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di Miguel Martinez.
In questo periodo, sto lavorando in fabbrica.
Non come operaio, perché oggi nessuno ti assumerebbe. Più modernamente, c”è un signore che conosco che mi ha chiamato, chiedendo se ero disposto a insegnare inglese in una fabbrica per qualche settimana – a partire da subito, come sempre. Il signore che conosco è stato a sua volta contattato, con la solita urgenza, da un”agenzia che non si sa bene cosa faccia, ma è molto moderna. E che si occupa, tra l”altro, di Riqualificazione. Cioè si prende un operaio di quarant”anni, che tutta la vita ha fatto un certo mestiere ma lo sta per perdere
– assieme al mutuo della casa – e lo si riempie di qualche ora di Corsi, cosa che dovrebbe improvvisamente trasformarlo in un protagonista multimediale e competitivo dei nostri tempi.
La fonte dei soldi per tutto il giro è l”Europa, la grande macchina dei Progetti con cui il capitalismo occidentale supera per meticolosa vacuità tutti i piani quinquennali dell”ex-URSS.
L”Europa paga l”azienda, che paga l”agenzia, che paga il signore che conosco, che paga me. Ma probabilmente ho perso qualche passaggio in mezzo, anche perché nessuno ha particolare interesse a raccontare a me come stanno le cose.
La fabbrica è immensa. A occhio e croce, ben più grande della basilica di San Pietro o quelle altre cose contro cui si misurano di solito le grosse costruzioni.
La struttura è fatta a blocchetti, una specie di Lego grigia, tenuta insieme da viti, bulloni e enormi pilastri di ferro arrugginito. In cui troviamo tutti gli elementi dell”epoca che sta morendo: enormi dimensioni, razionalità e molto, molto metallo.
Dentro, però, la fabbrica è vuota, sviscerata dei suoi organi e del suo sangue.
Vuota di macchinari: pilastro dopo pilastro, vedi solo ferro, cemento e vetro, e senti da lontano i passi dei pochi lavoratori rimasti: oggi ci stanno forse 300 persone, ma mi dicono che qualche decennio fa, ce ne stavano ventimila.
Da anni, gli operai aspettano e sospettano. Non capiscono bene a chi appartengono e non sanno cosa si voglia da loro. Una volta al mese, all”incirca, qualcuno scende da loro, per rassicurarli, e parlare delle grandi speranze di un”azienda proiettata verso il Mercato del Futuro.
Poi tutto cala di nuovo nel silenzio, con gli operai che si raccolgono attorno alla macchina del caffè o alla mensa – una mensa senza cuochi, con i cibi in sacchetti di plastica che devi sfondare con la forchetta per aprirli. Mentre si sussurra il sospetto: che i misteriosi padroni vogliano vendere tutto quell”immenso terreno e farne un quartiere di villette a schiera. E” solo un timore, perché non esista alcuna prova di un tale progetto. Però quando l”Italia non produrrà più nulla, c”è da chiedersi chi si comprerà quei villini o passerà le serate nei locali che si stanno aprendo ovunque.
I passi degli operai rimbombano nel grande vuoto, e mentre corro a preparare la lezione, penso come la loro attesa sia quella di tutti noi. Che forse una delle caratteristiche principali di questi particolarissimi tempi è l”assenza di futuro: cioè della base stessa di ogni progetto, individuale o comune.
Senza futuro, non serve né organizzarsi, né prepararsi. Possiamo solo aspettare.
(Continua…)
Fonte: http://kelebek.splinder.com/post/22512552/Miguel+Martinez+va+in+fabbrica.
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