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I dolori del "Regime Change" a Washington

Gli economisti in lutto devono riconoscere che l’ultima loro predica non solo non ha trovato gli americani medi docili, ma è un errore secondo la dottrina liberista.

I dolori del "Regime Change" a Washington
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11 Gennaio 2017 - 20.36


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di Maurizio Blondet

Dopo aver provocato tanti regime changes, i responsabili provano sulla loro pelle il regime change
in Usa. Non si hanno notizie  precise  dell’agenzia di lobbiyng dei due
fratelli Podesta,  quelli per cui la  “artista”  Abramovic   cucinava
gli  spiriti. Ma possiamo esser certi che Tony  ha perso il contratto
per avanzare gli  interessi della Casa Reale Saud  presso la Casa
Bianca: per il quale percepiva 140 mila dollari al mese, abbastanza da
togliersi tutti i suoi costosi vizi.  Casa Saud  aveva ammesso di aver
finanziato il 20% della campagna Hillary, certo su suo consiglio:  mai
fu fatto un peggior investimento.

Quanto a John Podesta, il fratello, capo della campagna per Hillary  e
perciò  venuto troppo in vista (grazie   anche alle sue strane email 
spifferate da Wikileaks), non può fare quello che stanno facendo  i
militanti meno noti e  meno visibili: sfrondare dal loro curriculum le
loro passate benemerenze come raccoglitori di fondi per la Clinton, 
cancellare  le loro conoscenze nell’ambiente democratico,  e cercare
lavoro presso altre aziende: le quali adesso cercano gente con “republican connections”,  di cui questi poveretti sono privi.

Molti giovani che prima occupavano  vari incarichi di portaborse
politici al Senato o al Dipartimento  di Stato, per  prudenza hanno
cancellato da Facebook le loro foto esultanti al fianco di Hillary,  e da
LinkedIn hanno tolto ogni riferimento troppo preciso al loro mestiere
di prima. Sono migliaia, cercano lavoro, “e lavoro non c’è”, ha
spiegato  a Politico un”aiutante dello staff Clinton, Amira Patel. Già:
la ripresa economica   di  Obama non sembra poi così impetuosa da
assorbire gli scartati dallo spoil system.  Per di più, molti sono
giovani che hanno vissuto “tutta la loro vita adulta” sotto un governo
democratico (gli 8 anni di Obama), non erano affatto preparati a un  tal
cambiamento.

E non sono i soli.

L’annuale riunione a Chicago  della American Economic
Association,  che riunisce i  maggiori economisti   docenti (e
pontificanti  sui grandi media), ha avuto i toni di un funerale.  Tutti
questi cattedratici    sono campioni e cantori del mercato e  della
globalizzazione –  del resto è la  dottrina ufficiale che per vent’anni 
ha gestito cattedre e premi Nobel – e   sono stati colti di sorpresa, a
quanto è risultato dal convegno, dal potente crescere del “populismo”
che ha portato al potere Trump.  Il quale ha lanciato la
de-globalizzzione, il rientro di capitali e posti di lavoro, il
nazionalismo economico, e alla fine (orrore)  il protezionismo.  Per di
più,  “il presidente eletto non è particolarmente interessato  a chieder
consiglio al club degli economisti accademici”, sospira Steven Davis,
uno del club (University of Chicago)

Economisti in lutto

Com’è stato possibile? Si son chiesti i 15 mila partecipanti
smarriti. “L’elite economica ha fatto molto per minare la propria
credibilità – mentre la  situazione economica della gente volgeva al
peggio”  loro han continuato a predicare  che   nella globalizzazione,
“i vincitori e i perdenti si sarebbero compensati”, e fornendo al
governo Obama statistiche (tutte vere)  a  cui, secondo il sondaggio
Marketplace-Edison Research   dello scorso ottobre, “il 25% degli
americani  adulti non crede affatto, e a cui il 19% crede poco”.

Adesso gli economisti in lutto devono riconoscere che l’ultima 
porzione delle loro prediche, che   dal 2008 ha asseverato l’instaurarsi
della “stagnazione secolare”  e  ha consigliato  alla gente di
adeguarsi perché  è “the new normal” (la nuova normalità),  non solo non
ha trovato gli americani  medi docili,  ma è persino un errore secondo
la dottrina liberista.

Non ricordavano più  che in celebri sentenze, Adam Smith metteva in guardia pressappoco così:

Quando i tassi di profitto sono troppo alti, il capitalismo  cannibalizza se stesso in due modi

1 – Non facendo gli investimenti a lungo termine per il futuro.

2 – Pagando salari insufficienti a mantenere la domanda dei prodotti e servizi che il capitalismo offre.

(Ecco la citazione   di Adam Smith:  “But
the rate of profit does not, like rent and wages, rise with the
prosperity and fall with the declension of the society. On the contrary,
it is naturally low in rich and high in poor countries, and it is
always highest in the countries which are going fastest to ruin.”)

Lo stesso medesimo Adam Smith, del resto, aveva avvertito che nel
capitalismo  nudo  e crudo  i  vincenti non fanno colare qualcosa della
loro ricchezza  sui perdenti, come hanno predicato da 40 anni gli
accademici; non esiste il fenomeno del trickle-down, lo sgocciolamento  verso il basso,  che questi economisti davano per certo;  anzi, il capitalismo  incontrollato produce  il trickle-up,  i soldi vanno dal basso in alto; i ricchi diventano rentier oziosi e risucchiano quel poco ai poveri. In tal modo:

  • I detentori di capitale in eccesso raccolgono rendite, affitti, e interessi.
  • Coloro con capitale insufficiente pagano gli affitti e gli interessi.

La  citazione:  “The Labour and time of the poor is in civilised
countries sacrificed to the maintaining of the rich in ease and luxury.
The Landlord is maintained in idleness and luxury by the labour of his
tenants. The moneyed man is supported by his extractions from the
industrious merchant and the needy who are obliged to support him in
ease by a return for the use of his money. But every savage has the full
fruits of his own labours; there are no landlords, no usurers and no
tax gatherers.”

C’è da chiedersi quale dottrina liberista hanno insegnato per gli
ultimi 30 anni i cattedratici, facendola passare per quella di Adam
Smith. La risposta è facile. Era la dottrina voluta da  Wall Street.

Ovviamente anche i media mainstream escono con   le ossa rotte – e
l’autorevolezza a zero – dal “regime change” che hanno così
settariamente tentato di combattere. La CNN è fra i massimi perdenti, 
quella di  cui il pubblico si  fida meno quando dà notizie politiche.

I media scavalcati dai tweet

Non è il caso di girare il coltello nella piaga, perché il discredito
non è ancora il peggio. Il neo-presidente ha  mostrato di non aver
bisogno di adulare il club mediatico degli “anchor” strapagati 
e lisciare il pelo alle grandi firme: lui comunica direttamente con il
popolo americano a forza di tweet,  che raggiungono le masse
istantaneamente, e che i media sono forzati a riportare ore dopo o il
giorno seguente. 
È persino dubbio che Trump tenga le rituali
conferenze-stampa ufficiali alla Casa Bianca, che sono così gratificanti
 per i pennaioli che si sentono  chiamati per nome dal Presidente: “Look, Henry…I could say, Ann…”.   Tutta  questa falsa importanza finirà: loro lo odiano, e lui li detesta.   Regime Change.

Tanto che persino il Washington Post ha cominciato a scrivere nero su  bianco,  in un articolo inchiesta, che:

  • i principali dieci caporioni dello Stato Islamico sono stati
    internato a Camp Bucca,  il campo americano di concentramento in Irak;
  • nel 2007, durante il “surge” (l’aumento della pressione militare
    decretato da Obama) arrivò a contenere 24 mila estremisti veri o
    presunti
  • che  i gruppi venivano separati e uniti fra  loro secondo certi criteri
  •  che in quella sede i baatisti di Saddam,  prigionieri e sconfitti e
    laici, incontrarono  i wahabiti  più estremi, e “diedero loro ciò di
    cui mancavano:  disciplina militare e capacità organizzativa”, mentre
    gli altri diedero ai Baatisti  l’estremismo sunnita.
  • Il futuro Al Baghdadi (il Califfo), il numero due Abu Muslim
    al-Turkmani, il principale capo militare (oggi caduto) Haji Bakr, il
    capo dei  guerriglieri stranieri Abu Qasim, hanno tutti frequentato
    quella università.  Il Califfo ci è rimasto 5 anni.  E  da lì viene la
    strana idea di costituire uno Stato, con suoi uffici,   fiscalità,
    scuole, assistenza sociale: il Califfato semi-baathista.

Nel 2009, ha il coraggio di scrivere il Washington Post,
inopinatamente la direzione di Camp Bucca liberò centinaia di questi 
prigionieri. La polizia irachena nella  vicina città  di Garma, al
confine quasi con il Kuweit, si preoccupò di  veder arrivare ceffi  di
galera di cui conosceva bene la pericolosità. “Mica è gente che pianta i
fiori in giardino”,  disse il capo della polizia Saad  Abbas Mahmoud al
corrispondente del Post Anthony Shadid: “Il 90 per cento  riprenderanno
a combattere”.

Ciò che il Washington Post continua pudicamente a tacere è che questo
era ciò che l’amministrazione Obama voleva, e di cui era ben
consapevole.  Dal generale Flynn abbiamo  saputo che  la sua DIA, fin
dal 2012, aveva valutato che “esiste la possibilità di  instaurare un
principato salafista  nella Siria Orientale (Hasak e Der Zor) e ciò è
esattamente ciò che le potenze che sostengono l’opposizione vogliono, 
onde isolare il regime siriano”.

IS e US continuano a distruggere le infrastrutture civili siriane

Fra queste potenze non c’erano solo i sauditi e i turchi, ma la  Casa
Bianca.  Nell’agosto del 2014,  intervistato da Thomas Friedman per il
 New York Times , il presidente Obama l’ha ammesso:  gli Usa erano
consci  dei pericoli dell’IS, ma non hanno fatto niente per bloccarne
l’’espansione  in Irak  “con bombardamenti” –  questa la spiegazione di
Obama , “perché ciò avrebbe  allentato la pressione su Al Maliki”:   il
primo ministro dell’Irak, Nuri al Maliki, di cui Obama voleva   la
caduta –  perché essendo sciita, obbediva più a Teheran che a
Washington.

Naturalmente oggi sappiamo (se non leggiamo il mainstream) che i
monarchi del Golfo hanno finanziato lo Stato Islamico, certo non contro
la volontà di Obama; che la Cia e il Dipartimento di Stato li hanno
addestrati ed armati…Che quando Obama dovette far finta (era stato
ucciso  un giornalista Usa) di “bombardare l’IS”, i comunicati dell’US
Air Force riferivano di aver distrutto “un escavatore dell’IS”, o
“battuto le  posizioni del Califfato”, mentre centinaia di autobotti
caricavano il greggio e  poi andavano a consegnarlo, in lunghe file,
alla Turchia. Solo quando Putin   â€“ durante il G20 – ha diffuso le foto
aeree di quelle colonne ai  capi di stati e governo (e cominciato a
incenerirle), allora Obama ha ordinato qualche colpo in più.

E anche adesso, mentre scriviamo, il Pentagono e l’IS in  pieno
accordo  e probabile coordinamento, distruggono minuziosamente le 
infrastrutture civili della Siria: l’ultima, la grande centrale del gas
di Hayan presso Homs, opera dell’IS. Come si ricorderà, nei giorni
della vittoria  siriana ad Aleppo, un attentato ha messo fuori uso
l’acqua potabile per  5 milioni di abitanti a Damasco e dintorni. A Deir
Ezzor un altro attentato ha tolto l’elettricità.

Si capisce che Obama è ancora alla guida. Il Nobel per la pace.

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