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Di lavoro non ce n'è più bisogno

Con informatica, intelligenza artificiale, robotica è possibile produrre ciò che ci serve con una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Le conseguenze.

Di lavoro non ce n'è più bisogno
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27 Luglio 2015 - 18.54


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con premessa di ZeroConsensus e commento finale di Pier Luigi Fagan.

L’articolo che zeroconsensus propone è ripreso da linterferenza.info e tratta il tema della rarefazione del lavoro a causa dell’innovazione tecnologica e del cambiamento della “composizione organica del capitale” (per dirla con Marx). Ovviamente zeroconsensus condivide l’esistenza del problema, che – come dice Franco Berardi – è il vero tabù delle società contemporanee: il lavoro sta scomparendo. Berardi come soluzione al problema propone il reddito di cittadinanza. Zeroconsensus pensa che sia una delle possibili soluzioni, ma non l’unica. Infatti la via maestra è la socializzazione – almeno parziale – dei fattori della produzione al fine di arrivare con più facilità ad una società dove si  lavori meno ma si lavori tutti (secondo le proprie capacità e inclinazioni). 

da ZeroConsensus.


di Franco Berardi.

Alla fine degli anni ’70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della FIAT convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quel nel 1970 ne occorreva cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario.

Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.

Quella volta purtroppo i sindacati credettero che la tecnologia fosse un nemico dal quale occorreva difendersi. Occuparono la fabbrica per difendere il posto di lavoro e il risultato prevedibilmente fu che gli operai persero tutto.

Ma si poteva fare altrimenti? chiederete voi? Certo che si poteva. Una piccola minoranza disse allora: Lavorare meno per lavorare tutti, e qualcuno più furbo disse addirittura: lavorare tutti per lavorare meno. Furono attaccati come estremisti, e alcuni li arrestarono per associazione sovversiva.

Nel 1983 nel paese più brutto del mondo c’era un governo infernale guidato da una signora cui piaceva la frusta. Aveva detto che la società non esiste (there is no such thing as society) per dire che ognuno è solo e deve combattere contro tutti gli altri col risultato che uno su mille può far la bella vita e scorrazzare in Roll Royce, uno su cento può vivere decentemente e tutti gli altri debbono fare la vita di merda che più di merda non si può immaginare. Ma ritorniamo a noi, mica sono pagato per parlar male dell’Inghilterra. Un bel giorno la signora decise che di miniere non ce n’era più bisogno e neanche di minatori. Cosa fareste se la vita vi fosse andata così male da ritrovarvi a fare il minatore in un paese di merda dove in superficie piove sempre e c’è la Thatcher, e sottoterra è anche peggio?

Non so voi, ma nel caso io facessi il minatore e qualcuno mi dicesse che non c’è più bisogno di miniere ringrazierei il cielo e chiederei un salario di cittadinanza. Non così Arthur Scargill che era il capo di un sindacato che si chiamava Union Miners. Un sindacato glorioso che organizzò una lotta eroica contro i licenziamenti come direbbe Ken Loach. So bene che c’è poco da fare gli spiritosi perché fu una tragedia per decine di migliaia di lavoratori e per le loro famiglie: naturalmente i minatori persero la lotta il lavoro e il salario, ed era solo l’inizio. La disoccupazione è oggi in crescita in ogni paese d’Europa. Metà della popolazione giovanile non ha un salario, o ha un salario miserabile e precario, mentre i riformatori europei hanno imposto un rinvio dell’età pensionabile da 60 a 62 a 64 a 65 a 67. E poi?

C’è qualcuno che possa spiegarmi secondo le regole della logica aristotelica il mistero secondo cui per curare la disoccupazione dilagante occorre perseguitare crudelmente i vecchi che lavorano costringendoli a boccheggiare sul bagnasciuga di una pensione che non arriva mai? Nessuno che sia sano di mente mi risponde, perché la risposta non si trova nelle regole della logica aristotelica, ma solo nelle regole della logica finanziaria che con la logica non c’entra niente ma c’entra moltissimo con la crudeltà.

Se la logica finanziaria contraddice la logica punto e basta, cosa farebbe una persona dotata di senso comune? Riformerebbe la logica finanziaria per piegarla alla logica, no? Invece Giavazzi dice che la logica vada a farsi fottere perché noi siamo moderni (mica greci).

Animal Kingdom è il nome di un’azienda di Saint Denis che vende ranocchie e cibi per cani. Candelia vende mobili per ufficio. Sembrano aziende normali ma non lo sono affatto, perché l’intero business di queste aziende è finto: finti i clienti che telefonano, finti i prodotti che nessuno produce, finta perfino la banca cui le fake companies chiedono falsi crediti.

Come racconta un articolo del New York Times del 29 maggio, da cui si deduce che il capitalismo è affetto da demenza senile, in Francia ci sono un centinaio di aziende finte, e pare che in Europa se ne contino migliaia.

Milioni di persone non hanno un salario e milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice: di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale, robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il tabù più tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda sulla premessa che chi non lavora non mangia. Una premessa imbecille, una superstizione, un’abitudine culturale dalla quale occorrerebbe liberarsi.

Eppure economisti e governanti, invece di trovare una via d’uscita dal paradosso in cui ci porta la superstizione del lavoro salariato insistono nel promettere la ripresa dell’occupazione e della crescita. E siccome la ripresa è finta, qualcuno ha avuto questa idea demente di creare aziende in cui si finge di lavorare per non perdere l’abitudine e la fiducia nel futuro, poiché i disoccupati di lungo corso (il 52.6 dei disoccupati dell’eurozona sono senza lavoro da più di un anno) rischiano di perdere la fede oltre al salario.

Ma torniamo al punto. Dice il giovane presidente del consiglio che il reddito di cittadinanza è una cosa per furbi perché in questo paese chi lavora duro ce la può fare. Forse qualcuno sì, non me la sento di escluderlo, ma qui stiamo parlando di ventotto milioni di disoccupati europei. E a me risulta che la disoccupazione non è destinata a diminuire ma ad aumentare, e ti dico perché. Perché di tutto quel lavoro (duro o morbido non importa) non ce n’è più bisogno. Lo dice qualcuno che è più moderno di Renzi e di Giavazzi messi insieme credete a me. Lo dice un giovanotto dotato intellettualmente che si chiama Larry Page. In un’intervista pubblicata da Computer World nell’ottobre del 2014 questo tizio, che dirige la più grande azienda di tutti i tempi dice che Google investe massicciamente in direzione della robotica. E sai che fa la robotica? Rende il lavoro inutile, questo fa. Larry Page aggiunge che secondo lui solamente dei pazzi possono pensare di continuare a lavorare quaranta ore alla settimana. Si stringe nelle spalle e dice: Renzi, lavorare duro d’accordo, ma per fare che?

Il Foreign Office nel suo Report dell’anno scorso diceva che il 45% dei lavori con cui oggi la gente si guadagna da vivere potrebbe scomparire domattina perché non ce n’è più bisogno. Caro Renzi qui si tratta di cose serie, lascia fare ai grandi e torna a giocare con i video game: occorre immediatamente un reddito di cittadinanza che liberi la gente dall’ossessione idiota del lavoro.

La situazione infatti è tanto grave e tanto imprevista, che occorre un’invenzione scientifica che non è alla portata degli economisti.

Ti sei mai chiesto cosa sia una scienza? Diciamo per non farla troppo lunga che è una forma di conoscenza libera da ogni dogma, capace di estrapolare leggi generali dall’osservazione di fenomeni empirici, capace di prevedere quello che accadrà sulla base dell’esperienza del passato, e per finire capace di comprendere fenomeni così radicalmente innovativi da mutare gli stessi paradigmi su cui la stessa scienza si fonda. Direi allora che l’economia non ha niente a che fare con la scienza. Gli economisti sono ossessionati da nozioni dogmatiche come crescita competizione e prodotto nazionale lordo. Dicono che la realtà è in crisi ogni qualvolta non corrisponde ai loro dogmi, e sono incapaci di prevedere quel che accadrà domani, come ha dimostrato l’esperienza delle crisi degli ultimi cento anni. Gli economisti per giunta sono incapaci di ricavare leggi dall’osservazione della realtà in quanto preferiscono che la realtà sia in armonia con i loro dogmi, e incapaci di riconoscere quando mutamenti della realtà richiedono un cambiamento di paradigma. Lungi dall’essere una scienza, l’economia è una tecnica la cui funzione è piegare la realtà multiforme agli interessi di chi paga lo stipendio degli economisti.

Dunque sta ad ascoltarmi: non c’è più bisogno di Giavazzi di tutti quei tristi personaggi che vogliono convincerti che l’occupazione presto riprenderà e la crescita anche. Lavoriamo meno per un reddito di cittadinanza, curiamoci la salute andiamo al cinema insegniamo matematica, e facciamo quel milione di cose utili che non sono lavoro e non hanno bisogno di scambiarsi con salario. Perché sai che ti dico: di lavoro non ce n’è più bisogno.

* Pubblicato sul numero di luglio della nuova serie di “Linus”.

NOTA DI PIER LUIGI FAGAN

da CRONACA N.260 (26.07.15)

Franco Berardi non è il primo e non sarà l’ultimo (solo negli ultimi giorni, ad esempio, Paul Mason – qui) a parlare della “fine del lavoro”. Noi, che non siamo cool come Berardi, lo facemmo tre anni fa (qui)
e più volte ci siamo tornati su.

Ma anche noi non siamo stati i primi e
come si  Ã¨ verificato, gli ultimi. Nel nostro articolo, ricordavamo
che, forse il primo fu Keynes, che non leggeva fatti ma in base ad un
potente e razionale impianto cognitivo, faceva previsioni, previsioni a
cento anni, previsioni che si sono avverate prima dei cento anni.

Il
punto della questione che ci preme sottolineare non è però la cosa in sé
che per noi è scontata, quanto la reazione alla cosa in sé.
L’ordinatore delle nostre società, il nostro contratto sociale, è il
lavoro
. Sul lavoro si fa profitto, col lavoro si producono cose da
vendere-acquistare, il lavoro è retribuito in modo da acquistare le cose
prodotte.

Questa triangolazione di posizioni, struttura il nostro
vivere associato. Quando, come si verifica ormai da tempo, questa
triangolazione non funziona più
, si fa sempre meno profitto (tant’è che
alla economia produttiva subentra l’economia finanziaria); si producono
sempre più cose in meno persone e si producono sempre più servizi invece
che cose (si disintegrano le catene distributive e si aggirano i limiti
delle forniture materiali necessarie alle produzioni,
smaterializzandole); si compra con sempre più difficoltà (perché i
poteri d’acquisto scendono mentre la disoccupazione sale); si manifesta
la reazione che c’interessa.

La reazione si compone di: a) rimozione
ovvero tutto ciò è solo un momento passeggero, tornerà la crescita e
l’ordine dinamico che ha da sempre (in realtà solo da due secoli scarsi)
organizzato il nostro vivere associato; b) razionalizzazione intellettualizzazione ovvero
è tutta colpa dei banchieri che hanno espropriato l’economia produttiva
del suo ruolo (quindi fede nella reversibilità dei processi); c) negazione ovvero
è possibile tornare alla piena occupazione magari con le produzioni di
stato (va molto anche la sovranità monetaria).

Ve ne sono anche altri ma
tutti convergono in quel paradigma psicoanalitico che è
l’individuazione dei meccanismi di difesa che spesso portano a diagnosi
di nevrosi.

Il punto è che tanto l’ideologia dominante
positiva
(la varie formazioni ideologiche aggregate intorno al concetto
di capitalismo) quanto quella dominante negativa (le varie declinazioni
del socialismo – comunismo), con la perdita del triangolo, perdono la
loro stessa consistenza, quindi negano attivamente questo fatto che
pregiudica la loro stessa ontologia
.

Colpisce, non tanto le reazioni dei
profeti della crescita (reazione scontata), quanto quella di coloro che
invece dovrebbero sentirsi felicemente liberati dal dovere del lavoro.
Certo, si pone il problema del reddito o più che altro della
soddisfazione dei bisogni primari, ma invece che affrontare questo (dal
reddito di cittadinanza alla più strutturale e necessaria
redistribuzione del minor lavoro a tutti o altro), accendendo un vivace
dibattito sulle possibili soluzioni e conseguenti lotte per metterle in
pratica, si dileggiano i profeti di sventura.

Reddito di cittadinanza,
redistribuzione a tutti del minor lavoro, decrescita
, sono ostracizzate
da sindacati, comunismi vari, giuslavoristi, aedi del proletariato,
cultori del dogma antropologico dell’homo laborans (hegeliani e
marxisti, in genere), economisti anche non conformisti, molti sociologi,
 inconsci devoti della fede nel “lavoro rende liberi”.

Tutte posizioni
esistenziali coinvolte nell’identificazione con l’aggressore (Sindrome
di Stoccolma) o dipendenti socialmente dall’oggetto che sta scomparendo.

La cosa in sé, invece, è un fatto, un semplice fatto sempre più
auto-evidente ma tanto più si tarderà a prenderne coscienza, tanto più
si patiranno gli effetti del suo venire meno.

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