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Crescita e decrescita

Crescita e decrescita
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9 Ottobre 2012 - 18.14


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crescitadecrescita 20121009

di Giovanni Badoer

Nel suo contributo “Saper camminare con il passo dell”uomo“, Giulietto Chiesa pone alcune delle questioni più cruciali di questa complessa fase politica e sociale.

Credo che Chiesa riesca molto bene a porre in evidenza la confusione concettuale e i vecchi schemi mentali entro cui si sviluppa il dibattito sull”antinomia crescita/decrescita, sempre ammesso che un simile dibattito davvero esista. È effettivamente sconcertante notare come i vecchi dogmi delle “tonnellate di acciaio” siano ancora presenti, come un percettibilissimo rumore di fondo, nelle argomentazioni lambiccate e barocche di quegli economisti e intellettuali che parlano o si interessano dei “limiti dello sviluppo” solo per costrizione e non per convinzione.

D”altro canto, è non meno deprimente la visione del fronte opposto. Il Club di Roma ha pubblicato il suo celeberrimo rapporto ormai quarant”anni fa. Da allora a oggi, quelle idee hanno prodotto, mi si perdoni la ruvidità, poche cose, ma ben confuse.

A cominciare dal nome.

“Decrescita” assomiglia molto, troppo, a una di quelle odiose formule del politically correct che, dietro una espressione verbale incomprensibile, o assurda, cela una realtà troppo brutta per essere chiamata col suo nome. Possiamo dire “diversamente vedente” finchè ci pare: significa “cieco”, e null”altro. Del pari, possiamo dire “decrescita”, ma significa “calo”. Ci piaccia o non ci piaccia. Vorrei tranquillizzare tutti. Ho letto i testi di riferimento, e credo di sapere con quali argomentazioni si cerchi di indorare la pillola, sostenendo che non di calo si tratterebbe, ma appunto di “decrescita”. La si definisce persino “felice”, chiaro esempio di excusatio non paetita, e ulteriore contributo alla confusione lessicale. Salvo poi dover ammettere fra i denti, come crudamente scritto da Chiesa, che in fin dei conti di calo si tratta, con tutto cio” che ne consegue.

Ebbene, vorrei dissociarmi da questa visione cupa e soffocante. Credo, umilmente, che i ragionamenti apparentemente semplici funzionino quasi mai in politica. Si dice: in un mondo finito non ci può essere una crescita infinita. Questa apparente tautologia è basata su un fraintendimento che, a mio avviso, rimanda al famoso rumore di fondo delle “tonnellate di acciaio”. La “crescita” non deve essere intesa come crescita quantitativa, ma come crescita qualitativa. E allora si vedrà bene come la tautologia diventi immediatamente una affermazione falsa. Lo sviluppo della tecnologia, essendo un processo umano di elaborazione intellettuale è, per definizione, infinito. Nel senso che l”uomo non smetterà mai di pensare, di interrogarsi sui problemi, e di sperimentare nuove soluzioni. La differenza col passato, in un mondo sull”orlo della catastrofe ambientale, alimentare, produttiva, demografica, è che non dobbiamo produrre più” “tonnellate di acciaio”, ma meglio. Impiegando costantemente meno risorse per ottenere lo stesso valore.

Esiste un concetto, forse non sufficientemente elaborato dai nostri amici economisti ed econometristi, che potremmo definire “efficienza economica nazionale”. È l”indicatore che ci dice quale sia, per una data nazione, il rapporto tra uso di risorse e produzione. Se riuscissimo a ridurre l”intero insieme delle risorse (energia, metalli, cibo ecc) a “tonnellate di petrolio equivalenti” (TPE), potremmo vedere come il paese A bruci 10 TPE ogni 100 euro di produzione, e il paese B ne bruci invece 30 per ottenere lo stesso valore di produzione. Ristrutturando i sistemi produttivi sulla base di questo indicatore potremmo allontanare il “limite dello sviluppo” in un punto indeterminato del futuro. Specialmente se tratteremo la questione demografica con la dovuta attenzione, lasciando cioè che la naturale evoluzione culturale faccia il suo corso, che vede per fortuna una costante riduzione del numero di figli per donna. Per fortuna, perché diminuisce la pressione ecologica, e perché libera la donna dal ruolo di mera fattrice, consentendole di partecipare in pieno al progresso della società. Specialmente in un mondo teso all”efficienza e all”affinamento tecnologico, ci sarà bisogno di tutti i cervelli, e la liberazione della donna, già avvenuta nelle società avanzate, non potrà che accrescere, enormemente, il potenziale intellettivo effettivamente a disposizione dell”umanità.

Non stupisce che gli economisti neoclassici e i loro mandanti, ossia le élites, si disinteressino totalmente dell”efficienza economica nazionale. L”inefficienza, infatti, produce danni collaterali che diventano il migliore alibi per la distribuzione ineguale della produzione: “dove andremmo a finire se viaggiassimo tutti coi SUV?”. Il corollario peloso è che certi lussi è meglio che siano appannaggio di una cerchia ristretta, l”élite appunto, altrimenti chissà cosa ne sarebbe della vita sulla Terra. Questa giustificazione classista, quando esportata a livello internazionale, aggiunge un retrogusto razzista al suo già stomachevole sapore: non c”è nemmeno bisogno di citare tutti i luoghi comuni sui disastri ambientali che il maggior benessere del consumatore cinese sta provocando, come se “loro” non avessero diritto a quel che abbiamo “noi”. E qui, purtroppo, si nota, una volta di più, una sorta di incesto intellettuale tra gli economisti neoclassici e i teorici del calo. Alla fin fine, le ragioni cogenti da loro addotte sono esattamente le stesse, solo le argomentazioni sono un po” più raffinate e politicamente corrette. Ma la soluzione, che a dire il vero non viene mai troppo esplicitata nei suoi precisi connotati, è ancora più agghiacciante di quella elitista: in futuro saremo noi a vivere come le popolazioni del Terzo Mondo. Bene, io non so se davvero tutti quelli che propongono simili scenari, in buona fede ovviamente, siano mai vissuti nel Terzo Mondo. Io l”ho dovuto fare per lavoro. È orribile. Semplicemente. Chi propone esplicitamente o implicitamente queste cose vada pure per la sua strada, ma non si stupisca se nessuno lo seguirà.

Crescita, progresso, sviluppo. Non sono parolacce. Se bene intese, se legate all”efficienza e alla tecnologia, sono parole bellissime. Regalarle agli economisti neoclassici, ai nipotini di Von Hayek che hanno già fatto troppi danni, sarebbe un autentico crimine. Dire che la crescita produce inquinamento e dunque è il male dimostra solo che ci si è fatti mettere nel sacco dalle argomentazioni speciose delle élites. La crescita efficiente diminuisce l”inquinamento, gli sprechi, i circoli viziosi, e rende possibile la più larga condivisione dei frutti della più nobile attività umana, che è la speculazione ingegnosa. Chi si rinchiude nei propri dogmi, e ci sciorina davanti un futuro di miseria, malattie, sete, fame fa, nel migliore dei casi, pseudo-radicalismo accademico, quando non vero e proprio luddismo. Scuotiamoci da questa apatia ideale e ideologica. Non è certo con questo atteggiamento che chi ci ha preceduto ha fatto i grandi progressi sociali e economici del Novecento.

Io vorrei l”Italia che non ci hanno mai lasciato avere, l”Italia di Antonio Gramsci e di Enrico Mattei. Sì. Non c”è nulla di anacronistico nell”ammirare l”epopea dell”ENI: era, ai suoi tempi, un chiaro esempio di efficienza, di ricerca tecnologica, di radicale miglioramento del tenore di vita di tutte e di tutti.

Credo, insomma, che la “politica del calo” sia la versione in prosa della “politica dei sacrifici” che, come noto, è il solo ed esclusivo programma politico che le élites abbiano propinato ai cittadini, non solo italiani, a far data dalla metà degli anni Settanta. Che poi i sacrifici li si giustifichi con l”untuoso determinismo dei “tecnici”, oppure col presunto e sofferto buon senso della “decrescita”, non cambia granchè. Alla fine, si getta sempre in faccia ai cittadini la sacra parola d”ordine della demoralizzazione e del disfattismo di classe: there is no alternative!

Chi ha scelto la parola “alternativa” come propria etichetta non può sottoscrivere, di fatto, il suo contrario.

 

(9 ottobre 2012)



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