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Lo sciopero-battaglia

'A Bologna uno dei più importanti scioperi degli ultimi decenni in Italia. E'' diverso dai soliti, sia per i protagonisti che per il metodo adottato [D. Mallamaci]'

Lo sciopero-battaglia
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26 Settembre 2015 - 11.08


ATF

di
Daniele Mallamaci
.

È in
corso a Bologna uno dei più importanti scioperi degli ultimi decenni in Italia.
Si tratta però d”uno sciopero diverso dai soliti, sia per i protagonisti
coinvolti che per il metodo da loro adottato.

Quello
bolognese, infatti, non è uno sciopero-spettacolo ma uno sciopero-battaglia.

Quanti
scioperi ai quali nella nostra vita abbiamo assistito – attivi o passivi – si
sono infine rivelati null”altro che uno spettacolo, concludendosi senza che
nemmeno una delle rivendicazioni avanzate dagli scioperanti venisse accettata
dalla controparte, fosse essa il governo nazionale, un”azienda straniera o un
datore di lavoro italiano?

Come
lo sciopero del 2002, con tanto di mega-manifestazione al Circo Massimo: a
Roma, l”allora segretario del più grosso sindacato italiano deplorò la
prospettata riforma dell”articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e mentre lui
oggi è un parlamentare europeo lautamente stipendiato, i governi Monti e Renzi
(entrambi appoggiati dal partito di maggioranza da lui pure fondato e
tardivamente abbandonato) hanno definitivamente neutralizzato lo Statuto,
facendo impennare la disoccupazione e precipitare i salari.

O
come l”ultimo, partecipatissimo, dibattutissimo sciopero nella scuola contro la
renziana riforma della “Buona Scuola” di pochi mesi fa, poi diventata comunque
legge dello Stato e addirittura in vigore da quest”anno scolastico, pronta
subito a pesare negativamente sulla qualità della didattica offerta agli alunni
e ancor di più sulle condizioni di lavoro degli insegnanti.

Sono
questi soltanto due tra i tanti, troppi esempi di sciopero-spettacolo: una
tipologia di sciopero data ormai per scontata cui non sembra esserci
alternativa, eppure dannosa innanzitutto per gli scioperanti stessi, i quali
pur spendendo tempo, energie e soldi ottengono infine niente di niente.

Così
dividendosi, durante e dopo la sconfitta: tra chi si sente o arrabbiato e
frustato, o disilluso e soggiogato.

A
Bologna, però, non c”è aria di sconfitta, anzi: i facchini e gli operai in
sciopero credono nella vittoria. Lottano per la vittoria.

Già
per tale, singolo aspetto, è lampante quanto questo sciopero sia radicalmente
differente rispetto quelli cui siamo abituati (o a cui ci hanno abituato i
media): d”altronde, non è uno sciopero-spettacolo, è uno sciopero-battaglia.

Qui
non c”è lo spettacolo di masse di scioperanti di età medio-alta applaudenti il
loro massimo dirigente, il quale truccato col mascara parla a un potente
microfono da un palcoscenico con riflettori, maxischermi e palloncini,
rivolgendosi in primis alle camere televisive e agli obiettivi dei fotografi di
fronte, per dire ai lavoratori-spettatori accalcati con mille bandiere dietro
ai giornalisti esattamente l”opposto di quello che proprio lui e il suo sindacato
s”apprestano veramente a fare per loro (o meglio: contro di loro).

Qui
non cӏ lo spettacolo dei flash, dei clicks, dei tweets, dei likes o dei
pinchs: gli scioperanti non dispongono della copertura mediatica di cui ancora
beneficano alcune categorie di lavoratori, specie quelli della pubblica
amministrazione, i quali tuttavia scambiando il mondo virtuale per quello reale
solo tardivamente s”accorgono che la loro apparente visibilità sui mezzi
d”informazione è stata pari all”inconcludenza del loro vano scioperare.

A
Bologna, dunque, non cӏ spettacolo.

Cӏ
battaglia.

E a
dar battaglia, questa volta, son soprattutto le donne.

Donne
giovani e straniere; donne lavoratrici, iscritte al Sì-Cobas.

Il Sì-Cobas è un sindacato intercategoriale di
lavoratori autorganizzati, nato nel 2010 ed attivo nel settore della logistica,
in sempre più regioni d”Italia:

Ha
già organizzato imponenti seppur poco conosciuti scioperi, in siti industriali
di prima grandezza come la Granarolo di Bologna (nel 2014, quando dopo uno
sciopero per la riduzione della busta paga furono licenziati 51 facchini), al
Caat di Torino (il mercato ortofrutticolo, dove purtroppo nel 2014 durante un
blocco si registrò un morto) o all”Ikea di Piacenza (nel 2013, in seguito al
quale al coordinatore nazionale dei Sì-Cobas fu pretestuosamente notificato
dalla Questura di Piacenza il foglio di via dall”intera provincia per tre
anni).

Lo
sciopero più recente data della primavera scorsa: alla cooperativa SDA di Sala
Bolognese (che la committente Poste Italiane intendeva
“ristrutturare” lasciando a casa 390 lavoratori su 510) in centinaia
incominciarono a protestare per il licenziamento di 11 facchini iscritti al
sindacato. Contrastando la serrata di SDA durata dieci giorni, i lavoratori
Sì-Cobas ed altri a loro solidali hanno o bloccato o picchettato le sedi di
Bologna, Bergamo, Brescia, Stezzano, Torre Boldone e Roma, fin quando SDA ha
dovuto prima riassumere i lavoratori licenziati e quindi sopprimere il piano di
ridimensionamento che interessava l”intero personale.

Le
vicende Granarolo, Caat, Ikea e SDA dimostrano che ogni luogo di lavoro può
trasformarsi da buco nero della crisi in soluzione alla crisi: a patto che i
lavoratori decidano di unirsi, scender in campo e dare battaglia.

Non
fa eccezione la Yook di Bologna, una colossale multinazionale dell”e-commerce.
E soprattutto non fanno eccezione i lavoratori della Yook: anzi, le
lavoratrici.

Da
mesi, infatti, la situazione in questa multinazionale italiana (leader nella
vendita online di moda e design che fattura ricavi netti per più di 450 milioni
di euro) era diventata insostenibile per i suoi dipendenti, le sue dipendenti
in particolare: le quali costituiscono la maggioranza della forza-lavoro dei
suoi magazzini, essendo tradizionalmente considerate più manipolabili ed
assoggettabili ai desiderata della dirigenza.

Desiderata
spesso sconfinanti nella bestialità, palesemente illegali: infatti, oltre al
“normale” sfruttamento dovuto a bassi salari, turni pesanti e carichi di lavoro
massacranti, le lavoratrici della Yook han dovuto negli anni sopportare
ulteriori, odiose pratiche d”asservimento, purtroppo da sempre più diffuse nei
nostrani ambienti di lavoro: vessazioni, minacce, estorsioni, ricatti, offese e
maltrattamenti, pure di natura sessuale.

Perciò,
circa un anno fa undici lavoratrici hanno sporto denuncia penale, accusando il
responsabile di Mr Job, ovvero d”una delle cooperative cui la Yook appalta non
solo il lavoro con i relativi costi (nello specifico: il confezionamento dei
vestiti) ma soprattutto la responsabilità delle eventuali vertenze legali.

Tra
le contestazioni all”ormai ex-responsabile della cooperativa, rinviato a
giudizio dopo un”inchiesta della Procura di Bologna: l”aver “costretto le
donne – approfittando sia della difficoltà del mercato del lavoro, sia delle
loro condizioni di indigenza, nonché minacciando di licenziarle, di
sospenderle, di non chiamarle più a lavorare per settimane o sostituirle con
altre – a mantenere ritmi insostenibili e a tollerare situazioni di lavoro
degradanti e contrarie alla legge”. Inoltre, nei confronti di sei
lavoratrici l”uomo avrebbe abusato della propria posizione, cercando di
costringerle a subire atti sessuali.

Perciò,
forse, il primo ministro Renzi ha definito la Yook un fiore all”occhiello del Made
in Italy.

Mr.
Job tentò di comprare il silenzio delle vittime che intendevano denunciare il
clima ottocentesco loro imposto dai capi di magazzino.

Alle
pur allettanti offerte loro prospettate, tutte opposero un acuto e sicuro
“No!”, sebbene la loro paga raggiungesse a malapena i 750 euro
mensili (950 con gli straordinari), a fronte di “centodieci pezzi confezionati
ogni ora invece che gli 80 da contratto” come conteggiano sia Samira, mamma
single di 29 anni, che Bouchra, 25 anni e da sei impiegata in azienda per
sostentare i suoi due genitori disoccupati.

Coraggiosamente,
le lavoratrici interessate vanno avanti: si rivolgono ai Sì-Cobas per avere
aiuto e appena possibile depositano la loro denuncia.

Come
contromisura,  a suo tempo l”azienda si
limitò semplicemente a sostituire gli uomini di guardia con delle donne,
promettendo un drastico cambiamento gestionale per prevenire il ripetersi di
quanto accaduto.

Protestando
contro tali insopportabili condizioni di lavoro e inaccettabili soprusi, nel
giugno 2014 alcune lavoratrici aderenti al Sì-Cobas avevano già organizzato un
primo, riuscito sciopero nel magazzino della Yook:
vedi il VIDEO.

Eppure,
nonostante le promesse sottoscritte dalla dirigenza alle sindacaliste, poco o
nulla è cambiato nei capannoni.

Anzi:
ad agosto scorso, otto delle denuncianti sono state improvvisamente licenziate,
ree di essersi “rifiutate di cambiar magazzino di lavoro” e incolpate di
episodi inesistenti (tra cui, guarda caso, spicca quello di “atti violenti”
proprio contro le neo-guardie).

Tutte
e otto le “leonesse” hanno alzato la testa, però tutte e otto son state
licenziate: che fare?

Che
fare se non reagire, accettando di scender in campo e lottare?

Così,
quello che sarebbe potuto anonimamente annoverarsi come l”ennesimo, grave caso
di “normale” sfruttamento  delle donne
che lavorano – s”è trasformato in un”incredibile opportunità di riscatto,
grazie all”aiuto di altre lavoratrici e altri lavoratori.

Perché
tra le donne e gli uomini che lavorano nella cooperativa Mr. Job, nelle altre
cooperative del magazzino Yook e di alcune altre aziende presenti
nell”interporto di Bologna (una delle piattaforme logistiche ed intermodali più
grandi d”Europa), in moltissimi hanno deciso di affiancarsi alle “leonesse” per
combatter insieme gli stessi sfruttatori, iniziando uno sciopero-battaglia
volto a bloccare l”interporto e che ha avuto pieno successo (
vedi il VIDEO)

La
battaglia incomincia giovedì 17 settembre: una lavoratrice e un lavoratore di
Mr. Job occupano il tetto della cooperativa chiedendo il reintegro delle
“licenziate politiche”.

Espongono
uno striscione che recita: “Sfruttati e molestati per anni poi
licenziati mentre il responsabile incriminato lavora tranquillo”
.

In
alto, da dietro lo striscione, il ventiquattrenne Hasan urla: “Noi rimarremo
qui finché non riavremo il nostro posto di lavoro, tanto stare quassù o laggiù
senza lavoro è lo stesso. Sciopero!”.

Via
via, ai due occupanti si uniscono tantissime altre lavoratrici e lavoratori
della zona e oltre, soprattutto della vicina azienda Geodies, domandando non
solo il reintegro delle licenziate politiche ma tutta una serie di
rivendicazioni anche per loro e i propri colleghi di cooperativa: applicazione
del CCNL, adeguamento dei livelli contrattuali, conteggio della tredicesima e
quattordicesima, fine dell”obbligo degli straordinari, timbrature giuste,
pagamenti corretti e regolari, riconoscimento del lavoro a chiamata, ecc…

Presto
arriva la polizia, cariche e scontri si susseguono ma i facchini mantengono la
posizione.

Niente
spettacolo, dunque: per fermare l”interporto al fine d”ottenere totalmente
quanto richiesto, infatti, le lavoratrici e i lavoratori coinvolti non hanno
convocato uno sciopero nazionale per muoversi altrove ad applaudire dei leader
sindacali e di partito bugiardi se non criminali, né hanno rilasciato dichiarazioni
e commenti a media compiacenti come unica forma di lotta, preferendo alla loro
azione nel mondo virtuale quella nel mondo reale.

Alla
Yook di Bologna, da quasi dieci giorni e notti, le “leonesse” e centinaia di
altre facchine e facchini stanno lottando assieme ai Sì-Cobas applicando una
strategia alternativa a quella dei perdenti scioperi-spettacolo: meno parole e
più fatti.

Bloccando
col loro corpo l”accesso e l”uscita dell”interporto, mettendoci faccia cuore e
spirito continueranno a dar battaglia, scioperando finché non otterranno quanto
richiesto.

Hanno
insomma gettato la paura, riappropriandosi con la lotta, insieme del loro
essere donne e uomini liberi.

Liberi
di decidere di non subire più sulla loro pelle gli effetti nefasti d”una crisi
creata altrove e da altri; liberi di scegliere di reagire al morire di
sfruttamento e disoccupazione, scioperando per vivere.

Come
racconta la sindacalista Khadija, anche lei licenziata a 22 anni e adesso
ancora sul tetto di Mr. Job: “Ci hanno licenziato perché abbiamo alzato la
testa e chiesto che ci venissero riconosciuti i nostri diritti, non abbiamo
fatto niente di male. Se solo due facchini possono occupare un tetto, allora
duecento facchini possono occupare l”interporto: sciopero!”.

Prima
dei Sì-Cobas, Khadija mai aveva scioperato in vita sua (vedi al minuto 36 di
questo documentario:
http://labournet.tv/): oggi è invece una sindacalista
carismatica, brillante e coraggiosa, che come le altre “leonesse” meriterebbe
d”esser protagonista d”una campagna mediatica nazionale come fu quella “Se non
ora quando”.

Le
Littizzetto, Dandini, Bonino, i Saviano, Fazio, Gramellini, le testimonial di
campagne globali, le madrine di mostre internazionali e le attrici cinematografiche
italiane non parlano né scrivono di Khadija, una donna che con altre donne e
uomini ha organizzato e conduce uno degli scioperi più incisivi della
storia  presente del nostro Paese.

Una
battaglia che gli scioperanti – in gran parte stranieri – stanno vincendo,
resistendo a cariche poliziesche e manovre istituzionali: ai nostri media
interessa diffondere terrore e disinformazione, anziché riportare al pubblico
italiano questa bella notizia.

  

Poco
importa: alle milioni di firme-fritte virtuali e alle
manifestazioni-passeggiata che “cambiano tutto per non cambiare niente”,
Khadija e le altre sindacaliste Sì-Cobas preferiscono le centinaia di corpi
(soprattutto femminili) in carne e ossa, che bloccano l”accesso all”interporto
di Bologna fermando una simile catena di sopraffazione e barbarie, opponendosi
a decine di dirigenti maschi e centinaia di poliziotti maschi, lottando non
soltanto per migliorare le proprie condizioni di lavoro ma per costruire un
futuro migliore per loro, per noi.

Lontane dalla virtualità mediatica,
Khadija e le altre “leonesse” danno battaglia nella realtà, sciopero dopo
sciopero: e intanto si fanno donne nuove, prospettandoci una società nuova.

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