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Sorvegliati da macchine d'amorevole grazia

Inchiesta sul modello "Games as a service": sorveglianza ossessiva e gioco d'azzardo mascherati da videogiochi. Non solo 'spazzatura digitale acquistata da spazzatura umana'. [Massimo Spiga]

Sorvegliati da macchine d'amorevole grazia
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3 Novembre 2017 - 09.10


ATF

Mi piace pensare (prima sarà, meglio è) a un pascolo cibernetico in cui mammiferi e computer vivono insieme in una mutua armonia di programmazione, come acqua pura che tocca un cielo terso. Mi piace pensare (ora, vi prego!) a una foresta cibernetica colma di pini e materiali elettronici, dove i cervi passeggiano in pace tra computer, come fiori appena sbocciati. Mi piace pensare (sarà così) a un’ecologia cibernetica in cui ciascuno di noi è libero dal lavoro e torna alla natura, ritorna ai nostri fratelli e sorelle mammiferi, e tutti saremo sorvegliati da macchine d’amorevole grazia.

All Watched Over By Machines of Loving Grace, Richard Brautigan

Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere che succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno.

Jean-Claude Juncker

 
di Massimo Spiga.
Il modello Games as a service (“Videogame come servizio”) ha una lunga storia. Negli ultimi tempi, è emerso come il nuovo paradigma dominante nell’industria videoludica. Tuttavia, quando un gruppetto di gentiluomini brizzolati – al comando di un settore economico che fattura 108,9 miliardi di dollari l’anno – tenta di sedurci con miraggi d’incredibili esperienze, è sempre bene tenere un oggetto contundente a portata di mano.
In origine, lo slogan Games as a service servì a segnalare uno dei più rilevanti “specifici videoludici”, espandendo la definizione di ciò che un videogame può rappresentare e delle funzioni a cui può assolvere. In sintesi, servì a farci capire che un videogame, al contrario di un film o di un romanzo, non è soltanto una storia chiusa in se stessa, ma in primo luogo un sistema che infinitamente genera possibili esperienze, senza mai perdere la capacità di intrattenerci. Per massimizzare questo aspetto, il videogame necessita un’impostazione diversa sia sul piano della produzione che su quello della commercializzazione: scartato il sistema tradizionale (creo l’opera, la metto in una scatola, ti do la scatola, mi dai i contanti), si è preferito optare per un paradigma radicale, in cui il gioco è diffuso – talvolta gratuitamente, spesso su mobile, come cellulari o tablet – e il suo processo di sviluppo non ha alcun termine, perché i suoi produttori si periteranno di aggiungere in continuazione nuovi elementi, personaggi, opzioni, livelli e via dicendo. In questo modello, la fonte del guadagno non è data soltanto dalla vendita di un “oggetto” predeterminato, ma dal pagamento continuativo di un “servizio”. Ciò può assumere le forme più svariate, da quelle più dirette (un canone mensile) a quelle premium (il gioco base è gratuito, ma alcuni dei suoi contenuti aggiuntivi sono acquistabili in pacchetti oppure dietro sottoscrizione mensile) ad altre forme diaboliche e subdole, che sarebbe troppo complesso elencare, ma di cui sarà fornito qualche esempio in seguito.
In questa maniera, milioni di giocatori furono familiarizzati all’idea delle microtransazioni (ad esempio, l’acquisto di un buffo cappello per il proprio personaggio a 0.99€) e di veri e propri negozi all’interno dei videogame. Per una questione strettamente pragmatica, il modello Games as a service ebbe una sua prima esplosione sugli smartphone, ciascuno collegato a un account e a una carta di credito e, poi, si insinuò in varie forme anche nei videogame tradizionali, attraverso tecniche eterogenee quanto lo sono i vari hardware e sistemi operativi. Le major, accecate dal bagliore dei dobloni, si sforzarono per estendere e sviluppare i sistemi di microtransazioni e, soprattutto, si assicurarono che gli utenti li accettassero.
La più rudimentale tecnica, in questo senso, fu quella di trasformare i propri giochi in Skinner box, l’unità base del condizionamento operante teorizzato dallo psicologo comportamentista Burrhaus Skinner. Il meccanismo è semplice, ma insidioso: si crea un loop di gioco rapido ed elementare, premiato da una ricompensa. Tuttavia, il valore di quest’ultima non è fisso, ma rispondente a probabilità basate sulle classiche tattiche del gioco d’azzardo, per cui è semplice ottenerne una di scarso valore, ma quasi impossibile vincere il jackpot. Così facendo, ad esempio, il nostro Orco entrerà nella Caverna Dei Balordi e sterminerà la Setta di Necromanti e sarà premiato con una Simpatica Fascetta Colorata. Tuttavia, il giocatore sa che la Caverna ha la potenzialità di fargli vincere, nella migliore delle ipotesi, la Motosega Cromata Termonucleare e continuerà a ripetere l’attività nella speranza di vincerla. Per cui, con un semplice accorgimento, abbiamo esteso un gameplay di due minuti in uno di dieci ore (particolarmente allettante per la casa di produzione, se il “servizio” offerto dal videogioco è pagato tramite sottoscrizioni mensili). Però, il giocatore potrebbe ritenere che la Motosega, per quanto lucente e potente, non valga tutto questo sforzo. È questo il momento di inserire nel videogioco una modalità multiplayer (la quale, tra l’altro, porta con sé la necessità di rimanere collegati in perpetuo ai server della casa di produzione e, quindi, elimina per definizione la pirateria), in modo che i giocatori possano sfidarsi a vicenda e chiunque non sia dotato di Motosega sia fatto fuori in dieci secondi. Ora, quel che prima era un premio opzionale, diventa essenzialmente un obbligo. Il passo successivo dello sviluppo di questo modello ci arriva direttamente dalla lingua biforcuta dell’azienda: «Perché perdere tempo? Perché ripetere mille volte la Caverna? Per una modica cifra, posso offrirti direttamente il premio che desideri». Così è stato, finché non si è deciso che sarebbe stato più profittevole vendere queste ricompense tramite Loot Box, ovvero “scatole” randomizzate, le quali seguono le direttive probabilistiche del gioco d’azzardo sopra indicate. Per cui, il giocatore in cerca della Motosega è costretto a comprare cinquanta Loot Box piene di Fascette Colorate e, se avrà fortuna, la cinquantunesima conterrà quel che desidera. Ed è probabile che gli sarà costata più di una vera, materiale, funzionante motosega da falegname.
Come si è compreso, in questa banale esemplificazione, il modello Games as a service non è altro che una variante mascherata del gioco d’azzardo e riesce nell’incredibile obiettivo di rendere artificialmente noioso un videogame, facendo sì che il “divertimento” sia pagato a parte, nelle modalità sopra espresse. È un modello platealmente predatorio, il quale fa leva sulle debolezze dell’utente e, proprio per questo, non può funzionare su grande scala. Ciò è dimostrato chiaramente dai dati: soltanto una ridotta percentuale dei giocatori ne fa uso, mentre la vasta maggioranza si limita a subirlo; com’è ovvio, in un sistema creato per far vincere chi paga, coloro che decidono di non farlo saranno messi in condizione di minorità e sottoposti a ordalie create appositamente per punirli. Però, è divenuto ben presto evidente come anche una piccola percentuale di paganti sia sufficiente per creare extra-profitti mostruosi per le case di produzione; gli analisti proiettano un guadagno di 7,7 miliardi di dollari per quest’anno, esclusivamente provenienti da microtransazioni. Il solo Grand Theft Auto Online, dal 2015 a oggi, ha rastrellato 1,8 miliardi.
Questa illustrazione del Games as a service, necessariamente schematica e impressionistica, delinea soltanto il passato di questo paradigma. Il suo presente, se possibile, è ancora più agghiacciante. Di recente, una colossale protesta online si è scatenata in seguito a tre eventi separati. Durante il lancio del videogame Middle Earth: Shadow of War, è risultato chiaro che il gioco, nonostante sia principalmente single-player, è stato costruito su un sistema di microtransazioni piuttosto aggressivo, strutturato in modo tale che, per giungere al termine della storia, il giocatore avrebbe dovuto sperperare una fortuna in Loot Boxes. Pochi giorni dopo, l’annuncio di Forza Motorsport 7, un gioco di corse automobilistiche, ci ha mostrato come le basilari opzioni presenti nella precedente iterazione del titolo sono ora bloccate dietro un sistema analogo alle Loot Box; ed è una delizia notare che, ormai, non solo i contenuti addizionali, ma addirittura le opzioni (“Vuoi fare una gara di notte?”) sono a pagamento e smerciate tramite Loot Box randomizzate; per paradosso, chi ne vuole usufruire gratis può sganciare qualche decina di euro e comprarsi una copia di seconda mano di Forza Motorsport 6. Questi due casi hanno rivelato all’opinione pubblica come le grandi case di produzione abbiano perso il senso del pudore: la massiccia rivolta conseguita ha raggiunto l’obiettivo non di eliminare, ma almeno di mitigare le scelte più deteriori. Tuttavia, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è costituita dalla terza coincidenza: un brevetto di marketing della Activision (Call of DutyDestiny), il quale descrive le idee dell’azienda riguardo a un potenziamento del ruolo delle microtransazioni. Se il titolo del documento non fosse abbastanza chiaro (Sistemi e metodi per costringere alle microtransazioni nei videogame multiplayer), focalizziamo per un secondo la nostra attenzione su questo basilare fatto: un’azienda rende pubblico un suo metodo brevettato per fregare i propri clienti, specificando nel dettaglio come e quando li fregherà. Oltre a non essere un progetto sensato sul piano pragmatico («Salve, funzionario di banca, passerò a rapinarvi alle 16:30»), dimostra una psicopatia che lascia attoniti e divertiti. In breve, il modello si basa sulla sorveglianza del giocatore e sullo sfruttamento di trucchetti di bassa lega per sfilargli il portafoglio. Costretto a giocare online, ogni utente produce un’enorme mole d’informazioni sul suo stile e sulle sue preferenze. Questi dati possono essere usati per influenzarlo e proporgli in momenti di maggiore debolezza degli “affaroni” che lo aiutino. Testuale: «Il sistema dovrà includere un engine di microtransazioni studiato in modo da selezionare i giocatori di un match multiplayer con il criterio di influenzare i loro acquisti in-game. (…) L’engine delle microtransazioni dovrà appaiare un giocatore esperto con uno novizio, così da spingere il novizio ad acquistare gli stessi oggetti in precedenza comprati dall’esperto».
In pratica, il modello della Activision funziona così: ti piace fare il cecchino? Allora io ti inserirò in una partita in cui gli altri giocatori sono cecchini veterani – migliori perché dotati di potenti armi a pagamento, ça va sans dire – ed essi ti ammazzeranno un milione di volte. Il sistema si premurerà di farti vedere in modo spettacolare ogni lucido fucile che ti ha appena fatto esplodere le cervella, proponendoti a fine partita una bella schermata per avere la possibilità di ottenerlo (sic) tramite Loot Boxes.
Il videogame “as a service“, che in prima battuta era divenuto una specie di pubblicità circostante un negozio online (la cui merce erano pezzi del gioco stesso!), diventa, quindi, esplicitamente una trappola psicologica finalizzata a strappare soldi con l’inganno. Una trappola che sorveglia 24 ore su 24 milioni di persone e sfrutta queste conoscenze aggregate per migliorare la sua abilità nel truffare, umiliando i suoi utenti e sfruttando le loro emozioni negative a fine di lucro.
All’ondata di proteste, la Activision ha risposto: «[Il sistema su cui il nostro laboratorio di Ricerca & Sviluppo ha lavorato per due anni e che abbiamo brevettato] È solo un documento teorico, non ci permetteremo mai di implementare tattiche del genere». La Activision trasuda credibilità da ogni poro.
È bene sottolineare come, in tutti e tre i casi (Shadow of WarForza 7 e l’affaire Activision), delle campagne pubblicitarie da milioni di dollari sono state istantaneamente mandate all’aria dalla stolidità rapace e ideologica delle case di produzione, tant’è che gli argomenti succitati sono stati gli unici a entrare nel pubblico dibattito, oscurando del tutto la relativa qualità dei videogame prodotti (anch’essi investimenti plurimilionari).
In caso tutto ciò non sia sufficiente, non c’è da preoccuparsi, perché non c’è limite all’orrore: prendiamo in esame l’azienda Scientific Revenue, la quale vanta di aver implementato i propri sistemi su videogame che, nel complesso, hanno totalizzato cento milioni di download. L’attività di queste auguste personcine si fonda su un modello dinamico di sconti basato sulle informazioni personali dell’utente, raccolte sia all’interno del videogame sia da altre fonti (ovvero, i social network da lui usati). Per cui, basandosi sulla matematizzazione della tua intera vita online, l’algoritmo trova il momento giusto per offrirti uno sconticino su una Loot Box a cui, in quell’esatto istante, non puoi fare a meno.
Nell’industria videoludica, ci si riferisce ai giocatori che usufruiscono delle microtransazioni con i termini whale(balena), dolphin (delfino) e plankton, per indicare chi spende migliaia di dollari nel gioco d’azzardo digitale, chi ne fa un uso sporadico, e chi se ne tiene alla larga. Il disprezzo implicito in queste etichette zoologiche, analogo al celebre “parco buoi” della Borsa, si commenta da solo. Esistono intere case di produzione, in maggioranza attive su piattaforme mobile, il cui intero modello di business è costruito su queste pratiche. Gli esempi si sprecano, ma vale la pena menzionare la King e la Zynga, due aziende il cui valore si attesta intorno al miliardo e mezzo di dollari. Nonostante i loro videogame siano considerati dagli esperti, quale Jim Sterling, come “spazzatura digitale acquistata da spazzatura umana”, non dobbiamo credere che il mero snobismo possa arginare la diffusione della loro ideologia imprenditoriale, basata su un modello rapace, anche perché, fin qui, ci siamo dedicati allo sfruttamento dei loro clienti: ciò che tocca ai loro lavoratori necessiterebbe di un intero saggio.
Per tirare le somme, il modello Games as a service non è nulla di nuovo: si limita ad aggiungere qualche disfunzionale strumento hi-tech a un tipo di liberismo rimasto immutato, nelle sue meccaniche fondamentali, dal diciottesimo secolo. L’idea di modellizzare i propri utenti (o cittadini) in base a uno schema semplificato dell’umano non è che una riproposizione delle “robinsonate” criticate da Marx o dei sistemi paranoici scaturiti dalla teoria dei giochi di Nash e colleghi. In nuce, l’ideologia liberista considera l’umano come una macchina che agisce in un vuoto pneumatico – perché “la società non esiste” – per perseguire razionalmente la massimizzazione del suo piacere. Sebbene il primo impulso di questa semplificazione possa essere stato, in passato, opinabilmente sincero (si tentava di matematizzare, e quindi rendere “scientifico”, il funzionamento della società), la legittimità di questa linea di pensiero è stata ormai smentita dai fatti e i suoi effetti collaterali sono stati devastanti. Affidarsi a questi schemini può avere un senso nel breve termine, ma è destinato alla catastrofe nel lungo, per la basilare ragione che i suddetti modelli sono, oltre che grotteschi e ridicoli, in primo luogo sbagliati: gli esseri umani sono più complessi di come li si rappresenta e la loro “azione razionale per la massimizzazione del piacere” può forse calzare a pennello per un serial killer, ma non per chiunque altro. Citiamo un caso recente: la campagna elettorale di Hillary Clinton era spinta da un apparato di marketing incardinato sugli stessi principi. Con oceani d’informazione a loro disposizione, strategie di propaganda all’avanguardia, una mole di denaro spaventosa, modellizzazioni sociologiche ultrasofisticate, un team di cento esperti della comunicazione, ha comunque perso contro un wurstel dipinto d’arancio.
Chi propone il Games as a service ci assicura che il suo approccio sia totalmente opzionale e innocuo. Al contrario, proclama che il modello offre un vantaggio al settore e ai suoi utenti. Anche a una cursoria analisi, è chiaro che queste asserzioni sono smentite dai dati: se un intero videogame è costruito intorno a un modello di microtransazioni (e non, al limite, il contrario), non c’è nulla di opzionale in quest’ultimo. Non è più un videogame. Non può, per definizione, essere un’opera d’arte. È una macchina per il videopoker con intorno qualche campanello e qualche lucina per attirare l’attenzione.
In sé, il modello Games as a service contiene un’ulteriore contraddizione, la quale potrebbe causare l’esplosione di una bolla finanziaria capace di radere al suolo l’intero settore, come accadde nel 1983 con il crack della Atari: basandosi su una risicata minoranza di utenti paganti e una sconfinata maggioranza di utenti frustrati, l’intero schema si regge su pochissime spalle. Qualsiasi shock esterno potrebbe convincere i paganti a cambiare idea e innescare il crollo dell’intero castello. Invito a riflettere cosa potrebbe accadere se un settore economico da 108,9 miliardi di dollari svanisse in un mattino.
Inoltre, data l’età dell’utenza media del settore, dobbiamo rimarcare come le major stiano, in pratica, educando i bambini (ma, in realtà, chiunque) al gioco d’azzardo e predisponendoli alla dipendenza psicologica; tuttavia, questa potrebbe essere ricevuta come una sottolineatura particolarmente “buonista” in questo glorioso nuovo mondo del capitale e dell’imprenditorialità creativa. A dire il vero, è possibile che l’intero modello Games as a service sia messo fuori legge: sia l’Unione Europea che l’ESRB americana stanno valutando la problematica e, finora, l’hanno distinto dal puro e semplice gioco d’azzardo in base a un singolo cavillo, ovvero l’idea che la ricompensa della scommessa debba essere monetaria perché un gioco rientri nella fattispecie. Questa distinzione, sottile come un foglio di carta velina, potrebbe evaporare nel momento stesso in cui i parlamenti si riempiranno di persone che, almeno una volta nella loro vita, hanno giocato a un videogame costruito sui principi predatori sopra descritti.
Ciò che preoccupa, nel modello, non è tanto la sua iniquità e il suo cinismo, ma la mera constatazione che, nel breve termine, funziona. Il Games as a service ha triplicato il fatturato dell’industria videoludica in pochi anni.
La logica sopra descritta, l’integrazione dei dati di sorveglianza onnipervasiva usati a scopo pubblicitario, la creazione di trappole psicologiche che si nutrono della nostra vita per fregarci meglio: tutto questo è l’odierno volto del marketing e si spinge molto oltre ai semplici videogame. In mancanza di una razionale regolazione della materia, sarebbe fin troppo facile immaginare un futuro prossimo in cui tutti gli oggetti di casa – e non solo le attività esplicitamente online – forniranno ai loro creatori delle informazioni atte a fregare l’utente.
Sebbene queste circostanze si configurino, per citare nuovamente le alate parole del critico Jim Sterling, come un “All-you-can-fuck Buffet“, abbiamo constatato in svariati casi come il ruggito di centomila giocatori possa far cambiare idea ai padroni dell’industria (e, talvolta, farne saltare qualcuno dalla metaforica finestra). È una guerra d’attrito, in cui il vertice premerà sempre e comunque per imporre politiche aziendali sociopatiche e la base sarà in costante mobilitazione per ampliare i propri spazi di libertà. Finora, in questa dinamica, è mancato un unico personaggio: lo Stato. Mentre siamo spiati da macchine d’amorevole grazia, le quali cospirano per “migliorare” la nostra vita e soddisfare le nostre esigenze (indotte), la nostra arma più efficace rimane in un angolo, un colosso dormiente.
 
 
 

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