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Siria, la strampalata guerra di Obama

«Ci sono strade che portano a Teheran, passando attraverso la porta siriana, quella che Obama avrebbe voluto sfondare per arrivare altrove con l’arma dell’inganno.» [Stefania Elena Carnemolla]

Siria, la strampalata guerra di Obama
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31 Agosto 2013 - 09.42


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di Stefania Elena Carnemolla

Il primo birillo è caduto e ha il volto livido del premier britannico David Cameron sconfitto sulla Siria dal Parlamento inglese che ancora non ha dimenticato l’inganno sull’Iraq. Nonostante le minacce di una guerra contro Damasco, il dispiegamento di forze aereonavali nel Mediterraneo, gli annunci di un imminente attacco, le armi chimiche di Bashar al Assad non si trovano, ma, come da tradizione, si possono sempre inventare.

Come quando il 16 marzo 2003 a Praia da Vitória, nelle Azzorre, il presidente americano George W. Bush, il premier spagnolo José María Aznar e quello britannico Tony Blair si riunirono, ospiti del primo ministro portoghese José Manuel Durão Barroso, dal 2004 presidente della Commissione Europea, per dare il via libera all’invasione dell’Iraq, perché per Bush era arrivato il momento della verità per il mondo. E qual era questa verità? Che il “dittatore iracheno” e le sue “armi di distruzione di massa” erano una “minaccia per la sicurezza delle nazioni libere”.

Le armi non c’erano, ma Aznar invitò “tutti i nostri amici e i nostri alleati a lavorare insieme a noi per l’impegno nei confronti della democrazia, della libertà e della pace”, con Blair che minacciava che per Saddam ci sarebbero state “conseguenze serie”. Ma c’era il petrolio, in Iraq, perché non apparecchiare pertanto una bella guerra? Sappiamo com’è andata a finire, Saddam è stato impiccato, mentre l’Iraq è un bordello a cielo aperto.

Il conservatore Cameron, sconfitto dai suoi stessi compagni di cordata, conservatori riluttanti a far svolazzare le ali della Royal Air Force sulla Siria, non ricorrerà, così dice lui, alle sue prerogative, con cui avrebbe potuto ordinare l’attacco nonostante il voto contrario del Parlamento. Era dalla crisi di Suez del 1956 che nel grande palazzo sul Tamigi non ci si divideva così. Un primo ministro azzoppato che ora si lecca le ferite chiedendo all’amico americano di capire.

Dopo il no di Londra, è arrivato anche quello della Nato, un altro pugno nello stomaco di Obama, abbandonato da tutti con le sue navi nel bel mezzo del Mediterraneo. Dall’Eliseo lo consola François Hollande, il [b]Sarkozy de gauche[/b].

Altro che guerre dei Bush. C’era Leon Panetta, l’allora segretario della Difesa di Obama, a voler rovesciare Bashar al Assad con un piano architettato con il segretario di Stato Hillary Clinton e il direttore della Cia David H. Petraeus, il generale delle guerre della Casa Bianca poi scivolato miseramente su una buccia di banana per una storia di amanti.

Come attaccare la Siria? Secondo il solito copione, accusare, così un rapporto americano, Bashar al Assad degli attacchi chimici fatti da altri e diffondere la notizia di immagini scattate da satelliti spia americani a depositi di armi chimiche con a guardia truppe d’élite alawite fedeli al presidente siriano. La trama che oggi è sotto gli occhi di tutti è vecchia.

Non ci sarà la Gran Bretagna ad attaccare la Siria e non ci sarà la Nato con il suo segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, che ora batte in ritirata, lui che, dopo gli squilli di tromba, ora non vede più un “ruolo della Nato” nella cornice di una “risposta internazionale al regime siriano”. Né ci sarà la Germania, con Guido Westerwelle, ministro degli Esteri di Angela Merkel, che ha messo i paletti ricordando che la Costituzione tedesca impedisce di prendere parte a cuor leggero alle missioni internazionali, figurarsi ora con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che non ne vuol sapere di dare il disco verde. E poi nessuno aveva invitato la Germania.

“Si comincia sempre così” gli fa eco Emma Bonino, ministro degli Esteri del governo italiano “con gli attacchi mirati, senza mandato dell’Onu” con la Siria che “ovviamente reagirà”. Nel frattempo il 4 settembre l’Italia siederà con l’opposizione siriana al tavolo degli Amici della Siria. Il governo di Roma è in fondo della partita. Lo era con Mario Monti a Palazzo Chigi e lo è oggi con Enrico Letta, che per bocca del suo ministro alla Difesa, Mario Mauro, sente tuttavia il bisogno di ricordare che la posizione del governo italiano è quella “tradizionale di amicizia con i nostri alleati e soprattutto americani”, anche se l’Italia non prenderà parte all’attacco militare. Ma quando si tratta di armarsi, partire e attaccare paesi sovrani le vie del Signore sono infinite. Con Obama rimasto con il cerino in mano, chissà che le pressioni su Roma non facciano cambiare idea agli “amici italiani”. Non sarebbe la prima volta.

Nonostante le bugie impastate fra Pentagono, Cia e Casa Bianca, Obama, così come Blair ai tempi contro Saddam, tuona ripetendo che Bashar al Assad sarà punito, mentre il suo segretario di Stato, John Forbes Kerry, che nel 2003 da senatore firmò la risoluzione per l’invasione dell’Iraq, salta come una cavalletta da una parte all’altra coordinando il passaggio di armi e dollari ai ribelli siriani.

Il 20 e il 21 aprile Kerry era a Istanbul, all’Adil Sultan Palace, antica residenza sul Bosforo, oggi hotel, per chiedere a un po’ di paesi amici dei ribelli siriani, Italia, Giordania, Germania, Francia, Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, di dissanguarsi per la causa siriana, pregando di voler sostenere con finanziamenti a pioggia il Consiglio Nazionale Siriano e il generale Mustafa Ahmad al Shaykh, un disertore dell’esercito regolare siriano a capo del Consiglio Supremo Militare dei ribelli.

La Casa Bianca metterà sul piatto centoventitré milioni di dollari, così Kerry a Istanbul, mezzi blindati, giubbotti antiproiettili, occhiali per la visione notturna, anche se “non escludiamo di passare a ben altro”. Per l’Italia c’era il vice ministro Marta Dassù con un pacchetto di venti milioni di euro per la ricostruzione, fino a quando all’Adil Sultan Palace non è arrivata la notizia che Jabhat al Nusra, punta di lancia della rivolta siriana, era della galassia di al Qaeda. Il gelo. “È vero”, così l’opposizione siriana, mentre noncurante chiedeva agli ospiti armi, dollari, bombardamenti con droni e una no fly zone.

Tutti aiutano i ribelli. Tutti li amano. Tutti li foraggiano. Tutti li nutrono. Dalla Giordania sono transitati verso la Siria miliziani, armi da fuoco, lanciabombe, mortai leggeri, con i servizi segreti giordani che si sono occupati del loro addestramento. Che poi è quello che fanno i servizi segreti britannici, francesi e, in particolare la Cia, che fornisce ai ribelli anche informazioni. Agenti Cia sono anche in Turchia, dove transitano, provenienti dal Qatar, dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti, le armi destinate ai primi.

I ribelli siriani, molti dei quali non sono siriani ma mercenari provenienti da fuori la Siria, sono la mano armata dell’Occidente, delle petromonarchie del Golfo e, grazie a Jabhat al Nusra, di al Qaeda, per la gioia del medico egiziano Ayman al Zawahiri, il muezzin dei messaggi video e audio che sogna un grande califfato islamico con la Shari’a come forma di governo.

Gli Amici della Siria sono quelli che s’incontrano fuori dall’Onu per parlare del futuro della Siria per il bene dei siriani ma il cui obiettivo è in realtà quello di dare il colpo di grazia a Damasco. E, soprattutto, silenzio assoluto sui crimini dei ribelli, un ordine accolto con favore da gran parte della stampa occidentale, nonché da al Jazeera e al Arabiya, le due emittenti televisive del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti, che hanno tutto l’interesse a spodestare Bashar al Assad. In particolare il Qatar, grande alleato della Nato, dell’islamismo radicale e da tempo in affari con l’Italia nel settore del gas e degli armamenti.

Gli Amici della Siria sono un’idea dell’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, regista con Cameron dell’attacco alla Libia per poterne spolpare risorse e ricchezze. E non è un caso che sia Londra che Parigi, dove oggi c’è il socialista François Hollande, siano da sempre favorevoli ad armare fino ai denti i ribelli. Dalla Libia alla Siria, fiutando il business, armando la manovalanza locale.

E ora che a Londra Cameron è caduto sotto i colpi del Parlamento, che la Nato fugge, che la Germania fa spallucce, che l’Italia barcolla un piede qua un altro là, la Casa Bianca ammette che i ribelli siriani, una volta conquistata la Siria per loro, non avrebbero fatto gli interessi degli Stati Uniti. Una farsa che ora dopo ora assume i contorni della tragicommedia sul cui palco è salito, a spettacolo consumato, il Simon Wiesenthal Center, tempio dell’ebraismo, delle lezioni sull’Olocausto, della caccia ai criminali nazisti, e che preoccupato per le minacce di Teheran contro Israele qualora la Siria fosse attaccata da Obama e alleati, chiede alla Casa Bianca di dichiarare l’attacco a Israele un attacco agli Stati Uniti. Un appello che ha suscitato ilarità tra le fila dell’ebraismo americano, “ma Obama non ama gli ebrei”, ha sorriso amaramente qualcuno.

A quelli del Simon Wiesenthal Center non pare vero di aver trovato un altro Hitler. Un Hitler a Teheran, uno a Damasco, tanto da chiedere il 22 agosto a Obama, dopo aver visto, dando la cosa per certa, i “milletrecento siriani gasati da Bashar al Assad, ricordo degli ebrei gasati da Hitler”, di distruggere i depositi chimici di Damasco. Un appello alla Casa Bianca e alla Nato con il coinvolgimento, se possibile, della Russia, nonostante la Russia non creda a una sola delle bugie di Obama.

Ci sono strade che portano a Teheran, passando attraverso la porta siriana, quella che Obama avrebbe voluto sfondare per arrivare altrove con l’arma dell’inganno.

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