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Giulietto Chiesa: succede nel Paese delle Meraviglie

Un processo kafkiano - a danno di Giulietto Chiesa - da parte di giornalisti che si rifiutano di verificare i fatti, una vicenda che rivela la miserevole condizione del sistema informativo in Italia.

Giulietto Chiesa: succede nel Paese delle Meraviglie
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25 Maggio 2019 - 22.22


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di Giulietto Chiesa.

È accaduto nel Paese delle Meraviglie che un giornalista professionista, con 49 anni di attività professionale in campo nazionale e internazionale, è stato sottoposto alla “sanzione della censura” (prevista dall’art. 54 della legge 69/63 “per avere violato l’articolo 2 della legge 3.2.63, n.69 – attenzione ai dettagli! – “compromettendo con la sua condotta la dignità professionale non avendo informato gli ascoltatori che le affermazioni contenute nel servizio giornalistico diffuso dall’emittente Pandora tv erano un’interpretazione e non quelle rese da Jeroen Dijsselbloem”.

Era il 20 marzo del 2019. Nel Paese delle Meraviglie un tempo esistette l’articolo 21 della Costituzione, che consentiva la libertà di parola e, quindi, di giudizio, di ogni cittadino. Ma, forse, quel giorno, qualcuno aveva abrogato temporaneamente la Costituzione. Il malcapitato, presentatosi volontariamente (sebbene avesse potuto evitarlo, ma la sua curiosità di vedere come sarebbe andata a finire lo spinse all’insano gesto) di fronte al Tribunale del Paese delle Meraviglie. Egli cercò non tanto di discolparsi, quanto di spiegare pazientemente ai membri dell’illustre tribunale, che la “colpa” della quale era accusato non esisteva, in quanto non esisteva il gesto che gl’inquirenti gli attribuivano.

Invitò dunque l’inflessibile Tribunale, composto da giornalisti, a esercitare esso, per conto proprio, le qualità deontologiche della professione, in nome delle quali essi agivano. Non senza avere loro inviato, per precauzione, la sua bio-bibliografia (non si sa mai, magari avessero sbagliato persona). Si trattava di esaminare in primo luogo i fatti. Ed essi erano inequivocabilmente chiari. L’organo di stampa di cui egli era direttore aveva duramente espresso il suo giudizio contro le dichiarazioni rilasciate a un organo dell’Impero da parte di un oscuro ex funzionario dello stesso. Non vi era e non poteva esservi alcun dubbio che non si trattava né di una intervista, né di parti di essa. Bastava riguardare con calma le stesse immagini di repertorio usate per accompagnare il commento. La voce dell’intervistato nemmeno compariva. Non vi erano sottotitoli di una qualsiasi traduzione letterale.

La sorgente dell’equivoco era che il blog ufficioso di una dei due partiti di governo in carica aveva ripreso il commento, attribuendo all’oscuro ex funzionario dell’Impero alcune parole del commento. Evidente e indubbia scorrettezza, la cui responsabilità era comunque interamente da attribuire al blog ufficioso di quel partito. Subito dopo, all’unisono si era alzata la canea delle accuse contro quel partito di governo da parte di tutti, senza eccezione, gli organi del mainstream del Paese delle Meraviglie che considerano quel governo, e quel partito in particolare, come il vaso di tutte le nequizie. Infatti, al momento in cui l’episodio in questione era avvenuto, da parecchi mesi era in corso una campagna di polemiche senza quartiere che, nel sacro nome della correttezza e imparzialità informativa, tutti le componenti del mainstream stavano conducendo all’unanimità contro il governo e contro quel partito.

Purtroppo accadde che tutto il mainstream, tutti i giornali e tutte le televisioni, scatenarono le loro ire in primo luogo contro la web tv e il suo direttore. Il quale non aveva “commesso il fatto”. Nessuno dei canali tv, nessuno dei giornali, una volta esaurito il compito di coprire d’improperi il partito di governo, si preoccupò di andare a verificare i fatti. La web tv che aveva fatto il suo normale mestiere, venne additata al grande pubblico come l’origine di una clamoroso e mostruoso “fake”. Cioè l’intero mainstream dimostrò una disinvolta violazione collettiva della deontologia professionale, mancando di andare a verificare i fatti (pare si chiamasse “fact-checking”).

Come conseguenza il malcapitato giornalista si trovò coperto di fango, senza potersi difendere da tutto il fiume di accuse che, a quel punto (appunto senza alcuna verifica) veniva diretto contro di lui. Chi poteva sottrarsi alla tentazione di approfittare dell’occasione? Di poter parlare male del partito di governo e, nel contempo, diffamare il giornalista scomodo che aveva scelto di fornire al pubblico “un’altra visione del mondo”? Ovviamente diversa e quasi sempre opposta a quella del mainstream. Che è ormai quella ufficiale, cui si deve obbligatoriamente fare riferimento nel Paese delle Meraviglie.

Tutto chiaro? Niente affatto. Il Tribunale del Paese delle meraviglie, dopo avere ascoltato con qualche impazienza la difesa dell’imputato, introdusse addirittura nel dispositivo della sentenza finale la stessa falsificazione che era stata usata nella campagna di stampa scatenata contro la sua web tv. Il testo della sentenza scrive precisamente che “…. mandare in onda il video originale di un’intervista corredato da un audio che riporta parole che non trovano corrispondenza con quelle pronunciate dall’intervistato, come si evince dal raffronto tra i due testi, non pare in linea con il dettato dell’art. 2 della legge istitutiva dell’Ordine”.

Il problema, per l’illustre Tribunale del Paese delle Meraviglie, consisteva nel fatto che la web tv non aveva affatto “mandato in onda” il video originale di quell’intervista. Si trattò di poche immagini, equivalenti a una citazione, come usano fare tutti i canali televisivi, tutti i giorni dell’anno. Dunque il Tribunale assume, come dato fondante per la sua sentenza, una palese falsificazione dei fatti. In secondo luogo, la frase “come si evince dal raffronto tra i due testi” è priva di significato, in quanto nel servizio non ci sono due testi da confrontare, bensì un solo e unico commento. Il dettato dell’art. 2 della legge istitutiva dell’Ordine non c’entra dunque per niente. Il contesto in cui il commento veniva presentato, l’intenzione palese, il contenuto dello stesso non potevano essere equivocati da chi ascoltava e vedeva il servizio. Basterebbe guardare un qualunque telegiornale, o un qualunque talk-show, per scoprire che questa pratica è banalmente universale. Dunque non c’era alcuna necessità di avvertire ulteriormente lo spettatore.

Va aggiunto che, nel corso della discussione – in seguito alla domanda dell’incolpato – è emerso che l’iniziativa che aveva portato all’apertura del procedimento disciplinare nei suoi confronti era partita da una “segnalazione”. Da parte di quale persona o ente non è stato detto. Nel dispositivo della sentenza è scritto che sono stati “acquisiti gli atti prodotti dal denunciante e le sue dichiarazioni”, ma anche in questo caso chi sia stato il “denunciante” non viene rivelato. 
L’incolpato, nel corso del procedimento disciplinare a suo carico, ha anche esibito i testi di due interviste da lui rilasciate al Corriere della Sera e a La Repubblica: entrambi capolavori, se così si può dire, di fake news, contenenti clamorose falsificazioni dei fatti, distorsioni plateali delle dichiarazioni dell’intervistato, allusioni a fatti estranei al procedimento in corso, illazioni tendenziose e infamanti a momenti precedenti della sua vita professionale. Tuttavia il Tribunale del paese delle Meraviglie ha trascurato di prendere in considerazione i documenti ricevuti, in quanto i giornalisti autori delle sopracitate vergogne professionali farebbero parte di sezioni territoriali diverse. In questo caso la “segnalazione” circostanziata dell'”imputato” non sembra sia servita per aprire altri procedimenti disciplinari nei loro confronti. A dimostrazione che non tutte le “segnalazioni” hanno lo stesso valore. Ad alcune si deve dare seguito, ad altre si può non dare seguito. I criteri distintivi sono rimasti misteriosi.

Qui si è raccontato dei fatti. Ma si potrebbe aggiungere qualche considerazione “al contorno”. Il Tribunale del Paese delle Meraviglie ha visto la pagliuzza (che, per altro, non c’era) e non ha visto l’immenso corteo di travi che gli passano sotto gli occhi tutti i giorni. 
I giornaloni e le grandi televisioni, pubbliche e private producono fake news a ritmo incessante. Grandi come palazzi, smentite dai fatti e mai riconosciute come tali dai loro creatori. Chi non ricorda la fialetta piena di polvere bianca che Colin Powell esibì di fronte al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per avviare il massacro dell’Irak? Tutti i media ce la diedero per buona. Chi ricorda quanti furono i propalatori del falso che vennero redarguiti da qualche Tribunale del Paese delle Meraviglie?

Infine ci sarebbe da chiedere al Tribunale del Paese delle Meraviglie come mai non sono state concesse le attenuanti al malcapitato giornalista, oltre a quella di avere “mantenuto una condotta collaborativa durante il provvedimento disciplinare a suo carico”. Quali attenuanti? Per esempio il “precedente” in cui era incorso l’allora presidente dell’Eurogruppo, il citato Dijsselbloem, quando, nel marzo del 2017 aveva detto ai giornali che “Il Sud spende soldi per alcool e donne”, suscitando lo scandalo, che spinse il capogruppo del PSE Pittella a definire quelle parole come “vergognose. Mi chiedo davvero se una persona con queste convinzioni possa ancora essere considerato adatto a ricoprire il suo ruolo (…) Non è la prima volta che Dijsselbloem esprime opinioni economiche e politiche che contraddicono la linea della famiglia progressista europea”. Dato il personaggio, il motivato giudizio espresso nel 2019 dalla incriminata web tv , derivava dal suo ben preciso background politico e ideale.

In conclusione si deve comunicare che il giornalista in questione rinunciò a fare ricorso presso il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti del Paese delle Meraviglie. La legge glielo avrebbe consentito. Ma egli giunse alla conclusione che era opportuno risparmiare tempo e fatica. Si ricordò che, qualche anno prima era stato arrestato in Estonia, e imprigionato, senza alcun mandato di cattura, sebbene solo per qualche ora, prima di essere espulso dal paese con accuse mai provate, anzi neppure esaminate da nessun tribunale. Si trattava di un giornalista professionista, ancora in esercizio seppure in pensione, cui era stato impedito con la forza di parlare in pubblico. E l’Ordine non aveva trovato il tempo né per esprimere la sua solidarietà, né per condannare l’operato di un paese europeo che violava le regole europee e impediva a un giornalista italiano di esercitare i suoi diritti in Europa. Si ricordò anche che, nel frattempo, Julian Assange veniva catturato, in violazione di tutte le leggi europee e internazionali, all’interno di un’ambasciata straniera. Ma l’Ordine del Giornalisti non aveva trovato né il tempo né il coraggio di emettere un qualsiasi giudizio in merito.

Basterebbero questi due esempi per scoraggiare ogni temerario. Che senso ha sottomettersi al giudizio di un secondo Tribunale del Paese delle Meraviglie che non ha ancora sottoposto a provvedimento disciplinare il vice-direttore del Corriere della Sera, tale Federico Fubini, il quale – cito Marco Travaglio sul Fatto del 7 maggio 2019 -” ha confessato alla tv vaticana” di essersi “autocensurato” perché la notizia non fosse “strumentalizzata”. Di quale notizia si trattava? Dell’aumento vertiginoso della mortalità infantile in Grecia (dal 2,7 al 4,2 per mille, pari a 700 bimbi morti in più all’anno). “Cioè Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale affamano la Grecia e ne raddoppiano la mortalità infantile e il giornalista che fa? (…..) Nasconde le notizie ai lettori per paura che aprano gli occhi”.

Ecco una trave gigantesca che è passata inosservata sotto gli occhi di quel Tribunale del Paese delle Meraviglie, al quale il malcapitato giornalista avrebbe dovuto sottomettersi in appello. Un Tribunale che “compromette” ogni giorno la dignità professionale dei giornalisti omettendo di perseguire chi la compromette ogni giorno, sebbene questo sia il suo compito primario. Semmai – pensò il malcapitato giornalista – c’è abbondante materiale per chiedere di sciogliere un Tribunale come quello, anzi l’Ordine nel suo complesso. Di più (pensò il malcapitato): ci sarebbe da chiedersi se non sia il caso di chiudere il Paese delle Meraviglie, tutto intero, e sostituirlo con un paese normale.

Legenda.1. Il malcapitato giornalista precipitato in mezzo a queste singolari avventure si chiama Giulietto Chiesa. Il Tribunale che lo ha giudicato in prima istanza era composto dai signori Renato Sirigu (presidente), Waldemaro Flick e Pierpatrizia Lava (segretario), tutti e tre componenti del Consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti della Liguria, quello a cui giunse la misteriosa “segnalazione”, alla quale non era possibile resistere. Il partito del Governo in carica il cui blog aveva commesso l’errore si chiamava Movimento 5 Stelle. L’organo di stampa, ovvero la web tv, si chiamava pandoratv.it.

Legenda. 2. Ci fu un seguito. Il malcapitato giornalista di cui sopra chiese all’Illustre Tribunale del paese delle meraviglie di poter accedere agli “atti”. Lo fece per pura curiosità, nell’intento di scoprire chi fosse stato colui che aveva inviato la cruciale “segnalazione”, esigendo la chiamata in giudizio. Poté quindi scoprire che si era trattato di una tale Marcello Zinola, che poteva fregiarsi (ahi loro!) del titolo di “responsabile della formazione dell’Ordine dei Giornalisti” e che si proclamava “parte offesa”. E che accludeva all’esposto link insultanti nei riguardi del malcapitato, interviste di giornali che erano, a loro volta, dei veri e propri “fake”, pieni non di dati ma di calunnie, divagazioni non pertinenti rispetto al tema, attribuzioni al malcapitato di contenuti distorti o palesemente falsificati. Inoltre, tra i materiali dell’accusa era contenuta, ad esempio, l'”intervista” – a firma di Fabrizio Roncone – pubblicata dal Corriere della Sera. La stessa intervista, tra l’altro, che il malcapitato aveva esibito ai giudici nel corso del processo, insieme a un’altra, pubblicata da Repubblica, come prova dei falsi conclamati perpetrati nei suoi confronti, che avrebbero richiesto, a loro volta, una chiamata a discolparsi dei loro autori. Dunque il malcapitato scopriva che, tra i capi d’accusa agli atti vi erano le prove che gli accusatori erano giornalisti (o dilettanti qualunque) che violavano la deontologia professionale in modi clamorosi. Il tribunale del Paese delle Meraviglie non solo non se n’era accorto, ma li aveva usati come prove testimoniali, dandoli per buoni. In quella intervista del Ronconi c’era, per esempio, una domanda-capolavoro di giornalismo cialtrone che vale la pena di riprodurre in questo racconto. Eccola, letteralmente: “Il tuo comunismo sovranista sarebbe intrecciato al putinismo leghista e al populismo dei 5 Stelle…” Domanda alla quale l’intervistato aveva risposto laconicamente: “Sciocchezze”. Ma intanto la domanda (che risultava nero su bianco e che i lettori avevano letto) era stata formulata in modo tale da affibbiare al malcapitato ben quattro etichette, ciascuna delle quali (nelle intenzioni evidenti) infamanti: comunismo, sovranismo, putinismo, populismo. Di queste perle erano intrisi i materiali dell’accusa agli atti. Come ad esempio uno dei testi pubblicato dal sito “Stop Fake”, che definiva Pandoratv.it come un “network russo”, e qualificava la sua produzione come “un ennesimo fake (…) prodotto a uso e consumo del Movimento 5 Stelle che, guarda caso, negli ultimi anni ha stretto sempre più importanti rapporti con il partito del presidente Putin”. “Ennesimo”? E gli altri quali sono? “A uso e consumo?”. Qui si accusava il malcapitato addirittura di avere agito su comando del Movimento 5 Stelle. Con quali prove? Vogliamo fare un “fact checking”? Inutile continuare nei dettagli di questi orrori deontologici. Chi mai potrebbe essere così stolto – concluse definitivamente il malcapitato – da sottoporsi a ulteriori indagini in un contesto come questo, dove gli accusatori sono molto simili a untori moderni?

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