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Più deficit per la piena occupazione

Solo con più spesa pubblica può ripartire la domanda: quel che han fatto Usa e Cina, e ciò che l’Europa ostinatamente non vuol fare, autocondannandosi al declino [A. Terzi]

Più deficit per la piena occupazione
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23 Aprile 2014 - 23.30


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di Andrea Terzi*

Sembra che nel dichiarare guerra alla disoccupazione il governo
italiano abbia finalmente preso atto di una semplice verità: i posti di
lavoro sono scomparsi perché il fatturato delle imprese è crollato – e
senza domanda, non c’è lavoro. Da qui nasce il provvedimento che riduce
il prelievo fiscale sui lavoratori dipendenti per dare una mano alla
ripresa dei consumi. Renzi avrebbe preferito poterlo fare senza vincoli
sul rapporto deficit/Pil, ma dovrà rassegnarsi a farlo tagliando
contestualmente la spesa pubblica. Dovrà insomma trovare risparmi di
spesa sufficienti a finanziare la perdita stimata del gettito. Come ha ribadito il ministro Padoan, “tagli permanenti di tasse saranno finanziati da tagli permanenti di spesa”.

Non serve la sfera di cristallo per prevedere gli effetti
strettamente legati a questa manovra. Molto semplicemente, qualcuno in
Italia starà meglio e qualcun altro starà peggio. La riduzione della
spesa (buona o cattiva che sia) comprime immediatamente redditi e
risparmi del settore privato. D’altro canto, la riduzione dell’Irpef
lascerà nelle tasche di qualcun altro più reddito e più risparmio.
Crescerà la domanda interna? Poco o nulla. E anzi calerà, se una fetta
di quel reddito redistribuito ai lavoratori dipendenti non dovesse
essere spesa.

Sarebbe più efficace questa manovra se Renzi potesse sforare i limiti
imposti dalle regole comuni sul disavanzo? Sì, ma solo marginalmente.
Perché se i risparmi creati dalla riduzione fiscale saranno spesi in
merci tedesche, crescerà il Pil della Germania e l’Italia si ritroverà
presto col rapporto deficit/Pil di nuovo in allarme rosso.

Insomma, a parte i comprensibili obiettivi elettorali, l’impostazione
del governo italiano sembra ancora legata a una visione del problema
della disoccupazione che non va oltre il proprio orticello. E in questo
Renzi in Europa è in buona compagnia. L’auspicio rimane quello che i
leader europei (Renzi compreso) si muniscano di una lente con una focale
diversa, in grado di abbracciare la questione complessiva dell’Eurozona
(e dell’Unione Europea). Vediamo perché.

Come spiego in Salviamo l’Europa dall’austerità (Vita e Pensiero, 2014, pp.104, €10,00; E-book €6,99),
il denaro in circolazione nell’economia può crescere solo in tre modi:

1) quando il settore privato aumenta il proprio debito con le banche;

2)
quando il settore estero spende per i nostri prodotti più di quanto noi
spendiamo per i prodotti esteri;

3) quando il settore pubblico spende
di più di quanto incassa in forma di imposte.

Fin qui la logica
macroeconomica.

Ora, nel caso europeo, quale fra queste è la strada più
efficace?

L’opzione 1 (più credito bancario) non è realistica e la Bce non può
fare quasi nulla: se la domanda è depressa, le imprese non investono, né
le banche sono propense a rischiare. Tassi negativi e QE sono solo
palliativi.

L’opzione 2 (più export) non è realistica nemmeno se la Bce riuscisse
(e non è detto) a far scendere un po’ il valore dell’euro: non
basterebbe a restituire quei sette milioni di posti di lavoro che
mancano all’appello dal 2008, per non parlare dei 19 milioni di posti di
lavoro che mancano complessivamente nell’Eurozona. Si dice: ma se
fossimo tutti competitivi come la Germania? È la ricetta del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem.
E non si sa se ridere o preoccuparsi (più la seconda). Significherebbe
accontentarsi di prezzi più bassi per portar via fatturato agli altri,
allargando a tutta l’Europa quella stessa strategia che la Germania ha
potuto realizzare solo grazie al fatto che qualcun altro, altrove in
Europa o nel mondo, alimentava il fatturato delle proprie imprese.

L’opzione 3 (più disavanzo pubblico) è il motore delle altre due, ed è
il vero ed unico carburante della domanda. È quello che è venuto
drammaticamente a mancare nel 2008. È quello che gli Stati Uniti hanno
impiegato, pur col contagocce, per uscire dalla recessione. È quello di
cui la Cina si è servita, in dosi massicce, per evitare la recessione
globale. Ed è quello che l’Europa ostinatamente si rifiuta di impiegare,
autocondannandosi al declino.

In Europa, prevale la convinzione (infondata) per cui il disavanzo
pubblico è una sorta di “ripiego”, di “droga” da cui è bene stare alla
larga pena l’assuefazione, l’inflazione o un’altra crisi finanziaria. Un
punto di vista sbagliato che non tiene conto del fatto che la fonte
ultima di denaro in circolazione nelle economie monetarie contemporanee è
la spesa del settore pubblico che eccede gli introiti fiscali. Le
uniche alternative possibili sono: portar via carburante agli altri
importando meno di quanto esportiamo, oppure aumentare la resa del
motore facendo crescere l’esposizione del settore bancario. Quanto alla
politica monetaria, questa può assicurare stabilità alle banche e ai
mercati rifornendoli di liquidità, ma si tratta pur sempre dell’olio che
lubrifica il motore, non del carburante che lo fa girare.

Per l’Europa, insomma, si tratta di una scelta obbligata. Ma come
lasciar crescere il disavanzo pubblico europeo in maniera economicamente
e politicamente equilibrata?

Non certo concedendo a questo o a quel paese di sforare il tetto
nazionale consentito. Dobbiamo smetterla di pensare all’economia
italiana in contrapposizione alle economie degli altri paesi (e questo
vale anche per i tedeschi, per i francesi, ecc. ecc.). È da questo vizio
di fondo che discende una visione distorta della politica economica che
certo non aiuta a sgarbugliare il filo della matassa. La moneta è
unica, e il denaro circola liberamente nell’Eurozona.

Così come non sembra politicamente intelligente chiedere, come ha
fatto Obama, che i paesi coi deficit pubblici più piccoli mettano a
repentaglio le proprie finanze pubbliche per aiutare gli altri. Né
possiamo accontentarci delle parole che Draghi pronuncia una volta al
mese ripetendo che il risanamento delle banche e delle finanze pubbliche
farà crescere la fiducia. Nemmeno i ricercatori più attenti della Bce
ci credono, visto che alcuni di loro hanno scritto che la devastante
crisi tedesca del 1931 fu causata dall’austerità.

E allora l’obiettivo deve essere, come spiego nel libro, quello di
creare un “disavanzo pubblico europeo” finalizzato alla piena
occupazione. Risolverebbe molti problemi assieme: dal rispetto dei
vincoli nazionali, allo spread, al rilancio del credito bancario. È
insomma indispensabile, e drammaticamente urgente, studiare una
soluzione condivisa.

*Andrea Terzi è professore di Economia alla Franklin University
Switzerland ed è Research Associate del Levy Economics Institute. E’
membro esterno del dipartimento di Economia e Finanza dell’Università
Cattolica ed è co-autore di “Euroland and the World Economy: Global
Player or Global Drag?” (Palgrave Macmillan, 2007), autore di “La
Moneta” (il Mulino, 2002) e di “Salviamo l’Europa dall’austerità” (Vita e
Pensiero, 2014)

da Sbilanciamoci.info

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