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L'Invincibile Complotto

Raffrontiamo la narrazione sulle tempeste che affondarono l'Invincibile Armata spagnola e la flotta mongola di Kublai Khan con la narrazione della tempesta che ha affrontato il super-yacht al largo di Palermo. Occhio alle scorciatoie complottiste.

L'Invincibile Complotto
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22 Agosto 2024 - 23.46


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di Simone Santini.

Nel 1588, la Invincibile Armata, una potente flotta allestita dalla Spagna, tentò di invadere la Gran Bretagna. Dopo alcuni scontri senza esito contro la flotta inglese, la spedizione spagnola fu distrutta da tre eccezionali tempeste che, nel giro di poche settimane, non le lasciarono scampo. Il cattolicissimo monarca spagnolo pensò che Dio avesse abbandonato i suoi servitori per soccorrere i protestanti britannici tra i quali si diffuse la leggenda (chissà, poi, se fu davvero leggenda) che i maghi di corte avessero ricevuto l’ordine di scatenare gli elementi naturali contro i nemici continentali.

Nel XIII secolo, l’imperatore mongolo Kublai Khan allestì una maestosa e possente flotta di 4.000 navi per invadere il Giappone. Tuttavia i venti divini, i kamikaze, si abbatterono contro le navi con la forza di tifoni e le affondarono ancor prima che potessero raggiungere le coste del Sol Levante.

Ai giorni nostri chissà quali fantasie avrebbero incendiato fatti del genere.

A giudicare dall’accoglienza su web e social che ha avuto il caso dell’affondamento del veliero (un super yacht) Bayesian c’è da scommettere che le teorie della cospirazione più ardite si sarebbero scatenate. Questo evento ci offre il destro per porci qualche domanda sullo stato del “complottismo” negli ambienti “alternativi”.

Il Bayesian ha eccitato l’immaginazione perché immediatamente si sono colti collegamenti rispetto al caso dell’imbarcazione naufragata a causa del maltempo sul Lago Maggiore lo scorso anno. Intanto le modalità, in entrambi i casi una improvvisa e inspiegabile (?) tempesta (forse una tromba d’aria) causava il disastro. Poi la particolarità degli ospiti a bordo: agenti segreti italiani e israeliani sul Lago Maggiore, in Sicilia il brillante matematico e magnate del settore informatico Mike Lynch (il Bill Gates inglese), probabile collaboratore di servizi di intelligence per la sua attività nella cyber security, con alcuni suoi amici, un importante avvocato della City e un importante banchiere internazionale (presidente di Morgan Stanley International).

Come si può notare, la connessione oggettiva è in realtà piuttosto debole, due naufragi causati dal maltempo e vittime con un profilo particolare, ma certamente più che sufficiente per creare una suggestione, uno spunto di investigazione giornalistica. Oltre tutto ben presto si è verificata una eccezionale concomitanza: il socio di Lynch moriva nelle stesse ore in un incidente automobilistico in Inghilterra.

I dati di fatto sul naufragio del Bayesian, ovvero le notizie rinvenibili sulla stampa, le testimonianze raccolte tra testimoni, addetti ai lavori, incaricati delle indagini, sono state nelle prime ore e giornate ovviamente frammentarie, contraddittorie, incomplete, come sempre accade in casi del genere, aumentando però la possibilità alla fantasia di sbizzarrirsi. Così, partendo da una semplice suggestione, hanno cominciato a delinearsi allusioni e ipotesi di complotto di chi non era disposto a credere al semplice incidente ma puntava sull’attentato. Armi meteorologiche che creano dei micro tornado che colpiscono il bersaglio con la precisione di un missile lasciando intatte le navi più prossime, o che ricreano nel piccolo le condizioni per l’affondamento delle navi nel famigerato triangolo delle Bermuda, complotti geopolitici con riunioni in cui si decidono provocazioni contro la Serbia piuttosto che contro la Turchia, e chissà quali segreti deteneva Mike Lynch sull’oligarchia globalista che lui ben conosceva essendo appena uscito indenne da uno scandalo finanziario multimiliardario… e via discorrendo. Ognuno metteva un tassello, a suo piacimento.

In realtà sarebbero bastati un paio di giorni per avere a disposizione una ricostruzione della tragedia minimamente più aderente ai fatti, da cui necessariamente bisogna pur sempre partire, prima di avventurarsi in congetture.

Così, Giovanni Costantino, amministratore delegato del gruppo che ha costruito il veliero-yacht, in una intervista ha fornito la sua versione dei fatti sulla base dei dati attualmente a disposizione.

La nave era sicura sotto ogni aspetto della fabbricazione. Un gioiello. Praticamente inaffondabile a meno che non sia lasciata ad imbarcare acqua. La sequela degli avvenimenti: La tempesta, carte meteo alla mano, era prevista e prevedibile. Una tempesta di per sé non irresistibile ma importante. La nave era all’ancora in rada ma il maltempo fa perdere la presa all’ancora e la nave per diversi minuti “scarroccia” e va alla deriva ovvero viene sballottata nel mare grosso senza controllo. In condizioni normali la situazione sarebbe ancora gestibile ma, in questo frangente, la nave imbarca acqua. Le luci dell’albero verticale, che erano tutte accese, si spengono, tranne la lampadina di testa che è alimentata da una batteria. A bordo si è verificato un black out. Questo è possibile solo con un cortocircuito causato dall’acqua che ha raggiunto il generatore e/o la sala macchine. Il portellone di poppa, visionato dai sommozzatori, era aperto e da lì l’acqua è sicuramente entrata ma, sostiene Costantino, a quel punto si può immaginare che fosse aperto altro, in particolare le “porte in sovrastruttura” e il portellone di sinistra che, con una inclinazione di 30 gradi dello scafo, imbarcano acqua. Con il vento che spingeva e l’acqua che continuava ad entrare, la nave si è inclinata a 90 gradi ed è affondata. Tutto questo non è stato repentino, sono trascorsi diversi minuti, 6 minuti sostiene Costantino. Chi si trovava nelle cabine, però, vi è rimasto intrappolato a causa del black out, dell’acqua che entrava, soprattutto dell’inclinazione della nave, non avendo la forza e la possibilità di risalire.

Ora, questa è una versione del costruttore della nave che ha tutto l’interesse a scaricare la responsabilità sulla sequela di errori dell’equipaggio (aver lasciato la nave all’ancora senza accendere i motori per stabilizzarla in previsione del maltempo – come invece ha fatto una nave vicina che, a detta del suo capitano, ha traballato un bel po’ ma non ha avuto conseguenze – e soprattutto aver lasciato alcuni portelloni incredibilmente aperti) per salvaguardare il buon nome della sua azienda.

Tuttavia, chiunque voglia cimentarsi in una ricostruzione alternativa, da questi dati di fatto deve pur partire, magari per demolirli, magari per evidenziarne lacune e contraddizioni, ma attenendosi e ancorandosi (è il caso di dirlo) ai dati di fatto che man mano si conoscono con una qualche certezza. È una questione metodologica imprescindibile. Ogni indagine non può che partire da una suggestione, un odorino strano che stuzzica il nostro fiuto, ma quello è il punto di partenza, mai di arrivo. Se ci si innamora di una suggestione e la si trasforma in certezza, il danno è fatto. La nostra investigazione sarà minata alla base perché da lì in poi tenderemo a scartare qualunque fatto che non si accorda con la nostra idea per invece accogliere entusiasticamente ed evidenziare qualunque altro collegamento che la conforta, labile o concreto che sia, fino a compilare una lista, spesso incongruente e slabbrata, di suggestioni su suggestioni che formano un’invincibile teoria del complotto che però non è utile a nessuno. Spesso alla base ci sono impulsi egoici, particolarmente nell’era dei social, che ci spingono a voler primeggiare nella corsa alla comprensione dei fatti complessi della nostra epoca. Essere i primi a vantarsi di “aver capito” laddove la massa degli altri crede ancora alle favole del mainstream. Attenzione che la trappola è sotto i nostri piedi. C’è un labile margine tra chi fieramente “non crede più a niente” dell’informazione ufficiale e chi “crede a qualunque cazzata” dell’informazione alternativa.

Il giornalismo di indagine è una disciplina estremamente seria che ha poco a che vedere col “complottismo”. Il mio maestro Giulietto Chiesa sosteneva che “complottista” è chi progetta i complotti (di cui è piena la storia dell’umanità) non chi li studia. Sono sempre stato pienamente d’accordo con questa affermazione. Personalmente, però, aggiungerei (e non so se qui Chiesa sarebbe stato d’accordo con me) che merita l’appellativo di complottista anche chi i complotti li studia male. Che non vuol dire essere esenti da errori (tutti li compiono) ma arrendersi a metodologie sbagliate, raffazzonate, infantili.

Chi ordisce i complotti possiede spesso menti raffinate, raffinatissime. Chi vuole studiarli, e dunque comprenderli, deve ambire a non essere da meno. Il rischio è altrimenti quello di creare ambienti intellettuali davvero poco igienici e meschini con immediate ripercussioni sugli ambienti politici a cui aderiscono. Si possono creare per questa strada degli ambienti politico-culturali davvero miseri, che poi è l’obiettivo di chi detiene il potere, quello vero.

Nella nostra epoca chi ordisce un complotto, se è bravo (spesso lo è), ha anche cura di creare lui stesso un paio di teorie del complotto da divulgare così da offuscare e mimetizzare il complotto vero. Armi di distrazione, una cortina fumogena di bugie. Se poi gli investigatori alternativi ci mettono del loro per creare e assecondare minestroni velenosi, il gioco è fatto. Non se ne esce più.

Umiltà, pazienza, studio approfondito, logica ferrea. Almeno provarci.

Tratto da: https://www.facebook.com/simone.santini.92/posts/pfbid06Jqfu5ixqHCryjP2ehSCxBy51UPKfyn1fvtk5KgmBJBuuwLMPmtKLF4n6DtqWZ5nl

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