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Il problema non è Trump. Siamo noi

I semi del fascismo del 21° secolo sono stati piantati, fertilizzati e innaffiati dall’amministrazione Obama e dalla politica fallimentare dell’élite liberale.

Il problema non è Trump. Siamo noi
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19 Gennaio 2017 - 17.50


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di John Pilger

Traduzione a cura di ComeDonChisciotte

Negli
Stati Uniti, il giorno dell’insediamento del Presidente Trump, migliaia
di scrittori esprimeranno la loro indignazione. “Per poter guarire e
andare avanti…”, si dice al Writer Resist, “vogliamo andare oltre il
discorso politico diretto, e, concentrandoci sul futuro, noi, come
scrittori, possiamo essere una forza unificatrice per la tutela della
democrazia”.

E ancora: “Esortiamo gli organizzatori e relatori
locali ad evitare di chiamare per nome i politici o di usare un
linguaggio di contestazione come punto focale per l’evento Writer
Resist. È importante garantire che le organizzazioni senza scopo di
lucro, a cui sono vietate campagne politiche, si sentano sicure nel
partecipare e sponsorizzare questo evento”.

Pertanto, la vera protesta è da evitare, non essendo esentasse.

Confrontiamo
queste fesserie con le dichiarazioni del Congresso degli Scrittori
Americani, tenutosi alla Carnegie Hall di New York nel 1935, e di nuovo
due anni dopo. Erano incontri elettrici, di scrittori che discutevano
sul come reagire di fronte ad infauste situazioni in Abissinia, Cina e
Spagna. Vi si leggevano telegrammi di Thomas Mann, C. Day Lewis, Upton
Sinclair e Albert Einstein, che rispecchiavano la paura che grandi
poteri stavano ormai dilagando e che era diventato impossibile discutere
di arte e letteratura senza parlare di politica o, addirittura, di
azione politica diretta.

“Uno scrittore,” disse la giornalista
Martha Gellhorn al secondo congresso, “oggi deve essere un uomo
d’azione…Un uomo che ha dato un anno della sua vita agli scioperi delle
acciaierie, o ai disoccupati, o ai problemi razziali, che non ha perso o
sprecato il suo tempo. È un uomo conscio della sua appartenenza. Se
sopravvivrete a queste situazioni, ciò che avrete poi da dire in
proposito sarà la verità, necessaria e reale, e che durerà”.

Le sue parole echeggiano in tutto l’operato e la violenza dell’epoca Obama e nel silenzio dei collusi con i suoi inganni.

Che
la minaccia di un potere rapace – dilagante molto tempo prima
dell’ascesa di Trump – sia stata accettata dagli scrittori, molti dei
quali privilegiati e celebri, e da parte dei custodi della critica
letteraria e della cultura, inclusa quella popolare, è indubbio. Non è
da loro l’impossibilità di scrivere e promuovere letteratura priva di
politica. Non è da loro la responsabilità di farsi sentire, a
prescindere da chi occupa la Casa Bianca.

Oggi, il falso
simbolismo è tutto. L””Identità” è tutto. Nel 2016, Hillary Clinton
bollò milioni di elettori come “un insieme di miserabili, razzisti,
sessisti, omofobi, xenofobi, islamafobi – e chi più ne ha più ne metta”.
Lo ha detto in una manifestazione LGBT come parte della sua cinica
campagna per conquistare le minoranze abusando di una maggioranza in
gran parte bianca e di classe operaia. Divide et impera, si chiama così,
oppure politica di identità in cui razza e genere nascondono la classe,
permettendo che si combattano guerre di classe. Questo Trump lo ha
capito.

“Quando la verità viene sostituita dal silenzio”, scrisse il poeta dissidente sovietico Yevtushenko, “il silenzio è menzogna”.

Questo
non è un fenomeno americano. Alcuni anni fa, Terry Eagleton, allora
professore di letteratura inglese all’Università di Manchester, riteneva
che “per la prima volta in due secoli, in Gran Bretagna non c’è alcun
autorevole poeta, drammaturgo o romanziere disposto a mettere in
discussione le fondamenta del modo di vivere occidentale”.

Non c’è
Shelley che parli per i poveri, né Blake per i sogni utopici, né Byron
che denunci la corruzione della classe dirigente, né Thomas Carlyle e
John Ruskin a rivelare il disastro morale del capitalismo. William
Morris, Oscar Wilde, HG Wells, George Bernard Shaw non hanno equivalenti
oggi. Harold Pinter è stato l’ultimo a farsi sentire. Tra le insistenti
voci odierne del consumer-feminism, nessuna fa eco a Virginia Woolf,
che descrisse “l’arte di dominare gli altri…di governare, di uccidere,
di acquisizione del terreno e del capitale”.

Un che di venale e
profondamente stupido circonda gli scrittori famosi quando si
avventurano al di fuori del loro mondo viziato e abbracciano un
“problema”. Nella sezione Review del Guardian, il 10 dicembre c’era una
fotografia di un Barack Obama sognante con lo sguardo al cielo e le
parole, “Amazing Grace” e “Addio al Capo”.

 La piaggeria scorreva
come il borbottìo di un ruscello pagina dopo pagina. “Per molti versi
era una figura vulnerabile…Ma la grazia. La grazia onnicomprensiva: in
modo e forma, nel dibattito e nell’intelletto, con umorismo e bravura…[Egli] è un vivo tributo di quanto è stato, e ciò che può nuovamente
essere…Egli sembra pronto a continuare a combattere, e resta un
campione formidabile da avere dalla nostra parte… La grazia… i livelli
quasi surreali di grazia…”.

Ho fuso insieme queste citazioni. Ce
ne sono altre ancora più elogiative e senza attenuanti. Il capo
apologeta di Obama per il Guardian, Gary Younge, è sempre stato attento a
minimizzare, a dire che il suo eroe “avrebbe potuto fare di più”: oh,
ma c’erano le “calme e misurate soluzioni consensuali…”.

Nessuna
di queste [citazioni], tuttavia, superano lo scrittore americano
Ta-Nehisi Coates, il destinatario di una borsa di studio da “genio” del
valore di 625.000$ da una fondazione liberale. In un interminabile
saggio per la rivista The Atlantic dal titolo, “Il mio Presidente era
Nero”, Coates ha dato un nuovo significato alla parola prosternazione.
Il “capitolo” finale, dal titolo “Quando sei Partito, hai Preso Tutto Me
Stesso con Te”, un verso di una canzone di Marvin Gaye, scrive di
vedere gli Obama “uscire dalla limousine, uscire dalla paura,
sorridendo, salutando con la mano, sfidando la disperazione, sfidando la
storia, sfidando la gravità”. L’Ascensione, addirittura.

Uno dei
filoni ricorrenti nella vita politica americana è un estremismo
semi-cult che si avvicina al fascismo. Si è visto e rafforzato durante i
due mandati di Barack Obama. “Credo nell’eccezionalismo americano con
ogni fibra del mio essere”, disse Obama, che ha ampliato il passatempo
militare americano preferito, i bombardamenti, e gli squadroni della
morte (“operazioni speciali”) come nessun altro presidente dai tempi
della guerra fredda.

Secondo un’indagine del Council on Foreign
Relations, solo nel 2016 Obama ha lanciato 26,171 bombe. Cioè 72 bombe
al giorno. Ha bombardato le persone più povere della terra, in
Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia, Siria, Iraq, Pakistan.

Come
riportato sul New York Times, ogni martedì [Obama] selezionava
personalmente quelli che sarebbero stati uccisi, soprattutto da missili
Hellfire lanciati da droni. Furono annientati matrimoni, funerali,
pastori al pascolo, insieme a coloro che tentavano di raccogliere le
parti dei corpi mutilati che ricoprivano il cosiddetto “bersaglio
terrorista”. Uno tra i più noti senatori repubblicani, Lindsey Graham,
stimava, e approvava, che i droni di Obama avessero ucciso 4.700
persone. “A volte si colpiscono persone innocenti, cosa che odio”,
disse, “ma abbiamo fatto fuori alcuni membri molto importanti di Al
Qaeda”.

Come durante il fascismo degli anni ’30, grandi menzogne
vengono fornite con la precisione di un metronomo: grazie ad un supporto
mediatico onnipresente la cui descrizione adesso calza perfettamente
quella fatta dal procuratore [del processo] di Norimberga: “Prima di
ogni rilevante aggressione, con alcune poche eccezioni basate
sull’opportunità, avviavano una campagna stampa calcolata per indebolire
le loro vittime e per preparare il popolo tedesco psicologicamente… Nel
sistema di propaganda… sono state la stampa quotidiana e la radio ad
essere le armi più importanti”.

Prendiamo la catastrofe in Libia.
Nel 2011, Obama disse che il presidente libico Muammar Gheddafi stava
progettando un “genocidio” contro il suo stesso popolo. “Sapevamo… che
se avessimo aspettato un altro giorno, Bengasi, una città delle
dimensioni di Charlotte, avrebbe potuto subire un massacro il cui eco
avrebbe percorso tutta la regione e macchiato la coscienza del mondo.”

Questa
fu la nota menzogna raccontata dalle milizie islamiche di fronte alla
sconfitta dalle forze governative libiche. Divenne la storia dei media; e
la Nato – guidata da Obama e Hillary Clinton – effettuò 9.700 attacchi
contro la Libia, di cui più di un terzo finalizzati ad obiettivi civili.
Furono utilizzate testate all’uranio impoverito; le città di Misurata e
Sirte furono bombardate a tappeto. La Croce Rossa identificò fosse
comuni, e l’Unicef riferì che “la maggior parte [dei bambini uccisi]
erano di età inferiore ai dieci anni”.

Durante i mandati di Obama,
gli Stati Uniti hanno ampliato le operazioni segrete delle “forze
speciali” a 138 paesi, o al 70 per cento della popolazione mondiale. Il
primo presidente afro-americano ha avviato quella che è stata pari ad
un’invasione su larga scala dell’Africa. In qualcosa che ricorda lo
Scramble for Africa del tardo 19° secolo, il Comando Africano degli
Stati Uniti (Africom) ha costruito una rete di sudditanza supplichevole
tra i regimi africani collaborazionisti bramosi di bustarelle e di
armamenti americani. Il dogma “da soldato a soldato” dell’Africom
ingloba ufficiali USA a tutti i livelli di comando, dal generale al
maresciallo. Mancano soltanto i caschi coloniali.

È come se
l’orgogliosa storia della liberazione dell’Africa, da Patrice Lumumba a
Nelson Mandela, venisse consegnata all’oblio da una nuova élite
coloniale nera, la cui “missione storica”, ammoniva Frantz Fanon già
mezzo secolo fa, è la promozione di “un capitalismo dilagante ancorché
camuffato”.

È stato Obama che, nel 2011, annunciò quello che
divenne noto come il “perno dell’Asia”, in cui quasi due terzi delle
forze navali USA sarebbero state trasferite nella regione Asia-Pacifico
per “confrontarsi con la Cina”, nelle parole del suo Segretario alla
Difesa. Non c’era alcuna minaccia da parte della Cina; l’intera impresa
non era necessaria. È stata una provocazione estrema per far contenti il
Pentagono e i suoi dementi pezzi grossi.

Nel 2014,
l’amministrazione di Obama ha progettato e finanziato un colpo di stato
guidato da fascisti in Ucraina contro il governo democraticamente
eletto, minacciando la Russia al confine occidentale attraverso cui
Hitler invase l’Unione Sovietica, che causò una perdita di 27 milioni di
vite. È stato Obama a piazzare nell’Europa orientale missili rivolti
alla Russia, ed è stato lo stesso vincitore del premio Nobel per la pace
ad aumentare la spesa per testate nucleari a un livello superiore a
quello di qualsiasi altra amministrazione dalla fine della guerra fredda
– dopo aver promesso, in un emozionante discorso a Praga, di “aiutare a
liberare il mondo dalle armi nucleari”.

L’avvocato costituzionale
Obama ha perseguito più informatori di ogni altro presidente della
storia, nonostante la Costituzione degli Stati Uniti li protegga. Ha
dichiarato Bradley Manning colpevole prima del termine di un
processo-farsa. Ha rifiutato di perdonare Manning, che ha subito anni di
trattamento disumano che l’ONU definisce tortura. Ha montato un caso
del tutto fasullo contro Julian Assange. Ha promesso di chiudere il
campo di concentramento di Guantanamo e non lo ha fatto.

In
seguito al disastro delle pubbliche relazioni di George W. Bush, Obama,
il ragazzo in gamba di Chicago via Harvard, è stato arruolato per
ripristinare ciò che egli chiama la “leadership” in tutto il mondo. La
decisione del comitato del premio Nobel è stata parte di questo: del
tipo di stucchevole razzismo alla rovescia che ha beatificato l’uomo per
il solo motivo che piaceva alle sensibilità liberali e, naturalmente,
al potere dell’America, se non ai bambini che uccide per lo più in
poveri paesi musulmani.

È questo il richiamo di Obama. Non è
diverso da quello di un fischietto per cani: impercettibile ai più,
irresistibile per gli infatuati e i fessi, in particolare per “i
cervelli liberali messi nella salamoia di formaldeide della politica
dell’identità”, come disse Luciana Bohne. “Quando Obama entra in una
stanza”, diceva estasiato George Clooney, “lo vuoi seguire da qualche
parte, da qualsiasi parte.”

William I. Robinson, professore presso
l’Università della California, e componente di un gruppo incontaminato
di pensatori strategici americani che hanno mantenuto la loro
indipendenza durante gli anni dei richiami per cani intellettuali dal
9/11, la settimana scorsa ha scritto: “Il presidente Barack Obama…
potrebbe aver fatto più di chiunque altro per assicurare la vittoria di
[Donald] Trump. Mentre l’elezione di Trump ha innescato una rapida
espansione delle correnti fasciste della società civile negli Stati
Uniti, un risultato fascista per il sistema politico è tutt’altro che
inevitabile… Ma combatterlo richiede chiarezza su come ci siamo arrivati
ad un precipizio così pericoloso. I semi del fascismo del 21° secolo
sono stati piantati, fertilizzati e innaffiati dall’amministrazione
Obama e dalla politica fallimentare dell’élite liberale”.

Robinson
sottolinea che “sia nel 20° secolo che nelle sue emergenti varianti del
21° secolo, il fascismo è, soprattutto, una risposta alla profonda
crisi strutturale del capitalismo, come quella del 1930 e quella che ha
avuto inizio con la crisi finanziaria nel 2008… C’è una linea quasi
retta qui da Obama a Trump… il rifiuto delle élite liberali di sfidare
la rapacità del capitale transnazionale, e il suo marchio di identità
politica è servito a nascondere il linguaggio delle classi lavoratrici e
popolari… spingendo i lavoratori bianchi dentro una ‘identita’ di
nazionalismo bianco e aiutando i neofascisti ad organizzarli”.

Il
semenzaio è la Repubblica di Weimar di Obama, un paesaggio di povertà
endemica, di polizia militarizzata e di prigioni barbariche: è la
conseguenza di un estremismo “di mercato”, che, sotto la sua presidenza,
ha indotto il trasferimento di $14 miliardi di dollari di denaro
pubblico alle imprese criminali di Wall Street.

Il suo più grande
“lascito” è forse la cooptazione e il disorientamento di una vera
opposizione. La “rivoluzione” illusoria di Bernie Sanders non fa testo.
La propaganda è il suo trionfo.

Le fandonie sulla Russia – nelle
cui elezioni gli Stati Uniti sono apertamente intervenuti – hanno reso i
giornalisti più boriosi al mondo lo zimbello di tutti. Nel paese con la
stampa più libera al mondo costituzionalmente, il giornalismo libero
ora esiste solo nelle sue lodevoli eccezioni.

L’ossessione con
Trump è una copertura per molti di coloro che si definiscono “liberali
di sinistra”, quasi a rivendicare una decenza politica. Essi non sono
“di sinistra”, e non sono neppure particolarmente “liberali”. Gran parte
delle aggressioni degli Stati Uniti verso il resto dell’umanità è
venuto dalle cosiddette amministrazioni democratiche liberali – come
quella di Obama. Lo spettro politico americano si estende dal mitico
centro ad una destra lunare. La “sinistra” sono i rinnegati senzatetto
descritti da Martha Gellhorn come “una rara e totalmente lodevole
fratellanza”. Escludeva chi confonde la politica con il proprio
ombelico.

Mentre “guariscono” e “vanno avanti”, gli attivisti di
Writer Resist ed altri anti-Trumpisti rifletteranno su tutto questo? Più
precisamente: quando sorgerà un vero e proprio movimento di
opposizione? Arrabbiato, eloquente, tutti-per-uno-e-uno-per tutti. Fino a
quando la vera politica non torna nella vita delle persone, il nemico
non è Trump, siamo noi stessi.

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Fonte: http://comedonchisciotte.org/il-problema-non-e-trump-siamo-noi/

Fonte originale:http://www.counterpunch.org/2017/01/17/the-issue-is-not-trump-it-is-us/ 

Tradotto  da  Gianni Ellena

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