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L”identità è al centro di un notevole saggio che Lei ha pubblicato recentemente [Nous et les autres, Krisis].
Perché questo argomento si è fatto così scottante oggigiorno?
Come si può concepire un nuovo modello comunitario che non sia un ritorno all”arcaismo?
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Il  vasto movimento della modernità è stato sorretto  dall”ideologia  dell”Identico, cioè dall”idea, espressa in diverse forme,  che le  differenze tra gli uomini siano solo contingenti e transitorie.  Il  risultato è stato la progressiva crescita di un fenomeno di   indistinzione che si è tradotto in una forte erosione delle identità,   sia individuali che collettive, fenomeno che oggi trova il suo culmine,   dato che adesso si sente dire un po” ovunque che “non ci sono più punti   di riferimento”. Le rivendicazioni identitarie che vediamo fiorire   attualmente, anch”esse un po” ovunque, sono un”evidente reazione contro   questa cancellazione dei punti di riferimento. Qualunque sia la forma   attorno alla quale si ordinano – identità oggettive o soggettive, reali o   fantasmatiche -, esse costituiscono uno dei tratti più significativi   del nostro tempo (prima si è rivendicata la libertà, poi l”eguaglianza,   poi l”identità), e nel contempo confermano una realtà paradossale: si comincia a porsi domande sull”identità solo nel momento in cui questa minaccia di scomparire o è già scomparsa.
Il   problema è che tutti parlano d”identità, ma assai pochi si sobbarcano   la fatica di dire quale interpretazione danno di questa parola. E da  ciò  nascono innumerevoli equivoci e confusioni. Nel mio libro Nous et  les  autres mi sono perciò proposto di riprendere da capo un lavoro di   definizione. Prima di tutto ho cercato di mostrare per quali ragioni   l”identità fosse una dimensione essenziale, costitutiva del sé, della   presenza umana nel mondo. Ma mi sono altresì proposto di mettere sotto   accusa talune concezioni ingannevoli, che a volte conducono a una vera e   propria patologia dell”identità (questo accade quando l”appartenenza   viene confusa con la verità). Per me l”identità non è un”essenza   unidimensionale, bensì una sostanza plurale che si trasforma di   continuo: non definisce quel che non cambia mai, ma quel che costituisce   il nostro particolare modo di cambiare. Non può enunciarsi unicamente   da sola, ma reclama per definizione una relazione con l”altro: ogni   soggetto ha bisogno di un altro (non di un altro se stesso, ma di un   altro che differisce da lui) per costituirsi, ed è per questa   caratteristica che tutte le identità sono dialogiche. In fin dei conti,   l”identità è una narrazione di sé destinata a strutturare l”immaginario   simbolico – questo universo oggi minacciato dal dilagare dei valori   mercantili.
Il suo intervento nel dibattito sulla decrescita ha provocato l”isteria di alcuni sostenitori di quest”ultima.
Come   spiegare il successo di questa idea? È davvero pertinente o si rivela   come una nuova ubbia nata dalla corrente altermondialista?
Dato che stiamo trattando di un”idea così rivoluzionaria qual è la decrescita, a mio parere è ancora
decisamente   troppo presto per parlare di “successo”. Limitiamoci a dire che questa   idea oggi sta aprendosi la strada nelle menti, nella misura in cui si   espandono le preoccupazioni ecologiche e fa la sua comparsa con  maggiore  chiarezza l”impostura di qualunque riformismo in questo  ambito. La  teoria parte dalla semplicissima constatazione che una  crescita infinita  è impossibile in un mondo finito. Questa semplice  constatazione, quando  è formulata in maniera imperativa o normativa,  contraddice frontalmente  un altro grande vettore della modernità,  ovvero l”ideologia del  progresso. Questa ideologia, di cui Georges  Sorel aveva ben colto il  carattere essenzialmente “borghese”, pretende  che la storia sia  orientata verso il meglio, che il domani sarà sempre  migliore, che  l”accaparramento della Terra possa proseguire  indefinitamente, che sia  del tutto naturale produrre sempre di più onde  consumare sempre di più,  eccetera. Affermazioni di questo tipo oggi  non sono più credibili.  Sappiamo che le riserve naturali, a partire  dalle riserve energetiche,  non sono inesauribili. Vediamo moltiplicarsi  ed intensificarsi le  sregolatezze climatiche. Sappiamo anche che il  saccheggio del pianeta  rischia di raggiungere un livello irreversibile.  In tutti i campi ci  sono dei limiti. Tener conto di tali limiti porta a  capire che a volte è  necessario dire “è abbastanza” invece che “ancora  di più!”. 
Resta  però molto da fare. Continua a regnare una certa  confusione intorno alle  modalità di una possibile decrescita – di una  “decrescita sostenibile”  -, che non può essere confusa con un ritorno  indietro o, peggio ancora,  con la fine della storia. I sostenitori  della decrescita, che non si  riducono ai pochi isterici ai quali Lei  alludeva nella domanda, devono  fronteggiare le critiche congiunte di  una sinistra erede del  cartesianesimo e dell”illuminismo, che ha  costantemente difeso il  produttivismo, e di una destra liberale,  acquisita da tempo  all”assiomatica dell”interesse, che non sogna altro  che l”espansione  planetaria del sistema del profitto. Mettere in  discussione l”idea di  crescita indefinita significa mettere in  discussione il fondamento  stesso, se non la ragion d”essere, delle  società “sviluppate” sul  modello occidentale. Per questo motivo ci  vorrà tempo prima che si  insedi stabilmente nelle menti. La “pedagogia  delle catastrofi”, da  questo punto di vista, non può essere che un  coadiuvante. L”opera più  urgente va svolta a livello delle idee. Come  ha detto innumerevoli volte  Serge Latouche, si tratta di “decolonizzare  l”immaginario” abituando i  nostri contemporanei a relativizzare  l”importanza dell”economia e a non  lasciare più che i valori mercantili  governino integralmente il sistema  dei desideri e dei bisogni.
Lei ha prefato di recente la riedizione del libro di Edouard Berth Les méfaits des intellectuels, mentre la rivista “Éléments” pubblica in questi giorni un dossier sulla storia del socialismo francese. Perché questo interesse per una corrente rivoluzionaria a lungo dimenticata? Le sembra auspicabile un”alternativa socialista, fedele a quei valori, che fosse capace di apportare risposte nuove alle sfide del nostro tempo?
È evidente. In un momento in cui la destra si confonde più che mai con il sistema del denaro, mentre la
maggior   parte dei partiti “di sinistra” non esitano ormai più a vantare i   meriti del mercato, mi è sembrato importante “rivisitare” alcune delle   grandi correnti del socialismo francese, cominciando con la più   interessante fra di esse, il sindacalismo rivoluzionario, di cui Georges   Sorel, Edouard Berth e Hubert Lagardelle furono i teorici e le cui   tesi, sostenute da Victor Griffuelhes e da Emile Pouget, trionfarono per   qualche tempo all”interno della CGT, all”epoca della famosa “carta di   Amiens”. Non per vana nostalgia, beninteso, perché le condizioni di   esistenza dei lavoratori sono oggi ben diverse da quelle che erano alla   fine del XIX secolo, ma perché vi sono molte lezioni da trarre – a   condizione di non cadere nell”interpretazione anacronistica o   nell”idealizzazione romantica – dallo studio di quel potente movimento   socialista e operaio che, quando lo si guarda da vicino, sfugge alla   maggior parte delle divisioni che oggi conosciamo. Ho parlato del   sindacalismo rivoluzionario, ma la rilettura di Proudhon, Blanqui, ma si   impone altrettanto la lettura di Proudhon, Blanqui, Vallès, Pierre   Leroux, Benoît Malon, eccetera.
Nel corso degli ultimi anni, nei suoi scritti Lei ha spesso affrontato l”opera di Karl Marx. Come considera, nella sua riflessione, l”apporto del filosofo tedesco? Quale attualità ha a suo avviso l”analisi marxiana?
Un”attualità  indiscutibile. Anche se  bisogna leggerlo senza la devozione de marxisti  ortodossi o la malafede  degli “antimarxisti” di professione che, senza  averlo mai letto, si  limitano a presentarlo ridicolmente come il  “precursore del Gulag”.  Andiamo all”essenziale. Marx non è solamente  stato uno dei primi a  spiegare in modo convincente come il capitalismo  organizza  l”espropriazione dei produttori sulla quale si fonda; è stato   soprattutto colui che, in maniera davvero geniale, ha capito che il   sistema capitalistico era un sistema antropologico – quella che io   stesso chiamo la Forma-Capitale – ancor più che un sistema puramente   economico. Le pagine insuperabili che ha dedicato al “feticismo delle   merci”, a partire dalle quali György Lukács ha potuto formulare nel 1923   il concetto di “reificazione” (Verdinglichung), illustrano   perfettamente il modo in cui l”appropriazione della Terra da parte del   Capitale introduce una vera “cosificazione” dei rapporti sociali, in cui   l”uomo non è soltanto assoggettato alla merce, ma si trasforma lui   stesso in merce. Questo dispositivo di mostruosa appropriazione ricorda   in qualche misura ciò che Heidegger ha scritto a proposito del Gestell,   come sistema di fuga in avanti nell”illimitato.
Indubbiamente Marx   commette l”errore di sopravvalutare la sola economia, il che lo porta  ad  attendersi la salvezza dall”avvento di un”altra forma di  organizzazione  economica, invece di mettere in discussione la stessa  economia intesa  come valore (è un punto su cui, attraverso Ricardo,  rimane dipendente  dalla scuola classica). Così come vuole liberare il  lavoro, laddove  sarebbe stato necessario prospettare l”ipotesi di  liberarsi dal lavoro.  Egli sviluppa una filosofia lineare della storia  che non è altro che una  trasposizione profana dello storicismo  cristiano. Sottolinea  giustamente la realtà delle lotte di classe (che  la destra si è sempre  intestardita a non riconoscere), ma ha il torto  di farne il solo ed  unico motore della storia umana. Ha capito  benissimo che la borghesia  detentrice del capitale – a cui credito  mette la liquidazione del  sistema feudale, perché in ciò vede una  premessa indispensabile  all”avvento di una società senza classi – trova  nell”accumulo di quel  capitale la fonte del proprio potere, e che le  forze produttive si  sviluppano nel solco del suo dominio di classe. Ha  avuto però il torto  di attribuire alla borghesia esclusivamente il  carattere di classe  detentrice dei mezzi di produzione, senza  accorgersi che essa era anche e  soprattutto portatrice di nuovi valori.
Ciò  che egli dice delle  “contraddizioni” interne del capitalismo può  essere criticato alla luce  della storia effettivamente avvenuta. Marx  crede un po” ingenuamente che  lo sfruttamento di cui il proletariato è  vittima sarà sufficiente per  far nascere una coscienza di classe che il  partito comunista saprà  orientare nel senso della rivoluzione (“la  borghesia produce i suoi  stessi becchini”). Pensa che quello  sfruttamento crescerà sempre nello  stesso modo, senza rendersi conto  che l”aumento dei salari, che  trasforma i produttori in consumatori,  consentirà anche al capitale di  accrescere i suoi profitti (a che serve  aumentare incessantemente la  produzione se non c”è nessuno per  acquistarla?). Allo stesso modo, pensa  che il peso crescente del  capitale fisso (“costante”) ridurrà  inesorabilmente la componente dello  sfruttamento diretto dei proletari  nel valore della merce, e da ciò  deduce la sua teoria del calo  tendenziale del tasso di profitto.  Orbene: grazie ai progressi tecnici e  agli aumenti di produttività, il  peso del capitale fisso non ha  soffocato il profitto, perché  l”accumulazione ha trovato sinora nuovi  ambiti in cui dispiegarsi. Il  che peraltro non vuol dire che la teoria  del calo tendenziale del tasso  di profitto sia completamente da  abbandonare, perché le imprese oggi  tendono a perdere anche su mercati  stagnanti, o soggetti a una  concorrenza selvaggia, quel che guadagnano  grazie alla compressione dei  salari.
Lei diceva un istante fa che le condizioni di esistenza dei lavoratori sono oggi assai diverse da quelle che erano alla fine del XIX secolo. Vuole con ciò dire che oggi non esiste più una classe operaia? Né classi sociali?
Ci  sono sempre delle classi sociali, e la  classe operaia continua a  rappresentare in Francia circa sei milioni di  persone. (Si noti, in  compenso, che negli anni Sessanta c”erano ancora  all”Assemblea  nazionale un centinaio di ex operai fra i deputati, mentre  oggi sono  solo tre o quattro). Ma per esistere in quanto classe non  basta  esistere “in sé”. Bisogna anche esistere “per sé”. A scomparire  non  sono state le classi sociali, ma la cultura di classe e lo spirito  di  classe.
Il “genio” del capitalismo moderno è consistito nel   frammentare tutte le categorie sociali “pericolose” attraverso nuove   divisioni, per lui inoffensive. Viviamo in una società che è nel   contempo sempre più frammentata eppure sempre più omogenea nelle   aspirazioni e nei valori. Vi è stata un”epoca, non così lontana, in cui   ogni ambiente sociale aveva il proprio modo di vedere il mondo, la   propria cultura, a volte persino la propria lingua. La vita moderna ha   soppresso tutto ciò. Il compromesso fordista si è tradotto in un   imborghesimento generalizzato. Tutti vogliono più o meno le stesse cose,   soltanto con più o meno mezzi per procurarsele. I figli della classe   borghese hanno le stesse occupazioni del tempo libero di quelli della   classe operaia. Vedono gli stessi films, ascoltano le stesse canzoni,   hanno le stesse distrazioni, vogliono andare in vacanza negli stessi   posti, frequentano gli stessi locali e via dicendo. Tutti amano Johnny   Halliday, il rap, i programmi dei disk-jockeys, la Star Academy, Harry   Potter e le play-stations. Anche qui, l”unica distinzione è causata dai   soldi: si ha più o meno denaro da spendere, ma lo si spende nello  stesso  modo.
Esiste sempre meno una cultura caratteristica delle  classi  popolari, perché l”immaginario simbolico dell”intera società è  stato  convertito ai valori mercantili. Il modello antropologico  liberale  (l”uomo non è che un produttore-consumatore il cui  comportamento normale  consiste nel cercare sempre di massimizzare il  proprio interesse pur  impegnandosi nel consumare sempre di più) si è  imposto nelle menti. La  mimesi sociale e la logica del profitto hanno  fatto il resto. Nell”era  del capitalismo cognitivo e dell”economia  “immateriale” dell”onnipotenza  dei mercati finanziari e della dittatura  degli azionisti, il pianeta si  trasforma in un unico mercato, nel  quale il capitale dispiega a  piacimento le sue strategie.
Anche  l”individualizzazione dei  comportamenti e la crisi generalizzata delle  strutture istituzionali  (partiti, sindacati, chiese) svolgono però un  loro ruolo. Nessuno  ragiona più in funzione di un progetto collettivo  che interessi la  società globale. Le infermiere, gli insegnanti, i  precari dello  spettacolo manifestano per difendere le proprie  condizioni di lavoro, ma  la loro protesta non si estende mai ai  lavoratori in generale.  Manifestano esclusivamente per se stessi e  smettono di mobilitarsi nel  momento stesso in cui le loro  rivendicazioni sono state più o meno  soddisfatte. Anche i salariati  vittime di un licenziamento arbitrario,  di una delocalizzazione  selvaggia o di un fallimento si mobilitano in  maniera puntuale, senza  mai manifestare solidarietà con il mondo del  lavoro in generale.
Che significato dà esattamente all”espressione “classi popolari”?
Oggigiorno,  le classi popolari non si riassumono più nella  classe operaia. Esse,  che ieri erano principalmente costituite da operai  dell”industria, ma  anche da contadini poveri (vivevamo ancora in una  cultura rurale), oggi  comprendono anche impiegati dei servizi, salariati  del commercio,  piccoli impiegati, personale badante, un proletariato  del terziario  disperso e privo di tradizioni di lotta, eccetera. Quindi  non sono più  omogenee. Vi sono forti differenze – addirittura più forti  di  trent”anni fa – tra coloro che pagano un affitto e quelli che sono   riusciti a diventare proprietari di una casetta, tra gli urbani e i   rurali (gli ultimi), i salariati del settore privato e quelli del   settore pubblico, e così via. Ma i punti in comune rimangono più   numerosi di quanto non si dica. Le classi particolari si caratterizzano   in particolare per le piccole dimensioni del loro status sociale e   professionale, per una minore sicurezza economica, eventualmente (ma non   sempre) per una tendenza alla precarietà, per una certa lontananza da   quello che Bourdieu chiamava il “capitale culturale”, vale a dire le   risorse culturali socialmente vantaggiose.
Robert Castel non ha torto   nel criticare la rappresentazione della società secondo uno schema   dualistico che contrappone sommariamente da un lato un”ampia maggioranza   di classi medie e dall”altro l”insieme dei poveri, dei precari e degli   esclusi. Le classi popolari si distinguono in realtà sia dalle une che   dagli altri. Da questo punto di vista, l”indiscutibile spostamento  verso  le classi medie indotto dal compromesso fordista è stato  sicuramente  sopravvalutato. Numerose opere pubblicate fino all”incirca  la metà degli  anni Novanta si sono impegnate nel descrivere la  “medianizzazione”  della società francese per effetto del consumo di  massa, della  diffusione dell”educazione pubblica (di fatto, assai  spesso, una  semi-acculturazione alla cultura scolastica), del fiorire  dei servizi,  eccetera. La credenza in questa “medianizzazione” è uno  dei fattori che  spiegano il modo in cui i partiti di sinistra si sono  progressivamente  separati dal popolo. Il movimento degli scioperi del  1995, i risultati  realizzati dal Front national presso le classi  popolari e, soprattutto,  lo smacco di Lionel Jospin alle elezioni  presidenziali del 2002 hanno  condotto gli specialisti ad osservare la  questione più da vicino. Il che  li ha portati a riscoprire il peso  demografico e sociologico di  categorie che si erano date un po”  frettolosamente per scomparse.
Un  altro errore, ben denunciato da  Annie Collovald, consiste nel  rappresentare le classi popolari come  ambienti votati, adesso che il  comunismo è scomparso, a lasciarsi  sedurre dalle sirene del “populismo”.  In questa ottica, il “populismo”  serve da comodo spauracchio per  screditare le classi popolari,  descritte come particolarmente permeabili  alle idee semplicistiche,  xenofobe e autoritarie, e per legittimare la  frattura esistente tra i  grandi partiti “di governo” e il popolo. I  sondaggi mostrano che, in  realtà, il Front National nel corso degli  ultimi vent”anni ha raggiunto  un duplice elettorato, nel contempo  popolare e piccolo-borghese, e che  è stato soprattutto il suo elettorato  piccolo-borghese (che alle  ultime elezioni presidenziali si è spostato  in massa su Nicolas  Sarkozy) a trarre lauti profitti dall””ideologia”  semplicistica che  generalmente è addebitata al populismo.
Lei ha spesso insistito sulla natura ambivalente del Lavoro. Nel contempo alienazione e fonte di legame sociale, la sua trasformazione ha provocato notevoli sconvolgimenti nella società attuale. Quali dovrebbero essere, secondo Lei, il suo posto e la sua natura in un”attività umana liberata dagli imperativi del profitto? Il mondo del lavoro continua ad essere ancor oggi la prima vittima del Capitale?
Ho  spesso criticato l”ideologia del lavoro, perché credo  che non vi sia  niente di “naturale” – e ancor meno di “morale” – nel  fatto intrinseco  di lavorare. Hannah Arendt e molti altri autori hanno  ricordato che il  lavoro era considerato nell”Antichità un”attività  inferiore, che aveva a  che fare con la sfera della necessità, opposta a  quella della libertà.  I greci, è vero, collocavano la vita contemplativa  su un piano  superiore anche a quello della vita activa, ma  distinguevano anche il  lavoro da ogni sorta di altra attività e  occupazione. Nelle culture  monoteiste, viceversa, il lavoro assume una  connotazione positiva, per  ragioni essenzialmente morali: in conseguenza  del peccato originale,  l”uomo deve “lavorare con il sudore della  fronte” e il lavoro è un  dovere né più né meno del digiuno o della  preghiera. Tuttavia, il  lavoro nel senso moderno del termine, cioè  fondamentalmente il lavoro  salariato, si imposto in Europa solo  progressivamente, e non senza  scontrarsi con fortissime resistenze. Non  si è mai completamente  liberato della propria costitutiva ambiguità. Per  un verso, il lavoro  rappresenta un”incontestabile alienazione; per un  altro è stato  percepito anche come una “liberazione”, o addirittura una  “redenzione”.  Sia la sinistra che la destra hanno del resto partecipato,  ciascuna  con i toni che le erano propri, all”esaltazione del lavoro.  Infine, mi  guarderò bene dal dimenticare che il fatto di aver posseduto  uno status  di lavoratore all”interno del sistema produttivo ha svolto un  ruolo  essenziale nella formazione dell”identità operaia.
A che punto  ci  troviamo oggi? La condizione salariale ha continuato costantemente a   generalizzarsi, a causa in particolare della scomparsa della società   rurale, il che fa sì che ciascuno ne subisca ormai le costrizioni. Il   lavoro continua ad essere uno degli ultimi punti di riferimento sociali,   nel senso che continua ad apportare un”identità (al contrario della   condizione del disoccupato, privato di qualunque identità sociale dalla   propria condizione). Ma nel contempo il lavoro tende a diventare un   genere raro, come testimonia la comparsa, nella maggior parte dei paesi   occidentali, di una disoccupazione che non è più soltanto congiunturale   ma strutturale, il che consente al capitale di accentuare la pressione   al ribasso sui salari.
Nel contempo, si può dire che la   Forma-Capitale non è mai stata così aggressiva e predatrice quanto lo è   oggi. Il capitalismo del “terzo tipo” o “turbo capitalismo”,   riallacciandosi all”epoca dei suoi esordi, ma ormai completamente   mondializzato – ha infatti smesso di essere subordinato alla potenza   delle nazioni -, ha messo in opera un po” ovunque un programma di   compressione dei redditi salariali, di rimessa in discussione (quando   non di smantellamento) dei diritti sociali e di precarizzazione   dell”impiego. Parallelamente, quello che merita il nome di crollo del   sistema scolastico ha posto fine al miraggio dell””educazione per   tutti”, nonché al sogno sconsiderato dell”eguaglianza attraverso la   massificazione e il livellamento. Infine, il fenomeno dell”esclusione   segna un aggravamento della sorte di coloro che lo subiscono rispetto a   quella che un tempo era l”alienazione di tipo classico. Ieri lo   sfruttamento della forza-lavoro degli operai non impediva loro di essere   integrati nella piramide sociale, magari al livello più basso.   L”esclusione, invece, taglia puramente e semplicemente fuori dalla   società. Ieri c”erano degli sfruttati, di cui però si aveva ancora   bisogno (per sfruttarli, appunto); oggi ci sono degli “inutili”. Questo   aggravamento segna un cambiamento di natura, non soltanto un  cambiamento  di grado.
L”avvento della società “a clessidra” consacra  la fine  della teoria del “riversamento” (Alfred Sauvy), secondo la  quale i  profitti accumulati al vertice della piramide sociale finiscono  un  giorno o l”altro per ridiscendere verso la base, migliorando così  il  livello di vita generale. L”esame dell”evoluzione dei redditi mostra  che  i poveri sono sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi – e  che le  diseguaglianze crescono anche tra le nazioni. Per i liberali, la   disoccupazione non è altro che il risultato della pigrizia dei   disoccupati (che “preferiscono ricevere sussidi” piuttosto che cercare   un lavoro; per dirla più chiaramente: che rifiutano di accettare   qualsiasi lavoro a qualunque livello di remunerazione) e di carichi   salariali troppo elevati. Orbene: la moderazione salariale è la regola,   ma l”impiego non è mai stato puntuale all”incontro. Oggi, la nuova idea   dominante è che la “flessibilità” sarebbe il modo migliore per creare   posti di lavoro. Questa idea, che non è granché nuova – corrisponde  alla  virtù di “adattamento” ausiliaria della selezione naturale nella   prospettiva social-darwinista -, si diffonde con tanta più facilità in   quanto adesso viviamo in un mondo “liquido”, come dice Zygmunt Bauman,   cioè in un mondo dominato dai flussi e dai riflussi, e non da   organizzazioni tradizionali di tipo burocratico o gerarchizzato. In   questo nuovo contesto, i liberali continuano a spiegare la   disoccupazione con un livello salariale troppo elevato e con il fatto   che i disoccupati sono inutilmente indennizzati, il che li inciterebbe a   non fare niente. Ma essi assicurano che, fra i fattori che impediscono   la moderazione salariale, occorre ormai privilegiare le variabili   istituzionali che rendono conto della “rigidità” del mercato del lavoro.   Si suppone che queste variabili spieghino anche le differenze fra i   tassi di disoccupazione esistenti da un paese all”altro. L”idea generale   è che, per un dato livello di crescita, un paese potrebbe creare molti  o  pochi posti di lavoro in funzione unicamente del grado di   regolamentazione del mercato del lavoro, il che è assurdo. Lo si vede   molto bene oggi in Germania, che è uno dei paesi in cui da dieci anni a   questa parte i salari sono stati più contenuti e la disoccupazione è  più  cresciuta. Le vere cause della disoccupazione vanno infatti  ricercate  innanzitutto sul versante di un”evoluzione generale della  società, che  consente di produrre sempre più beni e servizi con sempre  meno uomini,  poi su quello dello sviluppo dell”economia finanziaria a  detrimento  della produzione reale, infine su quello della crescita dei  redditi da  capitale e dell”ineguale distribuzione degli aumenti di  produttività.
Se le classi sociali continuano ad esistere e se la Forma-Capitale non è mai stata così aggressiva, perché
non ci si rivolta?
Questo  è il grande interrogativo. Naturalmente, si può  sempre dire che la  gente non si rivolta perché in fin dei conti non ha  tante ragioni per  lamentarsi della propria sorte. È una risposta  ottimistica che  certamente sentiremo fino a quando ci saranno della  benzina nella pompa  e dei prodotti negli scaffali dei supermercati. Ma  se questo è vero,  perché nel contempo si constatano tanti disagi  affettivi, tante miserie  materiali, tante sofferenze sociali? Perché i  gabinetti degli  psicologici non si svuotano? Perché c”è questo ricorso  massiccio agli  antidepressivi? Perché c”è questa visibile dispersione di  energia,  questa anomia collettiva, questo anonimato di massa, questa   dissoluzione del legame sociale? C”è senz”altro un malessere nella   civiltà, come diceva Freud.
Cionondimeno, è vero anche che tutti   coloro i quali predicevano, ancora vent”anni fa, che una volta   oltrepassato un certo livello di disoccupazione si sarebbe   inevitabilmente assistito a una rivolta sociale violenta sono stati   smentiti dai fatti. La spiegazione tradizionale è che essendo oggi la   disoccupazione indennizzata, almeno durante un certo periodo, le   condizioni della rivolta vengono per ciò stesso disinnescate. Un”altra   spiegazione, più sottile, è che i disoccupati percepiscono se stessi   come privi di tutto, compresa la capacità di mobilitarsi all”interno di   una società nella quale non riescono ad inserirsi, tanto materialmente   quanto psicologicamente. Io penso che le vere cause vadano ricercate  più  lontano.
Come rendere conto, ad esempio, del fatto paradossale  che  le categorie sociali che avrebbero “oggettivamente” più ragioni per   rivoltarsi sono in pratica quelle che si rivoltano meno? Tutta una   corrente della sociologia dei movimenti sociali si è confrontata con   questo paradosso, prima negli Stati Uniti (F.F. Piven e R.A. Cloward),   poi in Europa. I suoi lavori sono interessanti nella misura in cui   rimettono in discussione l”idea perfettamente intuitiva, conforme al   buonsenso, che postula un legame meccanico causaeffetto fra la presa di   coscienza e la rivolta, o fra lo scontento e il rifiuto violento di ciò   che lo suscita. Oggi sappiamo che il dominio o lo sfruttamento subito   possono tradursi sia nella rassegnazione, nella depressione o nella   somatizzazione, sia nella contestazione violenta, soprattutto quando   questo dominio è in parte mascherato dall”orpello delle distrazioni   quotidiane, e soprattutto dall”incapacità di coloro che ne sono vittime   di considerarsi come un gruppo unitario, che ha un medesimo status   sociale e interessi comuni. La “coscienza infelice” può così restare nel   contempo una “falsa coscienza”, una coscienza alienata, e i suoi   effetti possono esercitarsi anche negli strati più profondi dei corpi.
La   maggior forza della Forma-Capitale è nell”aver fatto credere alla   propria “naturalezza”. Tutte le grandi ideologie hanno cercato di far   passare per naturali i propri fondamenti, allo scopo di fornire ad essi   uno zoccolo di legittimità. Così l”ideologia liberale ha fatto credere   prima che lo scambio mercantile è la forma naturale dello scambio (in   contrasto, ad esempio, con il sistema del dono e del contro-dono), poi   che la dinamica degli scambi mercantili produce del tutto naturalmente   la formazione del capitale come rapporto di produzione e il capitalismo   come modo di produzione. In questa prospettiva, l”espropriazione dei   produttori e la trasformazione in merci delle condizioni e degli attori   del processo di produzione vengono ormai considerate conseguenze   inevitabili di una evoluzione “naturale”.
L”alienazione si definisce   oggi più che mai come un fenomeno di falsa coscienza. Le persone hanno   interiorizzato l”idea che, in fondo, non esiste alcun”altra società   possibile. Sentono un profondo disagio nel vivere in questa società, ma   ci vivono nell”ottica della fatalità. I più colti hanno in mente tutto   ciò che si è cercato di fare in passato e non ha funzionato (o ha   portato al peggio). Ne deducono che non c”è niente da fare, se non   premere per ottenere qualche miglioramento marginale. Di conseguenza   tutti sono diventati riformisti. Nel migliore dei casi, i salariati   prendono parte a un vasto borbottio mal definito, un “ne abbiamo   abbastanza” che si esprime nel “voto di protesta”, senza andare oltre. A   ciò si aggiunga che non siamo più nell”epoca delle esplosioni, ma in   quella delle implosioni. Nell”era della società igienista, festiva,   asetticizzata, coloro che sono in profondo disaccordo con ciò che li   circonda non cercano più di fare la rivoluzione. La loro ribellione si   esprime piuttosto nel ritrarsi: si ritirano dal gioco. Nel migliore dei   casi, si dicono che la vera vita è altrove e si sforzano di costruirsi   un “altrove” a propria misura. Può essere l”avventura oppure il ritiro   nel bozzolo.
Quanto tempo può durare tutto ciò?
Tutto  quel che si può dire è che la storia è aperta – il che non significa  affatto che tutto sia possibile in qualsiasi  momento, ma semplicemente  che non esiste uno stadio sociale storico che  possa essere considerato  definitivo. Oggi viviamo un””epoca di acque  basse”, come diceva  Castoriadis. Non sarà sempre così. Ma il problema è  che la domanda è  condizionata anche dall”offerta, e l”offerta oggi si è  singolarmente  prosciugata. Il socialismo si è troppo a lungo orientato  verso  rivendicazioni puramente quantitative, che erano certamente  legittime e  necessarie, ma che non riassumono tutto ciò a cui l”uomo  aspira.  Quando il livello di vita dei più ha iniziato a salire, il  movimento  socialista si è trovato ad essere in parte disarmato.  Nell”epoca del  compromesso fordista, una parte della classe operaia ha  barattato  l”integrazione nelle classi medie con la rinuncia ad ogni mira   rivoluzionaria. Inoltre, da quando il sistema sovietico è caduto, i   partiti di sinistra non sono mai riusciti a superare la loro crisi   d”identità. Il partito comunista e il partito socialista, dopo aver   assistito alla scomparsa della propria base sociologica, hanno scelto di   tagliare definitivamente i legami con il popolo e sono diventati uno   (il Pc) un partito socialdemocratico, l”altro (il Ps) un partito   social-liberale. Non riuscendo a trovare gli strumenti teorici per   superare la disgregazione dei propri modelli di riferimento, la sinistra   alla fine è capitolata senza condizioni, convertendosi all”economia di   mercato. Anche se va detto che, sociologicamente parlando, si era già   ingordamente riconciliata con il denaro! Questa capitolazione ha molto   contribuito a diffondere l”idea secondo cui non esiste alternativa al   sistema in vigore (il celebre “TINO”: “There is no alternative”. Nel   contempo, essa ha completamente distorto le modalità teoriche e pratiche   dell”azione politica di sinistra. Non proponendosi più di operare   all”avvento di un”altra società possibile, la sinistra può coltivare   unicamente l”ambizione di aggiungere un po” di “coscienza sociale” ad   evoluzioni considerate irresistibili. All”ultraliberalismo essa si   accontenta dunque di contrapporre un “socialliberalismo” che ambisce a   modificare un po” la messa in opera delle evoluzioni in corso, senza più   contestarne le fondamenta. Il riformismo finisce così per trionfare   completamente, e con esso l”idea che si può solamente “sistemare” o   riformare marginalmente una fuga in avanti che niente può veramente   arginare. Questa deriva ha certamente aperto alla “sinistra della   sinistra” uno spazio politico in cui alcuni attori più radicali cercano   di insediarsi, senza però offrire altra alternativa se non un gioco al   rialzo verbale di tonalità essenzialmente morale. Lo sproloquio di   ultrasinistra coniuga una posizione “rivoluzionaria” immatura, una base   sociale borghese, un ultraliberalismo in materia di costumi e di gara  al  rialzo moralistica con specifiche saltuarie mobilitazioni a favore  di  settori sempre più periferici della società. Non si trova, in questi   gruppi, nessun vero programma, nessuna alternativa chiaramente  definita,  ma – come anche in molti altermondialisti – un discorso privo  di  contenuto, accoppiato ad una totale ignoranza di quello che è la   politica. La maggior parte di essi si limitano a darsi da fare   nell”assistenza “umanitaria”. I più “rivoluzionari” si interessano più   al sottoproletariato che al popolo, ai marginali e ai “clandestini” che   alla classe operaia, nella quale non credono più. Il loro errore è di   credere che troveranno una forza rivoluzionaria di ricambio in quelli   che Marcuse chiamava i “sinistrati del progresso”, improbabile categoria   che oggi comprende soprattutto i lavoratori clandestini, il   sottoproletariato, la “feccia” delle periferie e via dicendo. Si tratta   di un grave errore strategico, perché il popolo si sente profondamente   estraneo a questa categoria, di cui spesso condanna nettamente i modi  di  agire (il che si comprende facilmente, dato che ne è la prima  vittima).
Un  errore parallelo è rappresentato dal far consistere  l”azione politica  di sinistra nella difesa e nella promozione di modi  di vita alternativi  difesi dai gruppi ultrafemministi, dagli  omosessuali, dai sostenitori  della depenalizzazione della droga, il che  la riduce al militare per un  “liberalismo culturale” che, col pretesto  di destabilizzare convenzioni e  pregiudizi, esalta nella maniera  “bo[rghese]-bo[hémienne]” ogni sorta  di comportamento marginale, di cui  si impegna a fare altrettante nuove  norme. Questo modo di fare è  l”erede diretto dell”edonismo borghese (che  continua a coesistere con  il borghesismo vecchio stile, austero e  benpensante), se non di un  libertinaggio antisociale che, in quanto  tale, ha sempre profondamente  scioccato la “common decency” popolare.
Il trionfo dell”ideologia neoliberale non è dovuto in gran parte all”assenza di un corpus dottrinario abbastanza consistente che gli si opponga? Su quali basi potrebbe affermarsi un pensiero ribelle?
Ovviamente  le cause di quel “trionfo” dell”ideologia liberale che Lei  richiama  sono molteplici. Una di quelle di cui si parla meno è la  divisione dei  suoi avversari che, prigionieri dell”obsoleta distinzione   destra-sinistra, non riescono a (e assai spesso non vogliono) intavolare   fra di loro un vero dialogo, per non dire poi delle azioni comuni che   essi potrebbero altresì intraprendere. La Forma-Capitale costituisce   oggi il centro del sistema esistente: questa centralità implica l”unione   delle periferie che la considerano il nemico principale. Il   rinnovamento del pensiero critico o “ribelle” è inoltre un”esigenza   assoluta – anche se la questione dell”articolazione fra teoria e prassi   oggi è diventata più complessa che mai. L”obiettivo è fare di tutto per   favorire a tutti i livelli l”autonomia individuale e collettiva nei   confronti della logica mercantile, rimediare allo scollegamento sociale,   riabilitare l”impegno nella vita pubblica e la legittimità di un  grande  progetto di civiltà fondato su valori condivisi e sulla chiara   consapevolezza di un destino comune. Ma nell”immediato la cosa più   importante è sicuramente lottare contro l”idea che non esistano   alternativa all”attuale modello di società, far capire alle persone che   non stanno vivendo sotto l”orizzonte della fatalità. L”ho già detto: la   storia continua ad essere aperta. Il “trionfo” dell”ideologia   neoliberale, nella misura stessa in cui segna un apogeo, può anche   significare l”inizio della fine. Sono sempre stato convinto che il   sistema del denaro sarebbe stato ucciso dal denaro. Naturalmente, questo   non è un buon motivo per limitarsi ad aspettare. L”attesa delle   catastrofi non costituisce un programma. Lo spirito rivoluzionario   consiste nel continuare sempre, costi quel che costi, a fare quel che si   pensa debba essere fatto. 
Tuttavia, oggi incontestabilmente vi è   una certa indifferenza delle classi popolari alla politica, indifferenza   incoraggiata da ogni sorta di fenomeni sociali ben noti (consumo,   televisione, tempo libero ecc.). Questa indifferenza dimostra o che le   classi in questione non si aspettano più niente dalla politica (non ci   credono più), o che esse non considerano la propria condizione sociale   tanto insopportabile da essere spinte a mobilitarsi. Le due ipotesi,   d”altronde, non si escludono vicendevolmente, giacché le classi   popolari, come ho già detto, oscillano frequentemente fra l”accettazione   e l”interiorizzazione del dominio che subiscono e il voto di protesta   che consente loro di manifestare contro di esso in maniera minimale.   Comunque stiano le cose, è certo che le classi popolari sono oggi le   peggio armate per cogliere la sostanza del gioco politico e prendervi   parte, e dunque per conferire ai propri voti una portata conforme alla   razionalità che è loro caratteristica. Cercare di rimediare a questo   stato di cose, dando a questi ambienti non soltanto i mezzi per pesare   sull”azione politica ma anche quelli necessari a dotarsi di un”unità   simbolica che consenta loro di considerarsi una forza collettiva reale   dovrebbe ovviamente essere l”obiettivo di un vero partito popolare.
Fonti: ariannaeditrice.it; opifice.it.
Traduzione a cura del Centro Studi Opifice.
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