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I pericoli della mondializzazione

I pericoli della mondializzazione
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12 Settembre 2011 - 19.05


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malaglobdi Serge Latouche – da “EstOvest“.
«L”anno scorso eravamo sull”orlo del baratro; quest”anno abbiamo fatto un gran passo in avanti.»
Questo sproposito, detto da un ministro algerino qualche anno fa, rivela in pieno lo spirito dell”epoca. La fede nel progresso ci coinvolge al punto da farci diventare inconcepibile il non andare avanti. Così ci ritroviamo a bordo di un bolide, che non ha retromarcia, né freni, né conducente. Non occorre essere profeti per prevedere il futuro di questa megamacchina. Essa può solo fracassarsi contro un muro o sprofondare in un precipizio. Le mucche pazze, le modificazioni genetiche e altri cloni non sono altro che i primi segni della grande implosione. La mondializzazione partecipa pienamente alla natura di questo processo.

Dal mondiale al globale: estensione e storia
La mondializzazione o globalizzazione, come dicono gli anglosassoni, è un concetto alla moda, imposto dalle recenti evoluzioni. Fa parte dello spirito del tempo. In pochi anni, se non in pochi mesi, tutti i problemi sono divenuti globali: la finanza e gli scambi economici anzitutto, ma anche l”ambiente, la tecnica, la comunicazione, la pubblicità, la cultura e persino la politica. Soprattutto negli Stati Uniti, l”aggettivo “globale” è stato all”improvviso affibbiato a tutti questi settori.

Si parla di inquinamenti globali, della televisione globale, della globalizzazione dello spazio politico, della società civile globale, del governo globale, del tecnoglobalismo, ecc.
Non c”è dubbio che il fenomeno nascosto dietro tali parole non è così nuovo come si vuol far credere. Alcune voci profetiche annunciavano già da diversi decenni l”avvento di un “villaggio planetario” (global village). Alcuni specialisti hanno parlato di occidentalizzazione, di uniformazione o di modernizzazione del mondo e gli storici ne hanno scoperto tutti i sintomi dentro evoluzioni di lunga durata.
La mondializzazione, sotto l”apparenza di una constatazione neutra del fenomeno, è anche, invece, uno slogan che incita e orienta ad agire in vista di una trasformazione auspicabile per tutti. La parola d”ordine è stata lanciata dalla Sony, all”inizio degli anni 80, per promuovere i suoi prodotti.
La chiassosa pubblicità, che ha fatto il giro del mondo, mostrava degli adolescenti che pattinavano con il casco in testa e un mini radioregistratore agganciato alla cintura. Il messaggio pubblicitario non si deve adattare alle diverse culture, visto che veicola in se stesso una cultura globale, lanciava una sfida. II nuovo concetto è stato ripreso istintivamente dalle multinazionali e dal governo americano.

http://www.youtube.com/watch?v=lkbzmFC7w4Q
II termine, che non è affatto “innocente”, lascia anzi intendere che ci si trova di fronte ad un processo anonimo e universale benefico per l”umanità e non invece che si è trascinati in una impresa, auspicata da certe persone, per i loro interessi, impresa che presenta rischi enormi e pericoli considerevoli per tutti.
Come il capitale al quale è intimamente legata, la mondializzazione è in realtà un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento nella scala planetaria.

Dietro l”anonimato del processo, ci sono dei beneficiari e delle vittime, i padroni e gli schiavi.
I principali rappresentanti della megamacchina senza volto si chiamano G7, Club de Paris, complesso FMI/Banca Mondiale/OMC, Camera di Commercio Internazionale, forum di Davos, ma vi sono anche delle istituzioni meno note, dalle sigle esoteriche, ma di enorme influenza: il Comitato di Bali per la supervisione bancaria e l”IOSCO (International Organisation of Securities Commissions), che è l”organizzazione internazionale delle Commissioni nazionali emettitrici di titoli obbligatori, l”ISMA (International Securities Market Association), che ha un noto equivalente per i titoli obbligatori, l”ISO (Industrial Standard Organisation), che ha l”incarico di definire gli standard industriali.
Infine, non si possono trascurare le grandi imprese, i grandi uffici di consulenza, i grandi studi legali e le fondazioni private. Società come Price & Watherhouse, Peat Marwick, Ernst & Yung o Arthur Andersen sono protagoniste essenziali della mondializzazione, anche se a prima vista il loro ruolo, come la certificazione della contabilità delle imprese, può apparire puramente tecnico.
È del tutto evidente che, lasciando credere che il fenomeno, buono o cattivo, sia incontrastabile, ci si rende complici del fatto che accada.
Funziona così sempre, da Clinton a Fidel Castro, da Alain Minc a Viviane Forrester.
«La mondializzazione è un fatto e non una scelta politica» -dichiarava Clinton a Ginevra, nel maggio del 1998- «Siamo di fronte a un dilemma: impegnarci a dirigere queste potenti forze di cambiamento nell”interesse dei nostri popoli o trincerarci dietro dei baluardi di protezionismo».
Nello stesso forum dell”OMC, il suo antagonista Fidel Castro dichiarava che si trattava di un fenomeno non aggirabile.
«Gridare abbasso la mondializzazione – ha detto – equivale a gridare abbasso la legge di gravità. Conviene dunque prepararsi e interrogarsi sul tipo di mondializzazione che si impone. Una mondializzazione neo-liberale, molto probabilmente».
Il tecnocrate francese Alain Minc, autore de La mondializzazione felice, si è autoproclamato “arcivescovo del pensiero unico”, mentre Viviane Forrester, autrice de L”orrore economico, invitata al forum di Davos, dichiara:
«La mondializzazione è senza dubbio una cosa positiva
e si prende cura di precisare: «Ma non c”è alcuna ragione per relegarla solo al mondo degli affari e della finanza».
Una volta compreso quello che si nasconde dietro la sua manifestazione, non vi è alcun motivo di ritenere che il fenomeno sia irresistibile e inarginabile.
La mondializzazione non è positiva per tutto il mondo ed è pienamente possibile concepire un altro destino.
Bisogna dunque -come fanno i numerosi contributi di questo libro e, in particolare, quelli della terza parte- tentare di cogliere le caratteristiche dell”attuale forma di mondializzazione, di analizzarne le conseguenze, la mercificazione, e di mettere in chiaro la posta in gioco.

Origine e caratteristiche della nuova mondializzazione
L”idea e una certa realtà del mercato mondiale sono parte intrinseca del capitalismo. Sin dall”origine, il funzionamento del mercato è sopranazionale se non addirittura mondiale. La Lega anseatica, le piazze finanziarie di Genova, di Lione e Besançon, le operazioni commerciali di Venezia e dell”Europa del nord, per non parlare delle grandi fiere (Troyes), sono internazionali, se non mondiali, fin dal XII-XIII secolo.

II trionfo recente del mercato non e altro che il trionfo del tout marché (tutto è mercato). Si tratta dell”ultima metamorfosi di una lunghissima storia mondiale.

La prima mondializzazione porta la data della conquista dell”America, quando l”Occidente prese coscienza della rotondità della terra per scoprirla e imporre le proprie conquiste. Quando, secondo la formula di Paul Valery, «comincia il tempo del mondo finito». Questa prima mondializzazione è stata forse più determinante delle successive. Con la conquista europea delle Americhe, sono stati accelerati gli scambi di piante, di animali, ma anche di malattie.
L”introduzione nel continente di animali d”allevamento, mucche, pecore o del cavallo ha permesso:
– l”occupazione estensiva di immensi territori poco popolati;
– l”inserimento, nei sistemi di produzione dell”America delle cordigliere, del grano, dell”erba medica, ma anche la diffusione del granoturco, della patata, della manioca negli altri continenti;
– la creazione di nuovi sistemi di produzione, come la piantagione coloniale della canna da zucchero, del cacao, poi del caffè e del cotone, con le conseguenze nefaste per le popolazioni africane, fornitrici di manodopera di schiavi;
– la costituzione, sul suolo americano, di una nuova società attorno alla piantagione, con tutte le conseguenze dirette e indirette di un tale processo.

Una seconda mondializzazione risalirebbe alla Conferenza di Berlino e alla spartizione dell”Africa fra il 1885 ed il 1887.

Una terza sarebbe cominciata con la decolonizzazione e l”era degli “sviluppi”.
II fenomeno che è stato definito una «nuova mondializzazione» (la quarta secondo la nostra periodizzazione) comprende, infatti, quattro fenomeni legati tra di loro:

– la transnazionalizzazione delle società;
– l”affievolimento dei controlli statali all”ovest;
– il crollo della pianificazione all”est;
– il dominio della finanza sull”economia.

È necessario dire due parole per comprendere quale sia la posta in gioco.

1. Lo sviluppo del potere delle società multinazionali
Le multinazionali, come il mercato, esistono dalla fine del medioevo. Jacques Coeur, i Fugger, la banca dei Medici, le grandi compagnie delle Indie, per citare solo alcuni fra gli esempi più celebri, sono imprese di commercio impiantate in diversi continenti e il cui traffico commerciale ha come orizzonte il mondo. E, fatto nuovo, a partire dagli anni ”70, non solo si mondializzano sistematicamente il capitale commerciale e bancario, dando origine al mercato finanziario mondiale, ma si mondializza anche il capitale industriale.

Renault fa fabbricare i suoi motori in Spagna. I computer IBM sono fabbricati in Indonesia, montati a Saint Omer, venduti negli Stati Uniti, ecc.
La divisione del lavoro si è internazionalizzata. II processo di fabbricazione si è segmentato.
Le imprese si sono totalmente transnazionalizzate.

2. L”affievolimento dei controlli statali all”ovest
L”affievolimento dei controlli nazionali-statali è alla volta causa ed effetto della transnazionalizzazione. La complicità fra stato e mercato, che si è solidificata nella sua forma più forte con il fenomeno delle economie nazionali, come insiemi interdipendenti di branchie industriali e commerciali, ha conosciuto i suoi anni più belli nel periodo 1945-1975 (Trente glorieuses) e nello stato-provvidenza.

La dinamica del mercato che libera le economie locali e regionali non si ferma eternamente alle frontiere del territorio nazionale. La mondializzazione è l”estensione geografica ineluttabile di una economia sistematicamente strappata (disinserita), fin dal XVIII secolo, dal contesto sociale.
Questa evoluzione, solo in parte irresistibile, e stata accelerata e voluta dai “padroni del mondo” (2000 global leaders che si ritrovano a Davos), che raccomandano instancabilmente le tre “D”: “déréglementation” (liberalizzazione), “désintermédiation” (senza mediazione), “décloisonnement” (soppressione delle barriere). Si giunge, così, allo smantellamento della società salariale.

3. II crollo delle economie socialiste
II crollo delle economie socialiste ha accelerato e rinforzato ulteriormente il processo. “La guerra fredda – scrive con efficacia Dollfus – è terminata nel 1989 con il “KO” tecnico dell”URSS”.

La pianificazione, in fin dei conti, ha avuto il compito storico di uniformare lo spazio all”est e di distruggere qualsiasi specificità culturale che potesse ostacolare il libero gioco delle “forze di mercato”.
C”erano degli scambi, ma non c”era la possibilità di produrre un calcolo che mettesse in relazione le risorse naturali di un immenso territorio e milioni di uomini, in tutti i rami, per tutti i prodotti. Non era possibile acquistare, fabbricare, vendere liberamente né seminare la rovina o la prosperità in funzione di un margine di profitto a volte irrisorio. II socialismo reale significava penuria, mediocrità e tristezza.
Per contrasto, l”economia di mercato sembrava sinonimo di abbondanza e di efficienza. Da qui sono nati il fascino per il modello e la volontà di inserirsi a qualsiasi prezzo nel mercato mondiale.

4. II predominio della finanza sull”economia: i mercati finanziari
In campo finanziario, perfino gli stati, per finanziare il deficit di bilancio, si sono fatti complici della mondializzazione finanziaria, quando non sono diventati gli istigatori coscienti o incoscienti del fenomeno, lanciandosi nella “titolarizzazione” del debito pubblico, cioè offrendolo sui mercati mondiali e, quindi, sottoponendolo alla legge dei fondi di pensione anglo-americani che, con la fine dello stato assistenziale, erano in piena espansione. Tra l”ammontare delle speculazioni finanziarie e le attività di produzione non c”è paragone.Grazie alle nuove tecnologie i mercati finanziari funzionano come fossero una piazza unica, in tempo reale.

«La rotondità della terra interviene nella finanza con un “sole” che non tramonta mai sulla sfera finanziaria nel funzionamento continuo delle borse valori e degli uffici di cambio a secondo della loro posizione sul pianeta».
La liberalizzazione, lo sviluppo dei mercati a termine e l”esplosione dei prodotti derivati fanno sì che gli scambi giornalieri oltrepassino i 1.500 miliardi di dollari ossia il doppio delle riserve monetarie o l”equivalente del Prodotto Nazionale Lordo (PNL) francese.
I movimenti finanziari, nel 1993, hanno raggiunto circa i 150.000 miliardi di dollari, ossia da 58 a 100 volte quelli dei movimenti commerciali annuali. Le economie, in particolare quelle del terzo mondo, si trovano così alla mercé delle fluttuazioni dei mercati finanziari.
L”insieme intercollegato della mondializzazione del commercio, della mondializzazione della finanza e della mondializzazione dell”industria provoca la formazione di piazze offshore (deterritorializzate). Un sistema economico universale, totalmente sradicato, senza legami privilegiati con un luogo particolare, ma che mette antenne ovunque, è già più o meno in atto.

L”economicizzazione del mondo
La mondializzazione dell”economia, tuttavia, non si realizza pienamente se non con il raggiungimento del fenomeno speculare, l”economicizzazione del mondo, cioè la trasformazione di tutti gli aspetti della vita in questioni economiche, se non addirittura in mercanzie. Nella sua forma più significativa, essendo economica, la mondializzazione è di fatto tecnologica e culturale, e comprende pienamente la totalità della vita del pianeta. La politica, in particolare, si trova completamente assorbita dall”economia. La globalizzazione, che la si consideri auspicabile o meno, è tutt”altra cosa dell”estensione a tutte le persone dei valori universali di emancipazione espressi dai Lumieres (pensatori del secolo dei lumi). Si considera, invece, come già vinta la scommessa che la democrazia, i diritti dell”uomo, la fratellanza planetaria seguiranno la scia tracciata dal mercato mentre, un poco di più ogni giorno, l”esperienza ci dimostra il contrario.

L”universalizzazione del mercato non costituisce una novità se non per l”ampliamento del suo spazio. Si avanza così verso la commercializzazione integrale.
L”economicizzazione del mondo si manifesta nel cambiamento delle mentalità e negli effetti pratici. Nell”immaginario, è il trionfo del pensiero unico; nella vita quotidiana, è l”onnicommercializzazione.

Il trionfo del pensiero unico
L”espressione “pensiero unico” è una metafora piuttosto felice per definire il regno quasi incontrastato di una concezione del mondo fondata sul liberalismo economico più stretto.Già da qualche tempo, si parlava di “mondo unico” (one world, un solo mondo).«Non è il pensiero che è unico, ma è la realtà che è unica»,dichiarava in un dibattito il tecnocrate liberale Alain Minc, che, nella sua recente opera, La mondialisation heureuse (La mondializzazione felice), si è autoproclamato «arcivescovo del pensiero unico». II pensiero unico è, infatti, il pensiero di un mondo unificato, di una umanità senz”altra prospettiva che l”apoteosi del mercato.

La fine delle illusioni del socialismo reale ha segnato la fine delle concezioni di un mondo in sé diverso. L”economicismo e l”utilitarismo regnavano praticamente incontrastati a Est come a Ovest, da Nord a Sud, ma non lo si vedeva e non lo si voleva vedere. Le varianti nelle forme si radicavano in sopravvivenze politiche e culturali incontestabili e in meticciati intellettuali equivoci.
II trionfo della società di mercato ha fatto svanire le velleità di pluralismo. Si impongono sempre più il vangelo della competitività, l”integralismo ultraliberale e il dogma dell”armonia naturale degli interessi.

E ciò a dispetto dell”orrore planetario generato dalla guerra economica mondiale e dal saccheggio spudorato della natura. II fondamentalismo economico, già integralmente presente in Adam Smith, si impone quindi senza rivali, perché corrisponde allo spirito del tempo, che abita l”uomo unidimensionale.
Questa vera controrivoluzione culturale ha sorpreso solo i suoi avversari, in particolare una sinistra social-democratica e marxista europea, sopita dall”idea consolante che il capitalismo selvaggio e cosmopolita era stato messo nel ripostiglio degli accessori. Gli spiriti progressisti si sentono ormai tacciati di arcaismo, con l”astuzia e l”ironia della storia, dai giovani lupi di un liberalismo puro e duro, che ci riportano allegramente indietro di cent”anni, ai bei vecchi tempi dello sfruttamento sanguinario del XIX secolo, e tutto ciò, per di più, nel nome della marcia ineluttabile dell”umanità verso una maggiore libertà e una maggiore unità.
«Resistere alla globalizzazione, proporre il nazionalismo economico, significa condannare una società ad arretrare verso una sorta di preistoria» dichiara Mario Vargas Llosa, il cantore prestigioso di questa progressione ambigua.
Lo spettro che ossessiona ormai il mondo non e più il comunismo del 1848, bensì il liberalismo del 1776.
Questa restaurazione, che ha sorpreso gli ambienti europei avanzati, è stata preparata da lungo tempo nei dipartimenti di economia delle università americane. A Chicago, soprattutto attorno ai vecchi Milton Friedman e Gary Becker, i vinti dalle teorie di Keynes hanno sapientemente tramato una clamorosa rivincita, moltiplicando le invocazioni ai “manifesti” di Ludwig von Mises, di Friederich Hayek e di Karl Popper.
Progressivamente, hanno popolato con le loro creature i consigli economici dei presidenti degli Stati Uniti, gli staffs della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Essi hanno sfornato esperti nel terzo mondo e nell”ex secondo mondo, dal Cile di Pinochet alla Russia di Boris Eltsin.
Progressivamente, sono riusciti a colonizzare quasi tutte le facoltà di Economia del pianeta (e, naturalmente, anche le Business School…), a intrecciare rapporti di complicità persino all”interno delle équipe governative o di opposizione social-democratiche, se non addirittura negli ultimi fossili del comunismo. Infine, (chi l”avrebbe mai detto?) ricevendo un rinforzo, tanto potente quanto inatteso, dalle sette protestanti pentecostali o neo-pentecostali che proliferano nell”Africa nera e nell”America Latina, sono riusciti a sedurre persino una parte importante delle opinioni di un terzo mondo che sembrava definitivamente votato a differenti forme di anti-capitaIismo e di anti-imperialismo.
Per inciso, questi risuscitati del liberalismo sono riusciti a convertire qualche importante figura di grandi intellettuali delusi dal populismo e, giustamente, assai scoraggiati dai pasticci del socialismo reale, come Mario Vargas Llosa. Perso il senso critico e la meravigliosa acutezza del suo sguardo, questo neofita dichiara:
«La generale internazionalizzazione della vita è, forse, quanto di meglio è accaduto al mondo fino a oggi».
Non v”è dubbio che la dilagante reazione non sarebbe stata possibile senza la crescita del potere dei «nuovi padroni del mondo», le società transnazionali, per le quali la concorrenza e il mercato mondiale costituiscono un modo abile per imporre la loro legge di monopolio.

L”onnimercantilizzazione
Tuttavia, la mondializzazione senza precedenti dei mercati non ha ancora realizzato il mercato integrale. Si designa così il grande meccanismo autoregolatore che prende a carico la totalità del legame sociale, dalla nascita alla morte, degli atomi individui.

Secondo gli economisti ultraliberali:
«Tutto ciò che è oggetto di desiderio umano è candidato allo scambio. In altre parole, la teoria economica, in quanto tale, non fissa alcun limite all”impero del mercato».
La mercantilizzazione deve quindi penetrare tutti gli angoli della vita e del pianeta. II trionfo della libertà, della libera intesa degli individui, obbedendo al loro calcolo di ottimizzazione, trasformando ogni individuo in imprenditore e in mercante, sta per diventare la legge, l”unica legge di un anarcocapitalismo (termine adottato da alcuni ideologi per designare il sogno di un”economia senza stato) totale e ideale.
«La scienza economica -dichiara il premio Nobel dell”economia Garry Becker- entra nella terza età. In un primo tempo, si riteneva che l”economia si limitasse allo studio dei meccanismi di produzione di beni materiali e non andasse oltre (teoria tradizionale dei mercati). In un secondo momento, l”ambito della teoria economica è stata estesa agli insiemi dei fenomeni mercantili, cioè che danno luogo a rapporti di scambio monetario. Oggi, il campo dell”analisi economica si estende all”insieme dei comportamenti umani e delle decisioni a esse associate. [… È ciò che si chiama] l”economia generalizzata».
La fede nell”autoregolazione del mercato porta logicamente a volere sostituire con il mercato qualsiasi altro meccanismo di regolazione, sia essa statale, familiare, etica, religiosa o culturale. Lo scambio commerciale transnazionale diventa così l”unica base del legame sociale e l”Uruguay round assume, quindi, tutt”altro significato. Si tratta, infatti, di una tappa importante nel processo di onnimercantilizzazione del mondo.
La globalizzazione designa anche questa inaudita avanzata nella onnimercantilizzazione del mondo.
I beni e i servizi, il lavoro, la terra e, domani, il corpo, gli organi, il sangue, lo sperma, l”utero in prestito, i geni vegetali, animali, umani e gli organismi manipolati geneticamente entrano nel circuito commerciale. Già d”ora, i servizi, la banca, la medicina, il turismo, i mezzi di comunicazione, l”insegnamento, la giustizia diventano transnazionali. Ai rappresentanti dei poteri pubblici americani in tutto il mondo, nella scia delle grandi manovre per il controllo del mercato delle autostrade dell”informazione, è stato ordinato di prestare manforte ai giganti dei multimedia, esigendo che i “prodotti” culturali vengano trattati come mercanzie, “alla stregua delle altre” mercanzie e le eccezioni culturali come fossero un banale e nocivo protezionismo, quando l”80% del mercato è già nelle mani delle ditte americane.
Il mercato mondiale attuale, a differenza delle vecchie “piazze mercato”, luoghi concreti di città e di paesi, dove venivano scambiate le mercanzie tradizionali, realizza l”interdipendenza di diversi mercati. Esso mette in comunicazione più o meno stretta i mercati dei beni, i mercati dei servizi, i produttori e i mercati di capitali.

La posta in gioco
La mercantilizzazione del mondo distrugge lo stato-nazione e svuota la politica della sua sostanza, accumula minacce enormi sull”ambiente, corrompe l”etica e distrugge le culture.

1. La mondializzazione distrugge lo stato-nazione
L”anarchia commerciale, auspicata e salutata da alcuni come il trionfo della civiltà, genera l”esclusione economica e il caos politico e sociale.

2. La mondializzazione distrugge la politica
La scomparsa della politica come istanza autonoma, il suo assorbimento nell”economia risuscita lo stato di guerra del “tutti contro tutti”; la competizione e la concorrenza, leggi dell”economia, diventano, ipso facto, legge della politica.

«Si può ancora parlare di democrazia quando la maggioranza dei cittadini non riesce più a distinguere le tesi dell”opposizione dalle tesi del potere?», scriveva Claude Julien già nel 1972.
«La democrazia viene ferita nel suo principio quando la maggioranza dell”opinione pubblica è persuasa di non potere indirizzare la politica del governo».
Questa situazione deriva dalle numerose costrizioni che influiscono sulla situazione attuale, all”insaputa degli uomini politici e delle forze politiche.

3. La mondializzazione minaccia l”ambiente
II problema ecologico consiste essenzialmente nel fatto che l”ambiente si colloca al di fuori della sfera degli scambi commerciali e, quindi, che nessun meccanismo di controllo si oppone alla sua distruzione. La concorrenza e il mercato, per fornirci il cibo alle migliori condizioni, generano effetti disastrosi sull”ambiente. Nulla limita il saccheggio delle ricchezze naturali la cui gratuità permette di abbassare i costi.

L”ordine naturale non ha salvato né il dodo dell”isola Maurizio o le balene blu, ma neanche i fueghini (gli abitanti della Terra del Fuoco). II saccheggio dei fondali marini e delle risorse ittiche sembra irreversibile. Lo spreco dei minerali prosegue in modo irresponsabile. I cercatori d”oro individuali, come i garimpeiros dell”Amazzonia o le grandi società australiane in Nuova Guinea, non arretrano davanti a nulla pur di procurarsi l”oggetto della loro cupidigia.
Ora, nel nostro sistema, ogni capitalista, come ogni homo oeconomicus, è una specie di cercatore d”oro. Lo sfruttamento della natura, poi, non è meno violento né meno pericoloso quando si tratta di rifilare la nostra spazzatura ed i nostri rifiuti nella stessa natura-pattumiera.

4. La mondializzazione distrugge l”etica
La cosiddetta deontologia degli affari e dell”etica di mercato sono fandonie. L”imbroglio è la regola, l”onestà l”eccezione.

Tutti i mezzi, compresi i più abietti, vengono utilizzati quando è in gioco “la grana”: il dumping (vendita sottocosto di merce), la manipolazione dei prezzi, lo spionaggio industriale, le OPA (offerte pubbliche di acquisto) selvagge, le stock options, l”utilizzo dei paradisi fiscali, veri covi di pirati. Le isole Cayman ospitano 25.000 società! I sudditi imitano i padroni; la frode fiscale diventa uno sport generalizzato, lo sport un mercato corrotto, le deontologie professionali sono ridotte a specie in via di estinzione.
«A quota 8.000, non ci si può permettere di avere preoccupazioni morali», ha dichiarato un alpinista giapponese che si rifiutò di portare soccorso a dei concorrenti indiani in difficoltà.
Negli affari, sicuramente, esiste una quota simile in dollari.

5. La mondializzazione distrugge la cultura
L”imperialismo economico e l”imperialismo dell”economia, che caratterizzano la modernità, hanno ridotto la cultura a folclore e l”hanno relegata nei musei. Megamacchina tecno-economica, anonima e ormai senza volto, l”Occidente sostituisce, nel proprio seno, la cultura con un meccanismo che funziona per l”esclusione e non per l”integrazione dei suoi membri; ai margini, alla sua periferia, corrode le altre culture e, nella sua dinamica conquistatrice, le schiaccia come un rullo compressore.

«La mondializzazione -scrive Vandana Shiva- non reca la fertilizzazione incrociata di società diverse, ma l”imposizione ad altri di una cultura particolare».
L”imperialismo culturale conduce assai spesso a sostituire l”antica ricchezza con un tragico vuoto. Per questo motivo si parla, a proposito dei paesi del Sud, di una «cultura del vuoto». Purtroppo, il vuoto di questa modernità bastarda e disinibita è disponibile per nutrire i progetti più deliranti.
L”integrazione astratta dell”umanità nel tecnocosmo, operata dal mercato mondiale, dall”onnimercantilizzazione del mondo e la concorrenza generalizzata avvengono a prezzo di una brutale desocializzazione, della decomposizione del legame sociale, a dispetto del mito della “mano invisibile” caro agli economisti. Alla decomposizione sociale e politica del Nord corrisponde la deculturazione del Sud. Questa è ancora più drammatica poiché, se in certa misura il Nord funziona ancora come “élite planetaria”, al Sud, come unica ricchezza, non rimane spesso che la sua cultura o quello che ne resta.
Di conseguenza, la cultura scacciata ritorna ovunque, a volte, sotto le forme più perniciose. In assenza di uno spazio necessario e di un legittimo riconoscimento, essa ritorna in maniera esplosiva, pericolosa o violenta.
Si possono distinguere due aspetti di questo “ritorno del respinto”: l”esplosione identitaria e la rimonta degli integralismi religiosi.
La prima si traduce nel frazionamento etnonazionalista con il suo corollario di pulizia etnica, di pratiche genocide e il terrorismo dell”identità chiusa. Basta osservare quello che accade dal Kossovo al Ruanda ma, anche, in modo relativamente meno violento, in Corsica, nel Quebec o nella Padania…
La seconda si evidenzia soprattutto con l”islamismo e le sue deviazioni criminali o terroriste in Algeria, ma anche in Iran, nel Sudan, in Afghanistan, in attesa di nuovi numerosi candidati, senza dimenticare gli altri integralismi: indù, cristiani, e anche buddhisti.

Quale speranza?
Allora, quale speranza? Non si ritorna alle culture perdute. Si tratta piuttosto di costruire una post-modernità, tramite una Aufhebung hegeliana della modernità, tramite il superamento critico, che non neghi il passato modernista e razionalista.

Questa post-modernità non può essere che la reintegrazione, il reinserimento della tecnica e dell”economia nel sociale.
Essa costituirà l”emergere di una nuova cultura, della rinascita della politica, di nuovi rapporti con l”ambiente, di una nuova etica. La nuova cultura, tuttavia, sarà il risultato di un lavoro storico e non il frutto di un volontarismo “tecnocrate”, sia che si tratti di un tecnocratismo populista, nazionalista, teocratico, sia che lo si definisca o si autodefinisca di destra o di sinistra, reazionario o rivoluzionario.
Le speranze di ricomposizione del tessuto sociale possono venire solo dal reinserimento dell”economico nel sociale, in un ri-radicamento locale. Tutta la quarta parte del libro è dedicata a questo argomento.
Questo ri-radicamento lo si può vedere all”opera nella dinamica di sopravvivenza di alcuni emarginati al Nord e al Sud. Al Nord, l”autorganizzazione è in marcia nei vari gruppi dei minoritari, che si rifiutano di arrendersi.
La dissidenza è unita a una forte resistenza. L”esperienza dei LETS anglosassoni, dei Sels francesi o delle “banche del tempo” italiane è particolarmente interessante, perché si assiste alla scoperta e alla ricostruzione del legame sociale alla base.
Al Sud, questa autorganizzazione spesso massiccia e forzosa intraprende più la via della dissidenza che quella della resistenza. In certi isolotti dell”informale, in cui vivono i “naufraghi dello sviluppo”, e nell”altra Africa si assiste a una vera e propria invenzione storica.
L”adattamento creativo si manifesta ad ogni livello: immaginario, tecno-economico e, soprattutto, sociale. Vi è dunque motivo, seguendo la celebre formula di Gramsci, per temperare il pessimismo della ragione con l”ottimismo del cuore.

Da EstOvest.

 Tratto da: http://www.movimentozero.org/index.php?option=com_content&task=view&id=383&Itemid=53.

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