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Amartya Sen è in Italia: vi trascorrerà alcuni giorni, per il riposo e  per alcune conferenze. Il premio Nobel per l”economia gli venne  attribuito nel 1998, per una «economia» pensata e ripensata alla luce di  una necessità etica che dovrebbe coinvolgere gli uomini, il mondo  intero, collocando l”indagine economica all”interno di una riflessione  che fa perno su una nozione di diseguaglianza,
analizzata a partire dalla eterogeneità degli esseri umani e dalla molteplicità dei parametri in base a cui può essere definita.
Per questo, ragionando di sviluppo e di mercato, ma anche di libertà , democrazia, giustizia, di diritti (di diritti anche della «terra» e quindi in una d imensione ecologica), è diventato una bandiera, un beniamino, un riferimento di quanti hanno immaginato una alternativa al liberismo imperante, alla globalizzazione selvaggia, al depauperamento delle risorse, all”arricchimento di pochi e alla fame di molti.
Una sintesi, anche di grande valore simbolico, della sua battaglia sta nell”invenzione (insieme con il collega pakistano Mahbub ul Haq e per conto delle Nazioni Unite) di un Pil (prodotto interno lordo) che rivoluziona quello tradizionale e che calcola la «ricchezza delle nazioni» non secondo riferimenti monetari o industriali, ma secondo altri parametri, come tasso di alfabetizzazione, grado di democrazia, possibilità di scolarizzazione, libertà di accesso ai media, qualità dell”assistenza sanitaria, attesa di vita, diffusione del benessere: si dice Hdi, indicatore di sviluppo umano (che non tutti però, mi precisa Sen, li include).
Il tema del suo  ultimo libro, pubblicato da Mondadori, è la giustizia. Lo dice il  titolo: «L”Idea di Giustizia». Ma lei è un economista e noi viviamo da  tempo una pesante crisi economica. Come se ne esce? Imboccando un”altra  strada rispetto a quella seguita fin qui? Abbandonando un modello di  sviluppo, che è poi il modello capitalista?
«La crisi  economica è grave. Le ragioni stanno certo nella cattiva politica, nella  mano libera consentita alla speculazione finanziaria, nell”eccesso di  fiducia nella forza regolatrice del mercato, comprimendo o addirittura  osteggiando il ruolo delle pubbliche istituzioni. Diciamo che la prima  responsabilità è stata degli Stati Uniti, con la complicità ovviamente  di tutti gli altri paesi più ricchi. A questo punto per rimediare non  c”è che una strada: incentivi e interventi pubblici, con le riforme  istituzionali che possono favorirla. Pensando globalmente. Questo è un  punto fermo. L”altro riguarda ancora il tema del mio libro: Giustizia e  ingiustizie. Non possiamo ignorarlo, anche mentre la finanza va a  rotoli, le borse crollano, la disoccupazione sale: non possiamo  accettare soluzioni che per motivi di bilancio, per salvare il vecchio  ordine, impongano nuove ingiustizie. Ad esempio, se è giusto tagliare il  superfluo, si dovrebbe sempre considerare che politiche di estremo  rigore rischiano di essere controproducenti laddove non assicurino i  servizi pubblici essenziali ai cittadini. Ma soprattutto dobbiamo  batterci contro quelle ingiustizie che già conosciamo, contro la  povertà, contro le limitazioni della libertà, contro le censure alla  democrazia, ovunque nel mondo, in Asia o in Africa, ma anche nei paesi  industrializzati. Il benessere dell”universo mondo resta una questione  di giustizia e le politiche economiche a sostegno della ripresa devono  essere giudicate per quanto riescono a rafforzare quelle condizioni di  libertà e di democrazia che sono autentica misura della qualità della  vita per tutti e allo stesso tempo premessa del cammino che verrà».
Vediamo  allora a questo suo libro, che si apre con una dedica a John Rawls, il  filosofo statunitense morto otto anni fa. Basterebbe il suo primo  saggio, del 1958, «Giustizia come equità». “La giustizia è la prima  virtù delle istituzioni sociali”, ha scritto Rawls. Mi pare, professor  Amartya Sen, che lei affronti il tema della giustizia da un altro punto  di vista, cioè in funzione delle condizioni dell”esistenza umana, di una  qualità della vita che a tutti dovrebbe essere garantita. Perché quel  riferimento a Rawls?
«Il mio punto di vista sulla giustizia  non è sempre esattamente compatibile con le conclusioni cui è giunto  Rawls che ha comunque influenzato lo sviluppo del mio pensiero.  Leggendolo, senza condividere molte delle sue affermazioni, mi ha  stimolato a una ricerca personale. Per riassumere il lungo rapporto  intellettuale che mi ha unito a Rawls, userei l”espressione  ”dialettica”. Credo che voi del l”Unità di dialettica ne capiate.  Partendo dalle ragioni di disaccordo, sono riuscito a individuare il mio  cammino per tentare di rispondere alla domanda fondamentale: che fare  per contare su una giustizia migliore?».
E come le pare  si possa rispondere a questa domanda. Esiste una misura della giustizia?
«Scrivendo  questo libro, a proposito di un”idea di giustizia, mi sono innanzitutto  preoccupato delle ingiustizie, perché solo risalendo dalle ingiustizie,  dalla loro cancellazione, si può pensare a un passo verso una  condizione più stabile e più equa dell”umanità».
Cioè, a  una immagine teorica, direi ideale, della Giustizia, antepone una  pratica di «ascolto» delle mille ingiustizie?
«Certo. Come  infatti una società si può evolvere nel segno della giustizia? Può  provarci, a condizione prima di tutto di una diagnosi delle ingiustizie.  Su questo insisto: il primo compito è diagnosticare. Poi sulla base  della conoscenza, di un consenso ragionato, di un esercizio  intellettuale, attraverso cambiamenti politici, istituzionali,  attraverso pure un cambiamento della mentalità diffusa, si può agire  perché spariscano le situazioni di ingiustizia ».
Però le  miserie del mondo, la fame, le morti sono lì a parlarci immediatamente.  E in modo scandaloso…
«Le manifestazioni eclatanti,  clamorose di ingiustizia sono infinite. Però mi interessava  particolarmente stigmatizzare le forme più sottili dell”ingiustizia, ad  esempio le tante forme di diseguaglianza tra gli uomini, lo squilibrio  dei redditi piuttosto che la diversità delle opportunità. Sono questioni  che toccano la sfera personale. Ciononostante condizionano il mondo.  Certo: ingiustizia è morir di fame, è dover affrontare una carestia.  Sono capitoli estremi dell”esistenza umana. Mentre si apre davanti ai  nostri occhi un arcobaleno di situazioni, alcune delle quali non  riusciamo a vedere nitidamente, come le tante forme di violenza, di  limitazione delle libertà, di condizionamento fino alla tortura. Se  vogliamo dare una risposta ad una domanda di giustizia, se vogliamo che  quindi il genere umano, tutto, possa vivere bene, senza soffrire la  fame, senza patire violenze, dobbiamo imparare a considerare le  situazioni più manifeste (e morir di fame è tra le più gravi), ma anche  quelle più occulte, che colpiscono comunque l”esistenza degli  individui».
Mi pare che lei, trattando di giustizia, si  riferisca molto spesso a concetti di libertà e di eguaglianza. Potremmo  aggiungere «fraternità», come ”legante” comunitario, e siamo ai tre  principi della rivoluzione francese. Quale dei tre metterebbe in primo  piano?
«Mi sembrano tre principi importanti allo stesso  modo. La libertà consente all”uomo di agire alla luce della ragione che a  ciascuno è data. L”uguaglianza, se siamo esseri umani, è garantire a  tutti le medesime opportunità. La fraternità permette di stabilire di  continuare relazioni reciproche chenon siano fondate sull”ostilità, che  ci consentano quindi di sentirci vicendevolmente a nostro agio, di  vivere vicini senza danneggiarci, di essere rispettati dai propri  simili, di partecipare alla vita della comunità. Cercare di stabilire  tra questi principi una classifica, mi sembra come tentare di dire che  cosa sia preferibile tra i sensi, l”udito, la vista, il gusto. Valgono  tutti e tre allo stesso modo e di nessuno dei tre vorrei privarmi.  Finché non sei posto davanti al bivio, cioè a una scelta, non potrai mai  immaginare la graduatoria».
Tratto da: temi.repubblica.it/micromega-online
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