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di Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine» di marzo«Avete mai visto operai e impiegati al forum?», chiedeva il 31 gennaio scorso tal Pietro sul forum del sito de il manifesto. Il rischio del Foro Sociale Mondiale, replicatosi le scorse settimane nell”Amazzonia brasiliana, è infatti sempre più quello di non rappresentare nessuno, al di fuori di se stesso. Rischio scongiurato, se si guardano ai contenuti e alla partecipazione complessiva dell”evento. Non del tutto, se si pensa alla balbettante presenza europea.
A Belèm si sono ammassate centocinquantamila persone provenienti da centoquarantadue paesi di ogni continente, inclusi duemila “indigeni” di centoventi “etnie”. La maggior parte apparteneva a una delle quasi seimila organizzazioni censite, tra associazioni, partiti e gruppi di mobilitazione tematica. Non pochi, considerando l”ampiezza e i costi del viaggio, anche se la strutturazione stessa avvicina al timore che, anziché prodursi un “festival dei movimenti” e delle spontanee istanze individuali, si tenda al “festival delle Ong”. E che infine, diversamente dallo slogan di “un altro mondo è possibile” si arrivi, come ironizzano alcuni, al più modesto “un altro turismo è possibile”.
È un turismo che fa viaggiare i funzionari delle suddette organizzazioni, che sono “non governative” nella forma, ma nella sostanza spesso dipendono largamente dai fondi dei governi, e quindi dalle loro politiche dello sviluppo. Queste sono state dopotutto le stesse che sembrano orientare gli odierni “piani anticrisi”: salvataggi bancari a parte, si tratta di qualche elemosina di quel che gli economisti chiamano “poverty alleviation”, ossia non un cambio strutturale ma un intervento per limitare i danni a carico dei più deboli, salvaguardandone un minimo di capacità di consumo. Così si sono mosse larga parte delle Ong, finanziate dai paesi donatori, portando (limitati) fondi dall”alto per interventi cosiddetti “dal basso”, con strumenti alternatisi secondo gli slogan in voga nei diversi periodi. L”ultimo è stato quello del “microcredito”, che non disturba nessuno e piace a tutti, esecutivi e banche centrali incluse, dato l”obiettivo, rivelatosi oggi catastrofico, di allargare il debito a chiunque, inclusi coloro che non hanno né soldi né tasche.
Detto questo (e detto anche nei cinque giorni di Belèm), il Foro Sociale Mondiale comunque non è un monolite, e non aspira a esserlo, perpetuando la tradizione di non votare alcun “documento finale”.
Ad accompagnare i circa trenta gruppi di lavoro “ufficiali” e le centinaia di convegni informali c”erano tuttavia dieci “obiettivi” universalmente riconosciuti:
La costruzione di un mondo di pace e giustizia, libero dalle armi, specie nucleari
La liberazione dal dominio coloniale e neocapitalista e da sistemi diseguali di commercio
L”accesso universale e sostenibile ai beni comuni dell”umanità e della natura
La conservazione delle risorse, soprattutto l”acqua, i boschi e le energie rinnovabili
La democratizzazione e l”indipendenza della conoscenza, la cultura e la comunicazione
L”uguaglianza di genere, razza, etnia, orientamento sessuale contro ogni discriminazione
I diritti economici e sociali, specie all”alimentazione, alla salute, all”istruzione, al lavoro dignitoso”
La sovranità dei popoli, incluse le minoranze e gli immigrati
Un”economia di emancipazione, democratica e solidale
Il potenziamento delle istituzioni rappresentative – politiche ed economiche – a livello locale, nazionale e globale con l”obiettivo primario della tutela ambientale”.
La loro finalità è dunque chiara e condivisa. Non si tratta di distinguere una “finanza buona” da una “cattiva”, ma di arrivare a un cambio radicale, a iniziare dalla “liberazione dal capitalismo”.
E di comune c”è anche l”amara consapevolezza di aver pronosticato il crollo strutturale del sistema già nei precedenti raduni di Nairobi e Mumbai. Altrettanto amara è la coscienza tra gli europei di non essere più il centro del mondo, nemmeno tra i movimenti. La loro presenza ai Forum, un tempo maggioritaria, è scesa a un quindicesimo dei militanti totali. Arrancano divisi, mentre i loro colleghi sudamericani hanno già risposto alla crisi raggiungendo la presidenza di cinque paesi.
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