di Pierluigi Fagan
L’Aspen Institute si riunisce per fare il punto del processo di globalizzazione e conviene due cose. La prima è che questa è la seconda globalizzazione dopo quella del 1500. Per la verità gli storici, che i detentori del discorso pubblico si ostinano a non interpellare, già da tempo ne contano quattro di fasi “globalizzanti”, movimento a marea che avanza, rifluisce o poi avanza ancora in forma diversa dalla precedente (che ve e siano state varie forme, sfugge all’Aspen come a molti altri che si ostinano a non leggere libri di storia perché guidati da quelli di ideologia economica). Aspen allora nota che siamo in un fase di riflusso globalizzante anche perché le élite hanno creato malcontento nel popolo generando fenomeni di insofferenza. Si tratta di capire gli errori per dar vita all’inevitabile nuova fase di espansione dove però i benefici siano maggiormente condivisi. Ci sono due problemi in questa disamina dell’Aspen ma più in generale nel dibattito pubblico che confondono l’argomento.
Il primo è la ricorrenza del termine “libero commercio”. Libero commercio è un istituto affermatosi progressivamente all’interno di un potere territorializzato, principati, regni, poi stati. Può una struttura (libero mercato) vigente dentro un’altra struttura (potere territoriale) e ad essa subordinata, rimanere tale anche nella relazione tra poteri territoriali? Detto più semplicemente: può la stessa modalità di scambio commerciale esistere nella sua stessa forma dentro e fuori un potere territoriale? Se sì allora tocca rinunciare al potere territoriale in quanto il potere del libero mercato (che è ordinante l’economia ma disordinante gli Stati) subordina il potere territoriale, altrimenti no. Ma “no” cosa? No libero o no commercio? Sempre su la Repubblica abbiamo notizia della pare conclusa trattativa tra USA e Cina a proposito di sbilance commerciali con incombente minaccia di dazi. I cinesi pare abbiamo promesso di acquistare più beni made in USA e così si andrà a riequilibrare la bilancia prima molto asimmetrica. Questo è commercio ma non del tutto libero. Solo chi è fuori dal mondo reale (da cui l’esigenza di interpellare ogni tanto i poveri storici che tengono il registro dei fatti concreti del mondo) può promuovere il simmetrico idealismo del totalmente libero mercato da una parte e dell’assenza completa di commercio internazionale dall’altra. È la semplice geografia a far sì che anche in termini di produzione naturale, qui e lì si producano cose diverse ed è la semplice ragione umana a far sì che si scambino eccedenze con mancanze che sono altrui eccedenze. Distopico quindi sia ipotizzare l’assenza di commercio inter-nazionale, sia ipotizzarne la totale libertà.
Il secondo problema è nel termine globalizzazione. Pur esistendo da molti secoli (a parte il Medioevo e neanche del tutto, risalenti anche all’Antichità più profonda) una variamente estesa/intensa trama di scambi commerciali sul pianeta, nessuno prima degli anni ’80, usava questo termine per denotare il commercio internazionale. Dal lancio del concetto avvenuto sulla Harvard Business Review nel 1983 alla definizione del Washington Consensus nel 1989, il passo fu breve e prese la definitiva forma di 10 disposizioni di politica economica internazionale poi assunte come fondamento da parte di una precisa istituzione il WTO (1995) che subentrava al precedente GATT. Come dice il termine stesso e come diceva l’articolo del 1983 che lanciò il concetto, si è trattato dell’idea di “globalizzare i mercati” ossia i mercati erano tanti, diversi e plurali, si trattava di farne uno somma e soppressione di tutti gli altri come Internet che ha definizione proprio in “rete di reti”. Si trattava cioè di unificare ed infatti da ciò conseguirono anche autori che sostennero, con stoico sprezzo del ridicolo, il destino di un unico “governo mondo”. Questa idea che era intellettualmente assai ingenua e politicamente assai furba (per chi aveva il dominio del dollaro, dell’IMF, della WB e dei mari), ha generato ovviamente troppo disordine ed ora sta rifluendo ma al contempo rilanciandosi in nuova forma.
Il nuovo sistema non potrà che essere più complesso. Si tornerà quindi all’idea di un mercato di mercati dove i mercati (UE, nuova unione libero commercio africana, TPP, UEE/Unione Euroasiatica ed altre anche di minore condensazione ovvero di ampiezza regionale più limitata) avranno poi certo una meta-rete che li collega ma con la sostituzione nel ruolo di regolatore della “mano invisibile” economica con la “mano visibile” politica. Inter-nazionale significa tra nazioni e poiché con “nazioni” s’intendono Stati, ecco che è lì che il politico subentrerà trattando le regole che saranno ampiamente variabili, quindi più adattative. Ancora non si vedono chiari segni ma se ciò sta avvenendo sul piano delle produzioni e delle merci, presto accadrà sul doppio piano sia della valute, sia della libera circolazione dei capitali.
In uno scambio l’altro giorno in un altro thread si citava la Clearing Union proposta da J.M.Keynes nelle trattative di Bretton Woods. Allora l’inglese perse ma mi sa che alla lunga potrebbe riprendersi la rivincita dei tempi lunghi. Attualmente ce ne è una in vigore con sede a Teheran che riguarda Bangladesh, Bhutan, India, Maldive, Myanmar, Nepal, Pakistan, Sri Lanka ed ovviamente Iran (con conseguente distacco ed alternativa al circuito SWIFT).
La fase storica generale vede l’eclisse dell’Uno e lo sviluppo del Molteplice, che siano valute, istituzioni, regolamenti, unioni di scambio libero sì ma… Così in economia, così in politica e speriamo, così nei sistemi di idee.