Viva la muerte! | Megachip
Top

Viva la muerte!

La questione non è quella della cancellazione delle spinte pulsionali, ma piuttosto la loro declinazione sopportabile nella società presente. [Adriano Voltolin]

Viva la muerte!
Preroll

Redazione Modifica articolo

15 Febbraio 2016 - 11.57


ATF
di Adriano Voltolin*

La psicologia sociale, sostiene Freud, viene prima della psicologia individuale. Non vi sono quindi dei gruppi, il piccolo gruppo come la società intera, che si comportano come gli individui, ma sono piuttosto gli individui a strutturare la loro mente ed il loro modo di comportarsi, gli uni con gli altri, nel modo che apprendono fin dalla primissima infanzia.

Prima di Freud, Marx aveva detto, nella Ideologia tedesca, che le idee dominanti sono quelle della classe dominante; dopo, Lacan ha sostenuto che il soggetto nasce nel campo dell’Altro, Hanna Segal che senza la simbolizzazione ci si trova nel campo della psicosi. Le diverse posizioni non sono affatto identiche e contengono anzi profonde differenze, ma una cosa è unanimemente sostenuta: che la psicologia individuale non è pensabile senza la società e quindi che non vi è una priorità storica, ma solamente logica, tra le due. Coglierne il nesso è possibile solamente se si è in grado di dipanare un grumo ove il sociale e l’individuale sono avvinghiati come i fili di lana in una matassa: ci riesce benissimo Marx, sempre nell’Ideologia tedesca, quando irride all’idealismo che non distingue la realtà dalla fantasia, mentre lo sa fare benissimo qualsiasi shopkeeper. Per l’idealismo baueriano e per la destra hegeliana, dice Marx, ciò che le persone hanno nella testa coincide con la realtà del mondo, mentre il commerciante fa un fondamento della sua fortuna l’essere capace di capire che tra la fantasia e la realtà ci passa ben più di un mare: Bruno Bauer non sarebbe mai arrivato a pensare, come invece Henry Ford, che si potesse scegliere un’auto del colore che si preferiva purché fosse nero.

Quello che Marx sostiene implicitamente e Freud in modo esplicito, è che la patologia del gruppo sociale, la Gemeinschaftneurose, è cosa totalmente diversa da una patologia che colpisce molti, o, quand’anche, tutti gli individui di un gruppo ed è anche diversa dalla assunzione della patologia del gruppo sociale come la forma ideologica prevalente nel gruppo. È chiaro che se tutti i membri di un gruppo sono ammalati di bronchite, non si può dire che il gruppo di cui sono membri è ammalato di bronchite; così come non si può dire che, essendo molti scozzesi tirchi, la Scozia sia tirchia.

La patologia individuale, come dice con chiarezza Freud nel Disagio della civiltà, può mimetizzarsi con quella del gruppo sociale, quando il gruppo stesso sia connotato dallo stesso quadro patologico. La considerazione, statisticamente e concettualmente sostenibile, che di norma la patologia del gruppo sociale sia la medesima espressa da molti appartenenti al gruppo sociale stesso, non fa venire meno quanto si è affermato in precedenza.

La patologia del gruppo appare come un’ideologia diffusa, magari opinabile, ma scompare come patologia quando contrassegna non solo il singolo, ma il gruppo. Un individuo che sostenesse, in un colloquio nello studio di un analista, che la morte è vita e che quindi la morte va esaltata come vitale, andrebbe incontro ad una diagnosi di un importante disturbo mentale; se lo sostiene il gruppo dei falangisti nella guerra civile spagnola (viva la muerte), l’affermazione diviene un pensiero politico; se un prete dice, durante un rito funebre, che il defunto non è morto, ma accede a una vita nuova e vera, esprime un credo religioso.

Certamente nel novecento ed in questo primo quindicennio del ventunesimo secolo, come ha messo in evidenza Aldo Giannuli (Dal jolies temps alla crisi: paranoia e narcisismo nel presente), abbiamo assistito ed assistiamo all’affermazione di ideologie concernenti l’individuo, la società ed il loro rapporto, che si imperniano su assunti che, sul piano individuale, contrassegnano delle psicopatologie non certo lievi. Si pensi ancora agli slogan: se viva la muerte appare una manifestazione della pulsione distruttiva (elaborazione paranoica del lutto, secondo la definizione psicoanalitica che Farnco Fornari aveva dato della guerra), arricchitevi, e il più moderno greed is good rappresentano esemplarmente il trionfo della pulsione orale; ma anche il one best way tayloristico, come l’idea che la civiltà, britannica, fosse presente ovunque venisse servito il thé alle cinque del pomeriggio, denunciano nitidamente un’immagine arrogante di sé che ha alla sua radice un attacco invidioso all’oggetto buono; ancora, il difendere il sacro suolo della patria ha alla sua radice l’angoscia paranoide che trasforma l’aggressione in difesa dell’oggetto buono.

La questione che abbiamo di fronte non è però quella della cancellazione delle spinte pulsionali, l’aggressività, l’oralità, l’eros, ma piuttosto la loro declinazione sopportabile nella società presente.

Wilfred R. Bion aveva avuto un’intuizione geniale quando aveva avanzato l’idea che in un gruppo che lavora razionalmente (gruppo di lavoro) le pulsioni, che sono spinte potenzialmente distruttive dell’operatività del gruppo e, infine, della sua stessa esistenza, sono sempre presenti, ma sono controllate attraverso le modalità del suo funzionamento – si pensi ad esempio al concetto di società in Hanna Arendt ed alla sua diversità radicale da quello di massa in Freud e di folla in Le Bon. Le pulsioni vengono gestite, dice Bion, da gruppi che si specializzano nel trattarle; altrimenti esse si rovescerebbero sull’intero gruppo sociale danneggiandolo irreparabilmente: per Bion l’esercito rappresentava il gruppo specializzato nel gestire la pulsione aggressiva e la Chiesa quello che era destinato a trattare la pulsione di dipendenza. In una società che funziona come una comunità questo è possibile, ma in una dove la pulsione di appropriazione e di depredazione sono ritenute valori positivi, greed is good appunto, il vincolo, la regola sociale cioè, è un lacciuolo che limita gli animal spirits di uno sviluppo capitalistico senza freni (che del capitalismo classico oramai ha sempre meno e della predazione ingorda e paranoide del bambino che divora il seno sempre di più) che non solo divora tutto, ma che vede ovunque temute limitazioni alla propria fame, nel senso che a questa pulsione aveva dato mirabilmente il capolavoro di Knut Hamsun.

Nella nostra epoca storica, in occidente, il problema principale non è tanto la difesa dall’aggressione che proviene da ideologie autoritarie, come ci si raffigura ad esempio l’Islam, bensì quello di trovare il modo di contrastare vigorosamente – cioè consentendone la simbolizzazione – la pulsionalità, in primis quella orale, che la finanziarizzazione del capitalismo certamente alimenta ma della quale è soprattutto la radice più originaria. Se si riprendessero in mano il Capitale e, più ancora, i Grundrisse non sarebbe difficile capire che la manifattura, come ogni processo di produzione rappresenti non la base, bensì il maggior ostacolo alla circolazione del capitale, la quale tanto più è libera e rapida, tanto più produce ricchezza. Ma così il mondo scoppierà di una abbuffata senza fine! Certo, ma allora saremo tutti morti, sosteneva Keynes; allora, se così è, se è la condizione per arrichirsi, viva la muerte.

(13 febbraio 2016)

*Adriano Voltolin, Presidente della [url”Società di Psicoanalisi Critica”]http://www.societadipsicoanalisicritica.it/[/url].

[url”Link articolo”]http://www.aldogiannuli.it/viva-la-muerte/[/url] © Adriano Voltolin © Aldo giannuli

[url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]
Native

Articoli correlati