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Mal di guerra

Così vengono addestrati i militari italiani destinati alle "missioni di pace". [Stefania Elena Carnemolla]

Mal di guerra
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26 Agosto 2013 - 19.22


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di Stefania Elena Carnemolla

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“Siamo in Afghanistan perché ci sono gli americani, quella non è la nostra guerra”. Il giovane sottufficiale dell’Esercito Italiano sbuffa nella piccola stanza con mobili anni chissà quando che gli fa da ufficetto. Sbuffa per il caldo, sbuffa pensando alla Casa Bianca: “L’Italia non conta, fa quel che vuole l’America. E d’accordo che ci hanno liberati loro, ma sono ormai quasi settant’anni”.

“Ma allora siete stanchi dell’Afghanistan?”. “Sì, ma che ci stiamo a fare laggiù?”. “Affari?”. Magro, magro, s’aggiusta la camicia verde militare, si tocca la cintura, s’infervora: “I capi, i grandi capi, noi andiamo laggiù, ci facciamo ammazzare e loro pensano agli affari”. I grandi capi sono i vertici militari e le alte cariche dello Stato, quelli della guerra prestigio dell’Italia.

Entra un po’ d’aria nell’ufficetto triste. “Fosse per me un bel bombardamento a tappeto e così ce ne torniamo a casa”. Soffre di mal di guerra, il giovane sottufficiale, uno dei tanti che scelgono la divisa per un ideale, per necessità, perché credono che il mondo possa cambiare facendo la guerra. Lo guarda, sconsolato, un giovane soldato che gli siede di fronte. Nemmeno lui crede alla madre di tutte le missioni. C’è da capirli, questi giovani italiani, carne da cannone degli strateghi di una guerra mascherata d’altro.

C’è da capirli. Non dev’essere bello sentirsi dire siete gli alleati di chi piscia sui morti, tagliuzza le dita dei cadaveri, squarta i loro corpi, entra di notte nei villaggi stuprando, uccidendo, massacrando. C’è da capirli, con i civili che cadono a grappoli nelle vendemmie di morte della Nato e del Pentagono. E fortuna che i grandi strateghi di questa guerra infinita dovevano “conquistare la mente e i cuori” secondo l’ipocrita dottrina del [i]soft power[/i] fatta ingurgitare agli attori della farsa afghana come una pasticca d’oppio.

Oppio, da quando in Afghanistan ci sono loro, i militari, non c’è stata così tanta produzione d’oppio, con gli americani e i britannici che per la gioia delle multinazionali farmaceutiche, grandi finanziatrici del potere che conta, in particolare a Washington, proteggono i raccolti e partecipano al traffico, con gli italiani su a Herat che s’erano illusi di diffondere tra gli afghani la cultura delle piante di zafferano mentre i loro alleati gozzovigliavano fra bulbi soporiferi.

Fosse solo l’oppio. Tempo fa il New York Times ha ricordato a Obama i tanti milioni di dollari con cui la Cia ha corrotto, in particolare sotto la sua presidenza, il presidente afghano Hamid Karzai e il suo clan di signori della guerra, giuristi, trafficanti d’oppio, talebani. Dopo le rivelazioni del quotidiano newyorkese, la Casa Bianca s’è chiusa a riccio, con Karzai, poco più in là, zitto e silenzioso sotto il suo mantello di panno. “Gli Stati Uniti sono in Afghanistan la più grande fonte di corruzione”, così un alto ufficiale americano.

E mentre Enrico Letta, l”uomo di Palazzo Chigi, s”aggira per l’Afghanistan con l’elmetto promettendo aiuti e sostegno militare a Karzai anche quando l’Italia si sarà ritirata, i militari italiani s’ammalano di mal di guerra. Lo confermano i militari fuori dalla porta dei reparti di psichiatria degli ospedali militari, lo confermano gli studi sul disagio psicologico dei militari impegnati nelle missioni all’estero vittime di patologie d’ansia e stress dovute a conflitti a fuoco, attentati, lontananza dalle famiglie, problemi di riadattamento al ritorno in patria.

Ricerche che hanno preso in considerazione militari impegnati in scenari di guerra asimmetrica, quella dove la parte “strutturalmente più debole” adotta “forme di lotta non convenzionali” per poter “competere con la parte più forte ed organizzata”. E che hanno dimostrato come il rischio di attacchi da parte dei “guerriglieri” mescolati alla popolazione civile, le imboscate, l’insidia degli ordigni esplosivi improvvisati, il lancio di razzi, i colpi di mortaio sugli accampamenti, il ferimento e la morte dei commilitoni, la “preoccupazione di assolvere il proprio compito” e la difficoltà di recupero del proprio “equilibrio mentale dopo un’azione di combattimento” costituiscano fattori scatenanti di stati d’ansia e stress.

E c’è chi l’equilibrio mentale sembra averlo perso ancor prima di partire. Come l’allievo del 9° Reggimento d’Assalto Paracadutisti Col Moschin che una notte di maggio nel bosco di Garetto, a Chianni, fra Pisa e Livorno, durante una simulazione di liberazione ostaggi ha esploso con la sua mitraglietta diversi colpi con munizioni vere, colpendo, trapassandogli l’addome, un istruttore, il primo maresciallo Simone Bagnoli, ch’era seduto dentro una jeep.

Trasportato in ospedale in condizioni gravissime, “mi mancava l’aria, non riuscivo a realizzare” racconterà dal suo letto d’ospedale a una giornalista del quotidiano livornese Il Tirreno “erano previsti spari, ma a salve. Mi sono reso conto di essere stato ferito. Ho chiesto aiuto al mio collega. All’inizio lui pensava che stessi scherzando. Non erano previste munizioni ordinarie. Luca mi ha chiuso la ferita con una busta di plastica e mi ha impacchettato prima di sistemarmi sulla nostra jeep con cui siamo andati incontro ai soccorsi che nel frattempo erano stati allertati”.

Agghiacciante la scoperta della verità dopo le indagini: “È stato un allievo” così il militare “che ha caricato il fucile con colpi ordinari. Mi è stato detto che avrebbe preso di sua iniziativa il caricatore al poligono la settimana prima dell’incidente. Lo ha inserito nel suo fucile e non si è reso conto di quel che faceva”. Tanto da sparare diversi colpi anche contro la jeep e tutt’intorno. Avrebbe potuto fare una carneficina.

Nella zona si svolgono spesso addestramenti di militari o, ancora, di militari con giornalisti destinati ad aree di guerra. Si spara con cecchini appostati dietro alberi, cespugli, sui tetti, dentro strutture abbandonate, si spara contro le jeep simulando sequestri e dentro vecchie casupole con gli ostaggi simulando la loro liberazione. E se uno di loro avesse sparato con proiettili veri durante le esercitazioni con giornalisti? Raccontano che una volta, durante un’esercitazione con militari, un giornalista è morto, ma nessuno vuol dire come. Storia misteriosa.

Non si scherza nei boschi di Chianni. Così come non si scherza nel bosco di San Piero a Grado, vicino Pisa, dove c’è il Centro Interforze Studi per Applicazioni Militari e dove il 1° Reggimento Carabinieri Paracadutisti Tuscania e il Gruppo Intervento Speciale dell’Arma dei Carabinieri si preparano alle missioni simulando attacchi ai convogli, sequestri, fermo ai check-point, operazioni di scorta. Sì, perché qua s’esercitano anche quelli che durante le missioni devono proteggere “dignitari” e “personalità” senza troppo chiedersi chi sono e se meritano. Tutto e ogni cosa al servizio della guerra, con uomini scudo consapevoli di lasciare la vita sul campo.

Chi lascia l’Italia per le missioni internazionali, lo fa con le immagini della guerra negli occhi e la mente infettata dal virus del conflitto. Così vengono addestrati i militari italiani destinati a quelle che il governo e le lobby politiche e militari chiamano missioni di pace.

“I capi, i grandi capi, noi andiamo laggiù, ci facciamo ammazzare e loro pensano agli affari”.

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