltoso,
imbarazzante per alcuni e soprattutto antieconomico da un punto di vista dei
“suoni necessari a parlarle” e fissa il giapponese su un podio inarrivabile di
minimalismo fonologico. Credo che un altro motivo reale sia che il giapponese è
di per sé molto più avanti con lo sguardo di altre lingue più tradizionalmente
ritenute globali. Il suo minimalismo fonologico fa sì che tutti gli sforzi
necessari per arrivare a un livello di comunicabilità accettabile avvengano nel
reame della lingua scritta, dove il giapponese ha nei secoli operato miracoli e
dove sembra trovarsi a suo agio in quest’epoca di Internet in cui, se si parla
di lingua globale, è ovvio che ci riferiamo in primo luogo a una dimensione
scritta della lingua e una “versione online” del giapponese potrebbe
tranquillamente rinunciare alla sua forma ideografica per rendersi leggibile
agli occhi latini del mondo.

In
quanto parlante giapponese potrei dire che esso non avrebbe nessun vero
problema tecnico a diventare lingua globale e anzi, la sua capacità sincretica
descritta più sopra e la sua pronuncia tanto facile – da essere imbarazzante! –
potrebbero decretare un giorno tale risultato. Ovviamente per arrivare a un
tale risultato occorre anche una spinta politica sostenuta e una coscienza internazionale
che il giapponese per adesso non ha. Anche se “manga” e “anime” e altro
potrebbero stare già operando a livello globale un suggerimento di… rotta il
cui risultato potrebbe apparirci tra un’altra ventina d’anni. Ma fin qui vi ho
parlato di fantasie futuristiche per darmi il motivo di descrivervi una realtà
linguistica che a molti è sconosciuta.

L’indonesiano è a mio avviso un altro
miracolo linguistico. Con un po’ di divertimento sui libri un italiano medio è
in grado di parlarlo con soddisfazione in una settimana. Anche in questo caso
si tratta di una lingua che impone un repertorio fonologico facile da adottare,
una grafia ormai quasi totalmente latina (sebbene e giustamente resistano
grafie originali e arabe), costruzioni grammaticali elementari ma potenti e
soprattutto si tratta di una lingua che ancora oggi apre porte alternative
impensabili visto il numero e la qualità dei suoi parlanti. Oltre a essere
parlato in Indonesia esso è parlato in Malesia, Cina meridionale e in alcune
parti dell’Australia costiera. [Addirittura mi pare di ricordare che resista
una antica comunità anche in Africa!] E sì, perché l’indonesiano è una “lingua
di mare”, nel senso che fu imposto agli Indonesiani per garantire l’unità
politica del Paese (arcipelago) appena costituito, nel quale si parlavano 3500
lingue diverse (!) e sulla Rete del mare l’indonesiano è cresciuto e si è
affermato. Su una base grammaticale malese (gestibile anche da anziani non
scolarizzati) si sono incastonate espressioni locali e vocaboli di ogni
provenienza, pur senza diventare un miscuglio indigesto di ingredienti.

Vi
chiedo scusa per essermi dilungato su due lingue a me care, ma ho sentito il
bisogno di allargare, e di molto, il raggio di questo post italocentrico
all’Asia, senza però cadere come spesso capita nella rete della Grande Cina, la
cui lingua, sempre a mio avviso, non ha le caratteristiche uniche e “globali”
di giapponese e indonesiano.

Sì,
se mai l’inglese dovesse vacillare io credo che ci siano dei prontissimi
aspiranti al trono in attesa nei posti più impensabili pronti a prendere il
sopravvento secondo dinamiche ancor più inimmaginabili.

Del resto lingue e
linguaggi sono virus e come tali circolano e infettano le aree geografiche.

Fonte: [url”http://www.aldogiannuli.it/inglese-lingua-veicolare/”]http://www.aldogiannuli.it/inglese-lingua-veicolare/[/url]

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