di Pino Cabras.
Sì, è vero, si stanno uniformando in blocco. Li vediamo in serie, i tanti intellettuali, politici e giornalisti che pur sapendo benissimo che la classe politica israeliana stava compiendo una strage con mezzi e intenti dichiaratamente genocidi, tacevano nondimeno vigliaccamente: per conformismo, obbedienza, squallido opportunismo, per convenienza bottegaia e per feroce esercizio del potere. Scoprono e mostrano ora le immagini che noi mostravamo con anni di anticipo, perché per loro sono cambiate le convenienze. Niente di nuovo sotto il sole: tanti diventarono ferventi antifascisti appena a ridosso del 25 aprile 1945, perché ormai conveniva così e questo bastava loro a ricostruire una verginità.
Eppure, sopravvivono ancora gli irriducibili, come quelli che scrivono nel quotidiano «Il Riformista», diretto da Claudio Velardi, uno dei tanti ex bracci destri della Dea Kalì-D’Alema. Qui troverete ancora un’inossidabile fedeltà al verbo più estremo del Sionismo Reale. Siccome questo giornale vende pochissimo in edicola e serve soprattutto a fare “rumore di fondo” nelle rassegne stampa, non se lo fila quasi nessuno di pezza, ma questo fa sfuggire alcuni capolavori, come l’intervista di Aldo Torchiaro all’ambasciatore di Israele in Italia, Jonathan Peled, pubblicata il 25 maggio, rimasta ingiustamente inosservata. Tralascio tutte le altre domande, rivolte all’ambasciatore da posizione supina, per concentrarci insieme sulla domanda a più alta densità di bava. Sentite cosa chiede Torchiaro a Peled:
- «Parlando di terrorismo internazionale, le reti di Hamas e Hezbollah hanno legami con la criminalità organizzata anche in Italia. La campagna per la simpatia verso Gaza potrebbe essere influenzata dalla mafia?»
Capite? Se state scendendo in piazza, se scrivete, se manifestate in mille modi il vostro pensiero sul genocidio in atto, non siete mossi dal vostro cuore o dalla vostra razionalità politica, ma da Cosa Nostra.
La domanda di Torchiaro insinua che chiunque partecipi a una campagna di solidarietà verso Gaza — una posizione che ha ormai coinvolto milioni di cittadini nel mondo, intellettuali di ogni corrente, premi Nobel per la pace, organismi delle Nazioni Unite, tantissimi ebrei antisionisti — potrebbe essere manovrato dalla mafia italiana. È una logica da inquisizione: non conta più ciò che si dice, ma chi ‘potrebbe’ starci dietro, anche senza uno straccio di prova. Non è giornalismo: è calunnia preventiva travestita da domanda.
Con un colpo solo si cerca di infangare il dissenso e di sterilizzare ogni critica all’operato di Israele. Se protesti, sei un utile idiota della criminalità organizzata. È una strategia comoda: non rispondi nel merito delle accuse (pulizia etnica, bombardamenti su civili, distruzione sistematica di ospedali), ma sposti il discorso su un piano torbido, insinuante, in cui il dissenso è sempre sospetto. In pratica: la mafia come alibi per continuare a bombardare.
Non c’è alcun nesso concreto dimostrato tra il sostegno popolare alla causa palestinese e le organizzazioni mafiose. Se Torchiaro avesse avuto uno straccio di indizio, avrebbe scritto un’inchiesta. Invece fa una domanda “a effetto”, appesa al vuoto, con il solo obiettivo di suggerire un legame impresentabile. È un’operazione di puro terrorismo semantico: “Non ho prove, ma intanto insinuiamo”.
Accusare il nemico di essere amico del crimine è un topos narrativo da tempo di guerra. Lo faceva Bush con l’“Asse del Male”, lo ha fatto Netanyahu mille volte per screditare ogni forma di resistenza palestinese, lo fa oggi l’informazione embedded che non riesce più a reggere la realtà delle immagini da Gaza. La logica è: se sei amico dei palestinesi, sei amico dei terroristi, e magari anche dei mafiosi. È un’accusa a tenaglia, perfetta per zittire.
Se proprio volessimo parlare di “influenze criminali”, si potrebbe discutere della fitta rete di traffici illeciti che passano per Israele, del coinvolgimento storicamente accertato del Mossad in operazioni clandestine, del ruolo di Tel Aviv in traffici di armi e spyware usati da regimi repressivi. Ma guai a ricordarlo: in quel caso, la domanda sarebbe considerata “antisemita”.
Torchiaro non fa una domanda per conoscere, ma per dimostrare all’intervistato di stare dalla stessa parte, come se volesse dire: “Guarda come sono allineato, guarda come so usare le parole giuste”. In questo, non è tanto un giornalista quanto un chierico zelante, in cerca di approvazione presso il potere. L’informazione si fa genuflessa. Per la cronaca, la domanda era talmente servile e imbarazzante, che persino l’intervistato ha lasciato cadere la cosa cavandosela con una supercazzola.
Ma non preoccupatevi, se domani vi troverete altri Torchiaro pronti a equiparare le proteste per Gaza alla mafia, non sarà solo colpa del servilismo individuale. Sarà colpa anche di un sistema che si sta istituzionalizzando: una macchina sempre più sofisticata per addestrare l’informazione, a colpi di milioni di euro, centri di “resilienza democratica” e task force contro la cosiddetta “disinformazione”. Una volta riassorbite le proteste su Gaza, sono pronti a ripartire.
La conferma arriva dall’Assemblea parlamentare della NATO, riunitasi in Ohio nei giorni scorsi, dove la delegazione italiana — quella dei moderati responsabili, dei centristi europeisti, dei pacificatori a tempo determinato, dei sovranisti di cartone — ha ottenuto l’inserimento ufficiale di una proposta: istituire un Centro per la Resilienza Democratica a Bruxelles, il cui scopo sarà “contrastare la manipolazione informativa” e impedire che la NATO venga dipinta come organizzazione “aggressiva”. Capite? Non si tratta più solo di vincere le guerre: si vuole anche vincere il racconto delle guerre, cancellando a monte ogni possibilità che esista una narrazione diversa da quella approvata nei corridoi della diplomazia atlantica.
Un’operazione così vasta da travolgere ogni cosa: social, testate giornalistiche, piattaforme, persino i contenuti delle rassegne stampa. Il tutto in nome di una verità ufficialmente certificata, che non si discute più, ma si propaga. E chi osa mettere in dubbio l’immagine “difensiva” della NATO — come se fosse un monaco pacifista con i missili — sarà neutralizzato con etichette nuove: disinformato, filo-criminale, complice della propaganda altrui.
In questo contesto, Torchiaro non è un’eccezione grottesca, ma un precursore zelante del nuovo giornalismo che si annuncia: quello che non si chiede mai chi bombarda, ma chi ne parla; che non cerca di capire, ma di silenziare; che non informa, ma filtra, modula, lucida l’acciaio delle narrazioni ufficiali. Un giornalismo con l’elmetto, con il badge NATO-Israele e la coscienza in outsourcing.
Benvenuti nella resilienza democratica. Dove tutto è lecito, tranne dissentire.