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'Organizzare in Irlanda ''sober parties'', ossia serate in cui si balla fino a mattina senza un goccio d’alcool né droghe in corpo: una sfida -vinta- agli stereotipi [Michela Pìbiri]'

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15 Marzo 2016 - 06.00


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di Michela Pìbiri.


DUBLINO (Irlanda)  –  Di stereotipi, quando andiamo in giro per il mondo, ce ne portiamo dietro tutti. Quello che dicono di noi e quello che noi pensiamo degli altri: bagaglio ingombrante, ma spesso con un fondo di verità.

Sugli irlandesi e il loro rapporto con l’alcool non è necessario versare pinte di inchiostro, per citare il buon Flann O’Brien. Basta dire che bevono tanto. Lo sanno tutti, no? Ecco uno di quegli stereotipi con un solido fondo di verità, anche se poi non tutti gli irlandesi bevono e non solo gli irlandesi bevono.

Quando, nell’Ottobre del 2015, mi sono trasferita a Dublino per partecipare a un progetto di scambio professionale con Dance Free Events, un’impresa sociale irlandese che organizza sober parties, ossia serate in cui si balla fino a mattina senza un goccio d’alcool né droghe in corpo, ho visto occhi strabuzzati e molti sorrisi ironici. Stavo andando incontro a un paradosso, e la cosa interessante è che ho ottenuto reazioni unanimi, chiunque fosse il mio interlocutore: italiano o irlandese. Uno dei commenti migliori è stato: “è la cosa più hipster che abbia mai sentito”. E ho raccolto molti, moltissimi “well, good luck”.

Infilarsi nella maglia debole di uno stereotipo ben radicato è una sfida. Se è possibile convincere la gente che ci si può divertire e ballare tutta la notte anche senza bere a Temple Bar, in fondo si può davvero comunicare tutto.

Quando ho incontrato di persona David Mooney, col quale avrei lavorato fianco a fianco per i quattro mesi successivi, ho cercato di capire le ragioni del format che ha inventato sette anni fa, chiamato Funky Seomra (che si legge, più o meno, sciòmra: in irlandese vuol dire stanza). Ho trovato una persona che ha visto in quella “maglia debole dello stereotipo” una vera e propria nicchia di mercato di cui nessuno si curava.

Lui non l’ha proprio definita così, perché la sua priorità non era tanto lucrare, quanto soddisfare un bisogno che condivideva con altre persone: quando, poco più che ventenne, ha perso interesse nell’alcool, si è accorto che in Irlanda non esistevano spazi di socializzazione e divertimento notturno diversi dal pub, in cui è pur vero che si può anche bere una bibita analcolica, ma è anche vero che dopo una certa ora può diventare complicato avere una conversazione se si è sobri e tutti gli altri no.

Questo vale per chiunque non voglia bere per una sera, o non possa o non voglia farlo mai per questioni di gusti, salute, riabilitazione da dipendenze, religione eccetera: dove sentirsi pienamente a proprio agio, senza dover spiegare perché non si beve, senza avere tentazioni, senza essere circondati da persone ubriache?

Devo ammettere che quest’ultimo aspetto mi è sembrato, inizialmente, un po’ moralista e auto-ghettizzante. Pensavo che, volendo, le persone ubriache si potessero evitare anche dentro un pub affollato. Dopo qualche settimana a Dublino ho scoperto che non è così semplice. Perché i pub sono luoghi con spazi vitali minimi in cui il confine tra la socialità e la molestia può essere labilissimo, soprattutto nel fine settimana. È, in fondo, ciò che a noi italiani piace di Dublino quando ci andiamo in vacanza: un perenne carnevale in cui tutto è lecito, ma nel viverci ci si accorge che spesso la scelta è tra un contesto alcoolcentrico e stare a casa dopo le nove di sera.

Quello che ho apprezzato di David e del suo progetto, dopo una prima fase di indagine e confronto tra le diverse culture del bere da cui proveniamo, è la sua mancanza di giudizio o condanna nei confronti di chi beve. Non c’è la volontà di sentirsi migliore e nemmeno di convertire delle anime perse. C’è invece la constatazione oggettiva di un’abitudine che ha costi sociali importanti anche in termini di denaro pubblico. Dati alla mano, percentuali, cause sociali e psicologiche, possibili soluzioni.

Per sviluppare una strategia di comunicazione che rilanciasse Funky Seomra dopo un periodo di declino in cui David è stato assorbito da altri progetti e ha avuto poche risorse da dedicargli, ho dovuto prima interrogarmi su alcune questioni. Un po’ perché, per gusti e abitudini, appartenevo al non-pubblico, e quindi rappresentavo un esempio di destinatario da conquistare partendo da zero, e un po’ perché l’ho intesa come un’occasione per scoprire qualcosa di me.

Mi sono divertita tutte le volte che ho bevuto? Mi sono annoiata tutte le volte in cui non ho bevuto? Cosa fa davvero la differenza nelle mie serate, ciò che ho intorno  —  compagnia compresa  —  o ciò che ho nel bicchiere? Certo, un buon vino nel bicchiere ci sta, ma sarei in grado di ballare senza prima averne bevuto un po’? È un piacere o un bisogno? A socializzare in una sala da té siamo buoni più o meno tutti, ma a scendere in pista quando il DJ mette su i Prodigy forse no.

E dopo tanto confrontarsi, parlare, riflettere, ho partecipato al mio primo Funky Seomra, e mai come allora mi è stato chiaro quanto l’alcool sia una banalissima comfort zone, spesso una pura illusione di scioglimento delle inibizioni. È davvero possibile ballare senza preoccuparsi di come ti vedono gli altri, quando gli altri sono troppo impegnati a ballare per preoccuparsi di come li vedi tu. È così la maggior parte delle volte, in realtà, ma è più facile prenderne coscienza quando tutti sono nella stessa situazione e non c’è un alibi per niente. Quelli che ballano per ore come dannati lo fanno perché si stanno veramente, semplicemente divertendo molto, tornano a casa distrutti e il giorno dopo si svegliano senza mal di testa. E sono incredibilmente tanti. All’inizio li osservi con curiosità. Poi li ammiri. Poi li segui.

Probabilmente la comunicazione avrebbe funzionato anche senza le mie folli Funky Seomra nights, perché in quattro mesi abbiamo lavorato sodo per sviluppare una strategia multicanale che permettesse di allargare e consolidare la base d’utenza, ripescare i dispersi e riprendere i contatti con la stampa nazionale (The Sunday Times, The Independent e The Journal hanno dedicato al progetto pagine intere; RTÈ Radio 1, Spin FM e Newstalk approfondite interviste radiofoniche), ma aver partecipato all’esperienza in prima persona (e non solo una volta) mi ha permesso di andare ben oltre le soddisfazioni professionali.

L’Irlanda continuerà ad essere un posto in cui si beve tanto, ma allargare il campo delle possibilità a disposizione è sempre un buon modo per intaccare il consolidato e cambiare, lentamente, un’attitudine, compresi i pregiudizi su cosa è noioso e cosa è divertente. Compresi gli stereotipi.


Fonte: https://medium.com/@pibirinca/irlanda-analcolica-a9b21473db95#.sffq655m9.


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