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Il diritto dei diritti

'L''articolo 18, l''obbligatorietà del reintegro e la giusta motivazione per il licenziamento. Intervista a Alberto Piccinini. [a cura di Barbara Bertoncin]'

Il diritto dei diritti
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22 Novembre 2014 - 11.43


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(a cura) di Barbara Bertoncin Alberto Piccinini, avvocato giuslavorista, dello “Studio Legale Associato” di Bologna, ha sempre svolto la professione forense con specializzazione in diritto del lavoro, patrocinando cause avanti alla Corte di Cassazione, alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia Europea. Membro del collegio difensivo Fiom, con Franco Focareta, Massimo Vaggi e Lina Grosso, ha difeso la Fiom di Potenza nel processo per condotta antisindacale di Sata (Fiat) relativo ai licenziamenti di due delegati ed un iscritto alla Fiom, dichiarati infine antisindacali.

Il tema è quello dell’art. 18. Vorremmo provare a capire di cosa si sta discutendo oggi, anche alla luce delle modifiche già introdotte con la riforma Fornero. Può intanto aiutarci a districarci tra le varie tipologie di licenziamento?

Provo a spiegare in parole semplici. Diciamo che le tre categorie di cui sentiamo parlare nei giornali sono il licenziamento discriminatorio, il licenziamento disciplinare e il licenziamento cosiddetto economico; tutte e tre erano già state sviscerate e discusse proprio due anni fa, in occasione della legge Fornero, perché si era proposta la stessa problematica: il governo Monti voleva limitare la reintegrazione esclusivamente al licenziamento discriminatorio, come avviene in tutto il mondo. Il licenziamento discriminatorio è nullo anche presso quelle legislazioni che tutelano meno il lavoratore; è un principio pacifico perché è aberrante che uno possa essere discriminato per una questione di razza, religione, sesso, o anche di età, come le ultime direttive comunitarie hanno precisato.

Nello specifico era stata avanzata la proposta di eliminazione del reintegro nei confronti del licenziamento disciplinare: lo si voleva monetizzare. Il compromesso cui si era arrivati era stato di limitare fortemente la possibilità di reintegrazione. Il cosiddetto licenziamento disciplinare può essere motivato da una giusta causa o da un giustificato motivo soggettivo e – in estrema sintesi – scatta quando il lavoratore viene accusato di aver compiuto un inadempimento contrattuale. La definizione di licenziamento per “giustificato motivo soggettivo”, che troviamo già nell’art. 3 della legge 604 del ’66, prevede in particolare che ci sia un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, e in questa ipotesi, da sempre, il datore di lavoro ha la possibilità di licenziare. Poi c’è la “giusta causa”, che invece è una definizione che troviamo nel codice del ’42: “una causa che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro”, e che dava e dà diritto al licenziamento in tronco, senza neanche un preavviso (mentre invece il licenziamento “per giustificato motivo soggettivo”, dava diritto al preavviso).

Bene, fino alla Fornero, se non c’era né giusta causa né giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro era sempre condannato alla reintegrazione.

Con la Fornero si è inserita una nuova formulazione che spezza la fattispecie sotto il profilo sanzionatorio, cioè i concetti e le categorie dovrebbero rimanere gli stessi, ma se il giudice accerta l’insussistenza del fatto, oppure, se accerta che la fattispecie è già prevista fra le sanzioni conservative presenti nei contratti collettivi (faccio riferimento a rimprovero scritto, multa, sospensione dal lavoro in caso di infrazioni non così gravi da giustificare il licenziamento); ecco, se si rientra in quelle fattispecie, allora il lavoratore ha diritto alla reintegrazione. Altrimenti c’è un’indennità da 12 a 24 mensilità.

La giurisprudenza si è dovuta un po’ orientare in questi due nuovi concetti. Diciamo che la novità più grossa riguarda il concetto di insussistenza.

Molti giudici, e prima di loro la dottrina che ha affrontato la questione, hanno evidenziato un effetto paradossale di un’interpretazione troppo letterale di questa norma, perché significherebbe che se io commetto un fatto lievissimo, e cioè -in ipotesi- guardassi male il caporeparto una mattina, davanti a dieci testimoni, potrei perdere il posto di lavoro in quanto il fatto storico “sussiste”. Non occorre spendere molte parole per evidenziare come sarebbe veramente paradossale.

Ricordo un mio caso in cui il datore di lavoro aveva licenziato il lavoratore perché aveva scritto in una mail “in questo gruppo aziendale parlare di pianificazione è come parlare di psicologia con un maiale”. Questa fattispecie evidentemente non è prevista tra le sanzioni conservative, perché non troveremo mai un contratto collettivo in cui si dice “viene punito con la multa il lavoratore che, in una mail dice che…”.

Insomma, è evidente che il giudice deve poter utilizzare i parametri di interpretazione che la legge gli riconosce: essi sono quello della legge 604, sul giustificato motivo soggettivo, che prevede che l’inadempimento debba avere il requisito della “notevolezza”, e quello della proporzionalità, rinvenibile nello stesso del codice civile, secondo cui la sanzione deve essere proporzionata all’infrazione. D’altra parte, qui parliamo di norme generali: la formulazione “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” e “causa che non consente la prosecuzione” sono concetti aperti che presuppongono una loro interpretazione/applicazione al caso concreto da parte del giudice. Solo attraverso una tale operazione è possibile rispondere alla domanda di giustizia proposta dal lavoratore.

Poi c’è il “licenziamento economico”.

La terminologia comunemente usata di “licenziamenti economici” si riferisce al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che per l’art. 3 della legge 604 va ricondotto a “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro, e al regolare funzionamento della stessa”.
Da quanto si deduce dalle dichiarazioni rese alla stampa (dal momento che nella legge delega votata con la fiducia l’art. 18 non viene nemmeno nominato), questa sembra la soglia su cui il governo Renzi non vorrebbe arretrare, ignorando la circostanza che già la legge Fornero ha ridotto la possibilità della reintegrazione a ipotesi residuali.

Ma qual è l’insidia? Che se viene prevista una motivazione che consente al datore di lavoro di liberarsi di una persona scomoda, anche nel caso in cui il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, si apre una crepa attraverso cui passeranno tutti. Ecco, io temo che la possibilità di non reintegrare in un caso del genere aprirebbe la strada al fatto che i datori di lavoro potrebbero sempre licenziare con quella motivazione.

Tanto più che sembrerebbe che vogliano pure togliere la possibilità del giudice di intervenire stabilendo delle “pene fisse” rapportate a un certo numero di mensilità (le tutele crescenti probabilmente sono queste: se ho lavorato un certo periodo ho diritto a queste mensilità) senza lasciare che sia il giudice, come avviene adesso con la Fornero, quantomeno ad applicare al caso concreto una sanzione da un minimo a un massimo, ad esempio da 12 a 24 mensilità.

A quel punto se sono un datore di lavoro disonesto posso dire: “Ho dei problemi di bilancio”. Dopodiché anche se i problemi di bilancio non li ho, sono salvo: posso cavarmela con una manciata di soldi e non sono più tenuto a reintegrare.

Attenzione, qui parliamo sempre – forse è il caso di ricordarlo – di licenziamenti individuali. Perché quando un’azienda con più di quindici dipendenti deve licenziare più di cinque persone, mette in atto una procedura regolata e disciplinata da una legge del ’90 che ha attuato, in ritardo, una direttiva comunitaria, la 223. Questa stabilisce un percorso di consultazione coi sindacati, che può finire con un accordo o meno, e poi il datore di lavoro fa i suoi licenziamenti. È una legge che c’è da 24 anni, ed evidentemente va bene a tutti se in un quarto di secolo nessuno ha mai provato a modificarla. Mi potete spiegare perché, allora, ogni tanto ancora oggi si alza un politico che dice: “Ma come, un datore di lavoro in crisi che deve chiudere non può licenziare?”.

Il licenziamento discriminatorio, l’unico pienamente tutelato, è anche quello più difficile da dimostrare. Si dice che quando il reintegro era previsto per tutte e tre le tipologie, non di rado il licenziamento economico o disciplinare permettevano di “coprire” il lavoratore anche di fronte a licenziamenti discriminatori mascherati.

Prima della Fornero, il licenziamento ingiustificato veniva sempre sanzionato con la reintegrazione, sopra i 15 dipendenti. In giudizio, in effetti, la via del discriminatorio era la più faticosa, perché quel motivo discriminatorio lo devo provare io lavoratore, mentre invece la mancanza di giustificato motivo la deve dimostrare il datore di lavoro. I giudici stessi così se la cavavano più facilmente; magari il motivo discriminatorio c’era, ma non era poi così indispensabile farlo emergere, dal momento che il risultato per il lavoratore era lo stesso.

Alcuni che curano la materia della discriminazione dicono che non è proprio vero che l’onere della prova della discriminazione sia tutta in capo al lavoratore. Nello speciale procedimento antidiscriminatorio tu puoi, ad esempio, fornire dei dati statistici nelle discriminazioni collettive e utilizzare criteri di presunzioni (con un notevole alleggerimento della necessità, in capo al soggetto discriminato, di provare la discriminazione). Secondo i principi dell’onere della prova, nel nostro processo, se chi fa causa allega una motivazione discriminatoria deve poi fornire quantomeno una serie di indizi, ma se un datore di lavoro su dieci assunzioni assume nove uomini e una donna (o viceversa) deve fornirne una ragionevole motivazione.

Non sempre però c’è questa evidenza. Non troverai mai un datore di lavoro che ti dice: “Ti licenzio perché sei nero”, ovviamente troverà un’altra scusa. Ecco, nel momento in cui io smonto quella scusa, ci sono già degli indizi che possono portare a sostenere che effettivamente c’è stata discriminazione. Allora, per concludere, è vero che con la discriminazione la prova è un po’ più difficile da fornire, ma è anche vero che sono aumentati, nelle cause, i richiami alla discriminazione. Qualcuno sostiene che, dopo la Fornero, tutti i lavoratori sostengono di aver subìto discriminazioni. Io credo, semplicemente, che la ragione per cui sono aumentati i casi è che prima c’era meno motivazione ad andare a sviscerare un aspetto discriminatorio quando poi il risultato concreto che si portava a casa (la reintegrazione) era lo stesso anche con un licenziamento semplicemente ingiustificato.

Nella vostra esperienza incontrate molti licenziamento discriminatori?

Bisogna sapere che il primo comma dell’art. 18 equipara ai licenziamenti discriminatori quelli effettuati per causa di gravidanza o per “causa di matrimonio”: tale ultima causale era stata introdotta da una vecchia legge del ’63, quando si presumeva che se una donna si sposava, rimaneva incinta e quindi era da licenziare. Ormai non si sposa più nessuno, ma magari la conservazione di una simile tutela del posto di lavoro potrebbe incentivare i matrimoni…

E poi è equiparato al discriminatorio il licenziamento ritorsivo. Questo è importante, era un principio acquisito dalla giurisprudenza, però adesso viene esplicitato. Cos’è la ritorsione? Per esempio, se io faccio causa al mio datore di lavoro e lui mi licenzia. Una delle prime sentenze era proprio motivata così. Un datore di lavoro, che non aveva neanche l’obbligo di giustificare il licenziamento, era al di fuori dell’art. 18, invece l’ha motivato col fatto che il suo dipendente gli aveva fatto causa. Si è arrivati fino in Cassazione, che ha stabilito un principio importante, cioè che nel momento in cui io esercito un diritto, addirittura di rango costituzionale (perché fare causa è un diritto sancito dall’art. 24 della Costituzione), non posso essere licenziato per quella ragione. Nel momento in cui tiro fuori il motivo vero per cui ti ho licenziato, ed è illecito, quell’atto diventa nullo.

Il primo comma dell’art. 18, che prevede la reintegrazione piena, l’unico baluardo conservato dalla Fornero, equipara tutte queste fattispecie. Noi certo ne incontriamo, anche per causa di gravidanza. La tutela della donna in gravidanza è forte, perché parte dal momento oggettivo del concepimento, quindi scatta anche se il datore di lavoro non lo sa, addirittura se non lo sa la lavoratrice. A quel punto non è necessario che tu mi abbia voluto licenziare perché sono incinta: dal concepimento fino a un anno d’età del bambino non puoi licenziarmi.

Diciamo che per le donne i problemi arrivano al rientro dall’assenza per gravidanza, con il bambino che ha un anno e un giorno, perché quando la tutela termina spesso si ritrovano demansionate, il loro posto non è più esattamente quello di prima. Anche se il Testo Unico sulla maternità e paternità (un decreto legislativo del 2001) prevede esplicitamente che non possano essere discriminate nell’assegnazione delle mansioni e che al rientro dalla gravidanza abbiano diritto a essere reintegrate nelle esatte mansioni e nel luogo di lavoro di prima.

Si dice che la crisi ha portato a una maggiore arrendevolezza da parte dei lavoratori. Voi lo riscontrate?

Decisamente, c’è anche un calo del contenzioso giudiziario. Questo non lo registriamo noi avvocati e i sindacati, ma lo registrano anche i tribunali.

Il Governo, che mette nel mucchio anche le cause di lavoro, si lamenta del fatto che ogni italiano ha una causa, che siamo un popolo litigiosissimo e quindi tutte le misure deterrenti dall’azione giudiziaria vengono considerate positivamente. Arbitrati, filtri, ecc. Da un paio d’anni è stato introdotto il contributo unificato, una tassa che si paga per far causa; nelle cause di lavoro è dimezzata, però, per esempio, per una causa di licenziamento solo questa “marca da bollo” è più di 250 euro. Inoltre, sono intervenuti limitando la possibilità per il giudice di compensare le spese, cioè di dire che quando perde il lavoratore ciascuno paga il suo avvocato. Per cui ora il lavoratore che intende fare causa e ha un reddito familiare superiore a 34.000 euro deve intanto pagare il contributo unificato e poi, se perde, corre il rischio di dover pagare anche l’avvocato dell’azienda (adesso le tariffe professionali sono pure aumentate…).

Insomma, sotto questo profilo, il disincentivo per il lavoratore è molto forte.

La riforma Fornero promuove anche un tentativo di conciliazione.

Questo è vero, nel senso che per il licenziamento per motivi economici da parte dei datori di lavoro con più di 15 dipendenti è stata introdotta una procedura che non consente di licenziare subito ma obbliga a passare attraverso la Direzione territoriale del lavoro. La comunicazione dell’intenzione di licenziare va mandata sia alla Direzione del lavoro che al lavoratore, e poi ci si vede lì. In quella sede, consapevoli della difficoltà di ottenere la reintegrazione, i lavoratori contrattano un range di mensilità; molte risoluzioni consensuali vengono firmate lì. La risoluzione consensuale del posto di lavoro non ti fa perdere il diritto all’ASpI, il trattamento di disoccupazione. In molti casi il datore di lavoro e il lavoratore trovano un accordo e la cosa si risolve bonariamente.

Queste forme di conciliazione prevedono una tutela legale?

Non è obbligatoria. Il lavoratore può farsi assistere da un avvocato o da un sindacalista. La commissione in Direzione territoriale del lavoro è composta da un funzionario pubblico interno, da un rappresentante sindacale dei lavoratori e da un rappresentante sindacale dei datori di lavoro; in qualche misura il rappresentante dei lavoratori, in teoria, dovrebbe verificare che si sta rispettando la volontà del lavoratore; certo, sarebbe meglio che venisse assistito da un sindacalista o da un avvocato.

Non è infrequente che le aziende promuovano dei presunti tentativi di conciliazione presso la Dtl per ottenere in quella sede accordi di rinuncia ad alcuni diritti. Non sempre, soprattutto in questa ultima ipotesi, i lavoratori sono assistiti dagli avvocati; c’è da sperare che le varie Direzioni del lavoro svolgano, tutte, la funzione pubblica di garanzia per la parte più debole alle quali sono chiamate.

Prima della Fornero, si diceva che la forza dell’articolo 18, il suo effetto di diga rispetto al ricorso a licenziamenti illegittimi, non era il reintegro, bensì la preoccupazione economica per le potenziali mensilità da risarcire che si cumulavano in attesa di arrivare a giudizio.

Sulle mensilità arretrate la Fornero è intervenuta su due fronti. Uno è il fronte del processo: ha stabilito un nuovo rito, che provoca un sacco di problemi perché è molto pasticciato, però prevede delle tappe più brevi. Per esempio, la riforma Fornero è in vigore da due anni e pochi mesi, e alcune cause introdotte con il nuovo rito sono già arrivate in Cassazione, dopo due fasi del giudizio in primo grado e il grado di appello. Quindi per ora hanno mantenuto questi tempi più veloci.

Il rischio poi che il datore di lavoro venga condannato a pagare tutto il periodo in cui il lavoratore è rimasto a casa è stato mitigato in due modi. Intanto già da prima della Fornero andava detratto il cosiddetto aliunde perceptum, cioè quello che il lavoratore avesse percepito aliunde, da un’altra parte, quindi il risarcimento era legato alla presenza di un danno vero, vale a dire che il lavoratore era stato disoccupato. Questo è rimasto nel licenziamento discriminatorio: si ha diritto a tutte le mensilità detratto l’aliunde perceptum.

Nella reintegrazione attenuata (che scatta nel caso del licenziamento disciplinare per insussistenza del fatto, o, nel caso del licenziamento economico se il fatto è manifestamente infondato) c’è un tetto massimo di 12 mensilità, e in più viene detratto non solo l’aliunde perceptum, ma anche l’aliunde percipiendum, quello che il lavoratore avrebbe percepito usando l’ordinaria diligenza. Che vuol dire che se non dimostri di esserti iscritto nelle liste di collocamento e di aver cercato un lavoro, non ti riconosciamo neanche quei mesi lì. Per cui quest’esigenza di tutela dell’imprenditore mi sembra ampiamente salvaguardata.

Quando scatta l’obbligo di reintegro cosa succede?

Succede che il lavoratore torna a lavorare e si ripristina una situazione di legalità, come prevede l’ordinamento giuridico civile. La reintegrazione non è poi una cosa così strana. Il prof. Romagnoli, con una metafora molto efficace, diceva: “Se ti costruiscono un muro alto cinque metri davanti alla porta di casa, preferisci un risarcimento economico o che quel muro venga abbattuto?”.

È evidente che bisogna ripristinare la situazione di legalità. Il dipendente ingiustamente licenziato (non dobbiamo dimenticare che parliamo di una sentenza che dichiara ingiustificato quel licenziamento) deve rientrare nel suo posto di lavoro.

Questo dovrebbe essere il buon senso. Il principio ripristinatorio sta tutto dentro al codice civile, dovrebbe essere prevalente sulla tutela risarcitoria. In diritto se un atto è nullo, si ripristina la situazione precedente, punto.

Nell’immaginario è passata questa idea di un reintegro che necessita dei carabinieri…

Non è così perché la Cassazione ha detto che alla fine la reintegrazione non sarebbe coercibile. Se io faccio un contratto in base al quale tu mi devi fare un quadro, e non me lo fai, si sostiene che questa è un’attività incoercibile. Cioè non c’è un carabiniere che ti può costringere a fare il quadro. Della reintegrazione si sostiene che sia coercibile fino a un certo punto: l’ufficiale giudiziario può accompagnare il lavoratore nel posto di lavoro, può ordinare l’iscrizione nei libri paga, però poi non può sostituirsi al caporeparto che gli assegna il lavoro che deve fare tutti i giorni.

Per questa ragione, l’opinione prevalente è che il datore di lavoro, condannato alla reintegrazione, che tiene a casa il lavoratore ma gli paga lo stipendio, ha già assolto ai suoi obblighi. Infatti i tre licenziati di Melfi sono stati tre anni a casa. Abbiamo provato a sostenere che dovevano farli lavorare: hanno avuto la possibilità di svolgere attività sindacale, partecipare alle assemblee, ma non siamo riusciti, prima della sentenza di Cassazione che ha dichiarato definitivamente i licenziamenti illegittimi e antisindacali, a consentire loro di riprendere materialmente il lavoro. Per cui anche questa cosa dei carabinieri è una barzelletta. Se il datore s’impunta e preferisce tenerli a casa tutta la vita, pagandoli, può farlo.

Una questione un po’ più di fondo. Si dice che l’art. 18, non venendo applicato a tutti i lavoratori, non sarebbe un diritto bensì una tutela.

È sicuramente un diritto, ed è stato giustamente definito “il diritto dei diritti”, perché è quello che tiene in piedi tutto. Certo questo vale nelle aziende in cui si applica, e qui do atto che ci sono lavoratori di serie A e di serie B, perché i lavoratori delle aziende con meno di 16 dipendenti non hanno diritto alla reintegrazione. Su questo la Corte costituzionale è più volte intervenuta affermando che questa distinzione in capo al legislatore è consentita: si può stabilire che sopra una certa soglia le tutele siano maggiori e sotto siano inferiori.

Perché dico che è il diritto dei diritti? Perché la funzione principale che svolge l’art. 18 è di deterrenza. È perché sa che c’è la possibilità di reintegrazione che il datore di lavoro non abusa del suo potere; allo stesso tempo è sapendo che c’è quest’ombrello che mi protegge che io, in costanza di rapporto, posso rivendicare la qualifica superiore, posso fare uno sciopero, posso protestare se mi demansionano o se mi fanno del mobbing, posso iscrivermi al sindacato, insomma posso esercitare tutta una serie di diritti.
L’art. 18 è proprio a salvaguardia della dignità, del fatto che non si sia schiavi. E questo è fondamentale.

Francamente mi sembra ridicolo giustificare la soppressione dell’art. 18 con il fatto che i casi sarebbero pochi. Ipotizziamo che, miracolosamente, quest’anno ci siano state solo cinque rapine a mano armata in tutt’Italia. È un valido motivo per eliminare il reato di rapina a mano armata? È chiaro che l’efficacia di una norma è prima per la sua deterrenza che per la sua repressione. Il fatto che i reintegri siano pochi non è un argomento per giustificarne la soppressione, al contrario! Può essere la prova che funziona!

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