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'Nel pantano dell''ISIS - La Cooperazione finanzia l'opposizione siriana'

'Un amore sbocciato con Monti. Le prove dei rapporti dell''opposizione siriana con Isis e al Nusra attraverso l''interfaccia ambigua dell''Esercito Libero Siriano'

'Nel pantano dell''ISIS - La Cooperazione finanzia l'opposizione siriana'
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21 Gennaio 2015 - 06.40


ATF

di
Stefania Elena Carnemolla
.


Non solo mondo radical chic e dame di carità, anche la Farnesina attraverso la Cooperazione Italiana
ama l’opposizione siriana. Un amore pronto a tramutarsi in denaro con un milione e duecentocinquantamila euro sulla rampa di lancio. Ufficialmente
per opere caritatevoli. “Sono in via di approvazione” – così la Cooperazione
Italiana – “due iniziative di assistenza diretta finanziaria
e in ‘kind’
a
favore dell’Assistance Coordination Unit (Acu) della Syrian Opposition
Coalition (Soc), per 1,25 milioni di euro: un Programma per la ricostruzione e
la riabilitazione dei servizi essenziali in Siria, volto a migliorare l’accesso
ai servizi di base per le fasce della popolazione più vulnerabile, nelle
regioni settentrionali e nei dintorni di Damasco ed un’iniziativa di assistenza
finanziaria all’Acu per la creazione di un sistema di early warning (Ewarn) per la prevenzione e il controllo delle
epidemie”.

Per
la Siria il
cordone della borsa è sempre stato allentato con piacere
.
Un “contributo volontario” di un milione e mezzo di euro è stato, ad esempio, assegnato,
sempre dalla Cooperazione Italiana, all’Organizzazione Internazionale per le
Migrazioni. Seicentomila euro sono invece andati a “interventi di assistenza
tecnica” a “favore dei rifugiati in diversi settori” come “servizi di base e
formazione professionale”. Un milione e duecentomila euro sono stati sborsati
per “attività” attraverso “strumenti bilaterali già esistenti in Libano”,
quindi due milioni e quattrocentomila euro per interventi sotto il rassicurante
ombrello delle agenzie Onu Unicef, Unhcr e Undp.

La
Syrian Opposition
Coalition, che è poi la
Syrian Coalition of Syrian Revolution and Opposition Forces,
raccoglie di tutto e il contrario di tutto. Una rappresentanza si trova negli Stati Uniti,
dove
i rapporti con il Pentagono e la
Casa Bianca sono abbastanza stretti
. Il 13 gennaio, ad
esempio, su uno dei suoi profili social – quello dove il presidente siriano Bashar
al-Assad è raffigurato in un tondino con i baffetti alla Hitler, uno scivolone
per chi, come l’opposizione siriana, trama con i terroristi islamisti – veniva
riportata con enfasi la dichiarazione del generale americano Martin Dempsey,
fra i più accesi sostenitori dell’Esercito Siriano Libero, sulla capacità
militare americana di sferrare un colpo a Bashar al-Assad, questo mentre
continuano a emergere ritratti del senatore repubblicano
John
McCain
fra combattenti estremisti.

L’Esercito
Siriano Libero, braccio militare dell’opposizione siriana, quelli che tutti
amano dire “moderata”, ha in realtà e non da oggi
rapporti
con l’ISIS oltre che con Jabhat al-Nusra, della galassia di al-Qa’ida
. Lo conferma, ad
esempio, un video del giugno 2013, dove si vede un uomo con la kefiah, tale al-Qusayr,
portavoce dell’Esercito Siriano Libero, mentre parla con estremisti dell’ISIS
davanti al cadavere di un militare.


La Syrian
Opposition Coalition
, che dal 2012
ha il sostegno dell’Esercito Siriano Libero, tanto caro
a Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, è quella che il 2 gennaio, dopo la
diffusione del video delle due italiane rapite in Siria, ne ha preso le difese,
chiedendone il rilascio. Più che un appello, un
ordine
rivolto a frange borderline dell’opposizione siriana con cui ha grande
familiarità e con cui fondamentalmente, al di là di ogni distinguo, condivide
speranze e obiettivi.

Un occhio di
riguardo per le “amiche” dell’opposizione siriana e per l’Italia che dai tempi
della destabilizzazione della Siria s’è seduta al banchetto, accarezzando i
benefici di una sua spartizione. Erano i tempi in cui la
Casa Bianca sognava di rovesciare Bashar al-Assad
con l’arrivo a Damasco di un uomo fedele a Washington che tutelasse gli
“interessi occidentali”. Una doccia fredda per i ribelli siriani che speravano
nell’aiuto occidentale per impadronirsi della Siria. 

La Siria faceva gola a
tutti. 

Petrolio, gas
naturale,
shale oil, prima del conflitto era uno dei più importanti produttori
d’energia del Levante.
La Siria, che in questo settore aveva forti legami
con l’Iraq, l’Iran, la Russia,
il Venezuela, la Cina,
l’India, la Dutch Shell,
la Total, la Gulfsands Petroleum,
la Sinopec e
altre compagnie, non piaceva alla Casa Bianca, non piaceva alle petromonarchie
del Golfo, non piaceva all’Unione Europa. Prima della crisi, le sue
esportazioni di greggio andavano a gonfie vele, erano state avviate attività di
esplorazione, erano stati stretti accordi con Iran e Iraq per la costruzione di
gasdotti e oleodotti – come il gasdotto con origine nell’Azerbaigian, nel
Caucaso meridionale – o ancora per l’ampliamento della Arab Gas Pipeline – che dall’Egitto
porta gas in Siria e in Giordana – per il trasporto del gas verso il Libano, la Turchia, l’Europa, ciò che
avrebbe fatto della Siria il più importante corridoio energetico della regione.

Poi, per Damasco,
tutto è cambiato, perché qualcuno ha voluto così,
usando i ribelli come testa d’ariete. Le sanzioni volute dalla Casa Bianca,
dall’Unione Europea e da altri, hanno, infatti, indebolito la bilancia
dell’export energetico, con i ribelli che intanto danneggiavano infrastrutture
come reti ferroviarie, oleodotti, raffinerie. Con il conflitto si sono fermate
le attività di produzione ed esplorazione e anche i progetti per la costruzione
di oleodotti e gasdotti sono stati accantonati.

Una trama per nulla sorprendente:
destabilizzare un paese sovrano foraggiando le frange più estremiste e impiantando
governi fantoccio. Il 20 e il 21 aprile 2013, ad esempio, i ministri degli
Esteri di undici degli ottantotto paesi degli Amici della Siria – Italia,
Giordania, Germania, Francia, Egitto, Turchia, Stati Uniti, Emirati Arabi
Uniti, Regno Unito, Arabia Saudita, Qatar – si riunirono a Istanbul all’Adil
Sultan Palace, antica residenza turca sul Bosforo, oggi hotel, per dire che bisognava
fornire armamenti e
aiuti ai ribelli siriani
. In Italia era l’epoca del governo Monti. 

Il ministro degli
Esteri,
Giulio Terzi di Sant’Agata s’era dimesso il
26 marzo in contrasto con il governo sull’affare dei due fucilieri di Marina Salvatore
Girone e Massimiliano Latorre rispediti in tutta fretta in India per non
turbare gli interessi economici dell’Italia in quel paese, anche se da ministro
non si era negato ai leader dell’opposizione siriana con tanto di incontri
ufficiali. A Istanbul in rappresentanza del governo italiano andò il vice
ministro
Marta Dassù, che per
l’occasione promise, dopo le prime briciole in aiuti umanitari, venti milioni
di euro, in particolare per la ricostruzione.
Gli americani,
con il segretario di Stato John Forbes
Kerry
, promisero invece centoventitre milioni di dollari, mezzi blindati,
giubbotti antiproiettili, occhiali per la visione notturna, anche se già allora
la Casa Bianca
non escluse di passare a ben altro.

Simbolo della politica fallimentare di
Obama, a Istanbul Kerry chiese a tutti i partner di sostenere con finanziamenti
a pioggia non solo il Consiglio Nazionale Siriano, ma anche il generale Mustafa Ahmad al-Shaykh, un disertore
dell’esercito regolare siriano ai tempi capo del Consiglio Supremo militare dei
ribelli. Questo quando in un’intervista al New
York Times
il presidente russo Vladimir
Putin
aveva già dichiarato come i ribelli siriani avessero già ricevuto,
attraverso gli aeroporti confinanti con la Siria, ben tre tonnellate e mezzo di armi e
munizioni. Dalla Giordania, ad
esempio, erano transitati verso la
Siria miliziani, armi da fuoco, lanciabombe, mortai leggeri,
mentre i servizi segreti giordani s’erano occupati dell’addestramento dei
ribelli. Che poi è quello che facevano da tempo i servizi segreti britannici,
francesi, nonché la CIA.  Questa Agenzia,
oltre all’addestramento, aveva fornito agli altri servizi importanti
informazioni, con agenti CIA anche in Turchia, paese Nato, dove erano
transitate, provenienti dal Qatar, dall’Arabia Saudita, nonché dagli Emirati
Arabi Uniti le armi a loro destinate.
Solo il primo ministro israeliano
Benjamin Netanyahu avrebbe messo in guardia la comunità internazionale,
chiedendo di non inviare più armi, visto che i ribelli già disponevano di armi
anti-aeree, armi chimiche e altro ancora, tanto da costringere Israele a bloccare
il transito attraverso il proprio territorio di armamenti destinati ai ribelli ma
che un giorno avrebbero potuto costituire una minaccia terroristica per il
paese.

Quando a Istanbul arrivò la notizia della
presenza degli jihadisti all’interno dell’opposizione siriana, l’allora il
ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle chiese all’opposizione siriana,
presente all’incontro con i suoi massimi esponenti, di voler prendere le
distanze dal terrorismo. “Non vorrei che le armi possano finire nelle mani
sbagliate”, così il ministro di Angela Merkel. “È vero, c’è al Qa’ida” ammisero i
papaveri dell’opposizione siriana “però vi promettiamo che le armi non andranno
a loro e che non ci saranno vendette, però intanto voi ci date le armi,
bombardate con i droni le batterie di missili di Damasco, create una no fly zone e un corridoio per gli aiuti
umanitari”.

La
Casa Bianca
, che sapeva da tempo della presenza
di estremisti e di cui s’era già servita in chiave anti Assad, a Istanbul fu
costretta, con il suo segretario di Stato, a rifugiarsi in un imbarazzante
“forniremo aiuti solo ai ribelli moderati, cercando di limitare l’influenza degli
jihadisti”. Promesse smentite dall’oggi. Nonostante le missioni aree sulla
Siria di Pentagono e alleati, è ora l’ISIS che giorno dopo giorno ha preso
sempre più piede.

Una strategia fallimentare? O una strategia
voluta?

La prova di quanto sta avvenendo è in due
cartine, rispettivamente del 31 agosto 2014 e del 10 gennaio 2015, della
Coalition for a Democratic Syria, definita nell’ambiente come “Syrian American
opposition umbrella”. 

Già due mesi dopo l’inizio delle missioni aree sulla
Siria, i civili siriani che prima vivevano nelle aree controllate dai
cosiddetti ribelli moderati, vivono ora in zone controllate da gruppi di Jabhat
al-Nusra e dall’ISIS, ciò di cui le cancellerie occidentali sono consapevoli e
non da oggi. 

Mouaz Mustafa, “political advisor” della
Cds, cita in questo senso le sue “conversazioni con diplomatici europei che
sostengono l’opposizione siriana”. Nel frattempo quasi tremila combattenti di
alcune brigate dell’esercito Siriano Libero hanno giurato fedeltà (ba’yah), fra le montagne del
Qalamun, al confine con il Libano, nel governatorato di Rif Dimashq, ora attratti
dai successi dell’ISIS in particolare nell’est e nel nord della Siria, all’autoproclamatosi
califfo dello Stato Islamico di Iraq e al-Sham o ISIS, Sheik Ibrahim Abu Bakr al-Baghdadi

Chi sono
questi combattenti e che per tutto questo tempo hanno goduto del supporto
finanziario e logistico di Turchia, governi occidentali, petromonarchie del
Golfo?
Sono le brigate Liwaa al Farouq con circa trecento combattenti, Liwaa al-Qusayr
con circa seicento combattenti, Liwaa al Turkomen con circa quattrocento
combattenti, Liwaa al-Haqq con circa quattrocento combattenti, Kataeb al-Mouqna
con circa duecento combattenti, Liwaa Matfareeq con circa cinquecento
combattenti, Suqour al-Faith con circa duecento combattenti, Liwaa 77 con circa
quattrocento combattenti. Non solo, dopo un periodo di ostilità, si registra ora
un riavvicinamento tra Jabhat al-Nusra e l’ISIS. I due gruppi sono stati visti insieme
fra il Libano orientale e la
Siria occidentale e combattere ad ‘Assal al-Ward e Rankous
contro i lealisti, i fedeli, cioè, di Bashar al-Assad, lo stesso che Casa
Bianca e alleati vorrebbero ancora deporre, venendo in soccorso
dell’opposizione siriana, le cui maglie si sono ormai allargate a dismisura con
fuoriuscita di elementi addestrati e armati dall’esterno.

Chi
sono i ribelli siriani
tanto cari all’Italia e alleati e a
un certo mondo della cooperazione, ufficiale o di copertura che sia? Scrivevamo
in una nostra nota dell’aprile 2013: «Il loro leader si chiama Ahmad Moaz al-Khatib ed è un
predicatore musulmano.
Molti sono civili, anche se fra di loro
ci sono ex militari, veterani dell’Iraq e dell’Afghanistan. Quasi tutti sono
sunniti. Ma non ci sono loro.

A Istanbul, durante l’incontro sul Bosforo, è arrivata la
notizia: Jabhat al-Nusra, punta di diamante della rivolta siriana, fa parte di
al-Qa’ida.
Sono quelli che tempo fa hanno bloccato in Siria
quattro giornalisti Rai». Jabhat al-Nusra è, infatti – ricorda il giornalista
Gian Micalessin – «una delle più fanatiche formazioni d’ispirazione jihadista
attive sul fronte siriano. Una formazione che Washington, pur impegnata nel
sostenere le forze anti Assad, inserisce nell’elenco dei gruppi terroristi. Una
formazione che si batte per la trasformazione della Siria in un Califfato e
conta tra le proprie fila i veterani del gruppo di Zarqawi, la cellula qaidista
irachena famosa per la decapitazione di ostaggi occidentali. Ma questi
particolari evidentemente appaiono irrilevanti. Dopo aver perso di vista l’involuzione fondamentalista della
rivoluzione tunisina, egiziana e libica una parte della stampa preferisce
chiudere gli occhi anche sulla radicalizzazione della rivolta anti Assad
».

«Ci sono anche i terroristi dei Balcani» continuavamo nella
nostra nota. «
Secondo Koha Ditore, un quotidiano di Pristina,
in Siria sono infatti arrivati dall’Albania, dal Kosovo, dalla valle di
Preshevo (enclave albanese a sud della Serbia), diversi militanti dei movimenti
estremisti fondamentalisti. La
Casa Bianca deve, comunque, vivere un momento di grande
confusione. Secondo ambienti conservatori americani, la Casa Bianca, che pure
promette armi e dollari, non si fida come un tempo dei ribelli, di cui ora non
sembra più voler la vittoria, ciò che porterebbe a un rovesciamento delle
istituzioni e quindi al caos totale.
‘Vogliamo la caduta di
Assad, è vero’
– così un funzionario americano al Wall Street Journal
‘non delle istituzioni’. La paura è che i ribelli conquistino la Siria, non certo per farne dono
a Obama e ai suo alleati o, peggio ancora, che al potere possano andare ribelli
poco ubbidienti se non integralisti. Non solo. In un
messaggio audio
il capo di al-Qa’ida, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri,
ha esortato i ribelli siriani a combattere per la creazione di uno ‘stato
islamico jihadista’, primo passo verso la creazione di un ‘grande califfato
islamico’, dove imporre in nome di Allah la Shari’a come forma di governo. L’audio messaggio
è stato diffuso, non a caso, da al Jazeera, la tv satellitare del Qatar, dove
gli integralisti islamici sono di casa».  

La Siria è diventato così l’ennesimo pantano,
un pantano dove l’Italia si muove seguendo i suoi storici alleati e assecondando
i sogni di gloria di improbabili personaggi con finanziamenti sia sotto forma
di riscatti che di aiuti che rischiano di prendere altre vie e per ben altri
scopi.  

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