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'La decrescita non è un''alternativa'

La decrescita è un fatto che non ci chiede se ci piace o meno ma ci domanda come viverci assieme, poiché siamo già in decrescita, da decenni. [Pierluigi Fagan]

'La decrescita non è un''alternativa'
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24 Giugno 2014 - 10.31


ATF

“‘Tis the time’s plague when madmen lead the blind.”.

William Shakespeare, King Lear (Atto IV°, scena prima)

 

di Pierluigi Fagan.

Le opinioni ed il dibattito su quel composito mondo di stimoli ed idee che cade sotto il termine –decrescita-,
parte da un assunto. Questo assunto risale al momento nel quale questo
termine ed il successivo movimento di idee che lo seguì, nacque.

Eravamo ai primi degli anni ’70 e a cominciare dall’economista franco-rumeno Nicholas Georgescu Roegen, ma in contemporanea nel movimento dell’ecologismo scientifico e nelle analisi del Club of Rome,
nonché in certa cultura sistemica, si prese coscienza del semplice
fatto che una crescita infinita (modello economico dominante) in un
ambito finito (pianeta), era impossibile. Prima che impossibile era
assai dannoso per le retroazioni che si sarebbero innescate sia in
termini ecologici, sia negli stessi termini economici termini che
avrebbero portato con loro, pesanti conseguenze sociali, alimentari,
sanitarie, culturali, geopolitiche, paventando la formazione di chiari
presupposti catastrofici. L’intuizione della decrescita, una sorta di
cassandrismo destinato come tutti i cassandrismi a risultare antipatico e
sospetto di eccesso paranoide, nasceva quindi da uno sguardo in
prospettiva e nasceva proprio nel momento in cui la società della
crescita era al culmine dei suoi gloriosi trenta anni di galoppata.
Messa così, la questione si presentava come una opzione, la fatidica
alternativa volontaria di una uscita ordinata da un sistema economico
che non poteva esser inteso come un “pasto gratis”. Era un pasto, ma non
era gratis poiché aveva appunto dei costi. Non solo quelli sociali ben
noti all’analisi marxista, ma anche quelli bio-ambientali che rispetto
ai primi, hanno l’urgenza primaria che gli deriva da essere della
categoria a cui siamo tutti iscritti, al di là del genere,
dell’anagrafe, dell’etnia e della classe: il biologico.

Bene o male, la questione è ancora così
intesa. Dai detrattori che rimangono addirittura divertiti
dall’impresentabilità concettuale di quella pattuglia eretica che
annovera assieme a vegani-animalisti-abbracciatori di alberi anche
anti-moderni con ex-marxisti, eco-olisti con natural-sofisti, sistemici
non conformisti e qualche professore universitario eterodosso. Ma anche
dalla stessa variegata pattuglia dei supporter che si riunisce
politicamente a fatica solo intorno ad una specie di teologia negativa,
lì dove è incerto di dire sì a cosa perché è chiaro solo l’accordo sul
no.

Quella che vorremmo proporre è
una riflessione che faccia il punto a più di quaranta anni
dall’emersione dell’idea, sul suo statuto: la decrescita è davvero una alternativa? Secondo noi, no.
Non crediamo sia una alternativa ma un fatto. Un fatto che non ci pone
la domanda se ci piace o meno ma che ci pone la domanda su come viverci
assieme, poiché siamo già in decrescita, da decenni.

Nei primissimi anni ’70, accaddero quattro fatti:  

1) Uscì The Entropy Law and the Economic Process di Georgescu Roegen (1971);  

2) Uscì il Rapporto del Club of Rome curato degli studiosi del M.I.T. (1972);  

3)
L’allora presidente degli Stati Uniti d’America Richard Nixon comunicò la
sera di un 15 Agosto (1971), ad un mondo distratto ed in vacanza, che
non valeva più la precedente architettura di patti e trattati
economico-monetari stipulati nel 1944 (Bretton Woods) e che
dall’indomani, gli USA avrebbero stampato dollari decidendo liberamente
il quando ed il quanto. Si trattava del fiat money, una specie
di creazionismo sul modello vetero-testamentario. Lì Dio diceva “Luce!” e
la luce fu, qui il presidente diceva “Dollaro!” e dollari furono.
Tanti. Prima esisteva un restrittivo ilomorfismo per il quale va bene la
forma, ma c’era anche bisogno della materia per cui per stampare 100
dollari erano necessari 100 dollari di oro nei forzieri di Fort Knox.
Dopo l’invenzione ferragostana invece si passava alla metafisica del
valore, si diceva denaro e compariva denaro, si diceva ricchezza e
-oplà-, ecco la ricchezza. 

Per pura coincidenza, nel 1971 apre anche la
slot machine di ogni futura speranza di crescita dell’economia
post-industriale: 

4) il NASDAQ. 

Sembra dunque che le
presa di coscienza dell’impossibilità della crescita infinita non sia
stata solo in coloro che paventavano il collasso ecologico-sistemico, ma
anche in coloro che il collasso economico-sistemico già lo vedevano in atto
e non per motivi ecologici ma per impossibilità strutturale di
continuare a produrre crescita economica tradizionale, a partire dagli
USA.

Sappiamo poi come sono andate le cose. Ben
Bernanke regna per ben 19 anni a capo di una Fed che stampa tonnellate
di denaro che presta a tassi prossimi allo zero creando un lungo intervallo verde
(verde è il colore dei dollari, intervallo verde è la traduzione
letterale di green-span). Dopo sessantasei anni (nel 1999) viene
abrogato il Glass-Steagall act e tutta una pioggia di invenzioni
banco-finanziarie creano l’effetto di moltiplicare a dismisura il volume
dei foglietti verdi che Fed
distribuiva ormai come la pubblicità degli acquapark cade dagli
aeroplanini che sorvolano le spiagge. De-regulation, de-localizzazioni,
privatizzazione, globalizzazione, debito a pioggia, per un lungo
presente felice di ricchezza per tutti! Questa è stata la crescita occidentale degli ultimi 40 anni accompagnata dai  chierici della scolastica economica, alacremente intenti a produrre summae teologiche
che inneggiavano alla new-economy, all’innovazione perpetua, alla
schumpeterismo permanente, alla mistica della “creazione del valore”.
Ancora oggi vi sono anche sette ispirate i cui medium invocano la parola
di Smith per un mercato libero-libero, perché solo così può
manifestarsi il fantasma della mano invisibile.

Quando
questo precario sistema-tampone ebbe un primo collasso, prima si
accusarono gli avidi, poi si invocarono le regole che per altro erano
state scientemente abrogate dagli stessi invocanti. Poi si teorizzò che
esistesse una teoria economica-monetaria responsabile ideologico del
misfatto: il neoliberismo. Ancora oggi l’Fmi si affanna a dare
consigli sulle modifiche strutturali necessarie a riprodurre le
condizioni necessarie per nuovi miracoli, le economie post moderne
riscoprono il valore industriale ormai perduto in favore degli
emergenti, rialzano la testa i keynesiani ed un francese (Thomas Piketty)
diventa best seller del ranking librario del NYT con le sue 696 pagine
di argomentazioni contro l’ineguaglianza che destabilizza l’intero
sistema. Ma tutti sembrano eludere il fatto.

Il fatto è che le economie occidentali non crescono più.

da en.wikipedia.org – Economic growth

Decresce
l’occupazione poiché gli 1-2-3% di Pil in più che si mostravano non
avevano nulla a che fare con l’economia di produzione e scambio (quella
vigente dal XVIII° secolo).  

Decresce
l’occupazione perché com’è noto dai tempi di Ricardo e poi a Keynes,
cresce l’innovazione tecnologica, i servizi impiegano meno
dell’industria, le produzioni si saturano progressivamente, la platea
dei produttori si è allargata a dismisura molto di più di quella dei
consumatori, le produzioni ad alto impiego di lavoro sono sempre più non
occidentali.  

Decrescono i profitti d’impresa
ed infatti la mortalità imprenditoriale è pari all’abnorme sviluppo
degli impieghi finanziari, ormai totalmente slegati dal finanziamento
della macchina produttivo-scambista.  I possessori di capitale impiegano
il denaro nelle slot machine finanziarie perché molto più remunerative,
più veloci, più agili nel permettere spostamenti di investimento
continui in un mercato che continuamente cambia. 

Decresce
l’innovazione (tranne quella banco-finanziaria) poiché la
quantità-qualità della creazione anni ’50-’60 (per non dire di quella
post macchina a vapore del XIX° secolo o seguente la rivoluzione
elettrica) non ha nulla a che vedere con le anoressiche start up su
qualche app per i devices della sempre più nevrotica distrazione di
massa.  

Decrescono le utilità ed i rendimenti perché è nella natura di questo sistema avere grandi inizi e code sottili.

da: democraticunderground.com

Decresce il
risparmio diffuso perché la ricchezza rinnovata è sempre minore e
bisogna dar fondo all’accumulato, quindi crescono i debiti a seconda
della culture nazionali, in alcuni casi privati, in altri, pubblici. 

Sopratutto decresce la classe media
occidentale e cresce quella del resto del mondo. Tutto ciò che cresce,
in Occidente, lo fa in virtù di denaro inventato dal nulla che non
chiude più il suo ciclo di esistenza e quindi non richiedendosi il
corrispettivo valore reale presente che ne estingue a materializza la
promessa, rimane magicamente sospeso nella realtà, partecipando di
questa e per emanazione, diventa “come se fosse reale”. Ma non lo è. 

Decresce
la distribuzione di ricchezza concentrandosi nella mani di pochissimi
sempre più esageratamente ricchi il che è non è solo sconveniente per
noi comuni mortali, ma è esiziale per il sistema stesso perché come
sapevano gli antichi (vedi H. Ford, ma è ben descritto del IV° capitolo
della Ricchezza delle nazioni che forse qualcuno farebbe meglio a
leggere invece che citare senza cognizione), se i produttori  non hanno
soldi per comprare i prodotti, l’intero sistema circolatorio salta
poiché essi sono anche i consumatori.

In Occidente, tra le altre cose, decresce
anche la popolazione o meglio è cresciuta a ritmi davvero miseri e solo
per merito dell’Europa dell’est. 

Il progressivo invecchiamento delle
popolazioni occidentali con decremento delle nascite (transizione
demografica), oltre a sbilanciare i conti delle assistenze (sanitarie e
sociali), intasa il ricambio generazionale nell’occupazione e quindi fa
crescere la disoccupazione giovanile.

Questo
grafico WB vale per la registrazione di ciò che è avvenuto. Le
previsioni a 15-30 anni sono del tutto infondate poiché infondabili

La decrescita delle
economie occidentali, significa anche la perdita di leadership, peso e
controllo generale dei processi su scala mondiale il che retroagirà in
maniera ulteriormente negativa sulle stesse condizioni della crescita.
Il ruolo degli USA e degli occidentali in genere, del dollaro, del WTO,
dell’Fmi, della World Bank sono destinati a relativizzarsi e/o a veder
ridimensionato decisa-mente il controllo totale ed esclusivo che
storicamente gli occidentali vi hanno esercitato. Da ciò la
perdita di possibilità di beneficiare di vaste posizioni di rendita e di
favore nello sviluppo delle strategie, fatti che nulla hanno  che fare
con la reale competitività delle economie nazionali che si mostrerà
sempre più per quella che è.

Quanto più basse sarebbero state le medie decennali degli ’80-’90-’10, senza l’anfetamina banco-finanziaria?

In economia, le teorie sulla crescita
(Solow-Swan, Romer-Lucas, Galor) hanno sempre sfarfallato intorno al
punto ed il punto era che la popolazione occidentale, dalla metà del
XIX° secolo, era costantemente cresciuta a ritmi geometrici, ceteris paribus
(come piace ai dotti di quella presunta scienza che è l’economics. 

Una
moderata ma ben lucida accusa all’economics di essere una pseudoscienza,
la si trova qui sul Scientific American), aumentando il numero di produttori-consumatori, certo che cresceva il prodotto lordo. L’innovazione
è un concetto assai generico per fondarci sopra una spiegazione
efficiente della crescita, l’elettricità fu una innovazione senz’altro
motore di crescita, la stampante laser con cui stamparsi una automobile
3D standosene seduti a casa non porta a comprare più automobili ed
oltretutto crea diversi disoccupati nella precedente catena
distributiva. 

Il capitale umano entro un certo limite è
un fattore che aumenta la produttività, oltre un certo limite non lo è
più e comunque competenze ed istruzione ad un certo punto divergono
dall’impiego produttivo e comunque non sono incrementabili all’infinito.
Di fatto, se non si stampa denaro senza ritegno alcuno come ha
continuato a fare Fed, come hanno ripreso a fare i giapponesi e come
ormai ritiene anche Fmi, il paziente deperisce velocemente e muore.
Anche perché, a corto di crescita reale, le economie pubbliche e private
sono tutte ampiamente indebitate e per evitare i fallimenti non c’è che
incrementare la liquidità. Ma se lo si fa, si deve anche capire che si
produce un nuovo sistema che nulla ha a che fare con il sistema
conosciuto e le cui fondamenta funzionali sono del tutto infondate nel
senso che è socialmente inconsistente. Un tale sistema non più economico
ma fondamentalmente finanziario, non è più in grado di reggere ed
ordinare società complesse come sono le nostre.

Parrebbe quindi non ardito ipotizzare che
non si tratta del fatto che il capitalismo è entrato in chissà quale
fase assoluta, non è che i cattivoni sono diventati più cattivoni, non è
che i capitalisti si sono fatti traviare da una ideologia forgiata a Chicago, non è che la finanza chissà per quale strano motivo ha deciso di svincolarsi dall’economia perché affamata di “sempre più profitti”
come disegnano novelli G. Grosz, come se la finanza fosse nata per
scopi sociali. Si tratta dell’occultamento consapevole di un dato
concreto, prevedibile ed assai preciso e pervicacemente rimosso da
tutti: l’Occidente non si trova né  mai più si troverà nelle
condizioni storiche che ne hanno determinato l’incredibile crescita
economica, negli ultimi duecento anni
.

Anche le feste più belle finiscono e
quelle lunghe duecento anni, sono anche assai rare. Se togliamo il
dollaro metafisico e l’Oktoberfest della finanza degli ultimi quaranta
anni, se togliamo la crescita dei Trenta gloriosi determinata dalla
ricostruzione dell’immane distruzione
bellica, se togliamo la lunga depressione, la breve euforia della Belle
Époque strettamente allacciata ad un Primo conflitto mondiale, ad un
Impero che copriva il 25% del globo terracqueo ed ad una costellazione
di colonie con le quali l’Occidente dominava l’intero pianeta, ci si può
domandare: cosa sarebbe stato il nostro celebrato modo
economico, cosa avrebbe prodotto in termini di ordine sociale e qualità
di vita al netto di queste variabili?
 

La domanda serve
perché se facciamo l’esperimento mentale di immaginare il nostro sistema
economico senza queste “fortunate” e decisive circostanze, capiremo che
questo sistema osannato dai suoi aedi, deprecato dai suoi critici, in
realtà è finito. Esso è stato la semplice risultante di circostanze
storico-culturali, geopolitiche, di beneficio dell’innovazione del
materialismo per tutti (beni, merci, lavoro, reddito, status,
aspettative, sogni, progetti etc.) che ha ampiamente esaurito le sue
possibilità in Occidente. Anche perché stante il previo controllo quasi
totale di tutto il pianeta,  aveva un certo qual senso produrre e
comprarsi una automobile, forse anche un televisore, ma francamente di
un drone personale non sappiamo veramente cosa farcene oltreché essere
oggi nella penosa situazione di non riuscire più a sbarcare il lunario
dei beni necessari.

Per non parlare delle materie prime, delle energie, del collasso
eco-sistemico, degli squilibri del commercio internazionale che chissà
perché, viene analizzato al netto degli equilibri geopolitici come se il
mondo fosse fatto da imprese e non da nazioni.


Eccoci allora al punto avanzato nella nostra tesi: il sistema non funziona più e non funziona più da tanto tempo.
Lo si è artatamente tenuto in qualche modo in piedi per prorogare la
sua vigenza ordinativa poiché non abbiamo la più pallida idea di cosa
altro fare. Le élite che si determinano tali dall’esistenza del sistema
stesso hanno armeggiato per farci avere altri decenni di vacanza col
morto, ma il morto ora comincia a puzzare.

Credo sbaglino coloro che parlano degli ultimi quaranta anni  come di
una deliberata scelta di un capitalismo cattivo contro quello buono,
keynesiano, con le élite limitate da una semi-democrazia funzionante.
Tutto quanto accade oggi dilazionato e dilatato, negato, rallentato,
occultato, mistificato, rimosso, sarebbe successo di colpo negli anni
’70-’80 se gli USA, detentori della regia sistemica economica,
finanziaria, politica, militare e culturale, non
avessero messo un tampone fatto di nuove leggi ed abrogazione delle
vecchie, dollari a pioggia, narrazioni epiche sull’infinita dilatabilità
del moderno, controllo dei sistemi internazionali ed una dozzina di
guerre per mettere a posto quello che ostinatamente andava fuori
registro. Se non facciamo una altra guerra mondiale, non possiamo avere
altri trenta gloriosi, ogni salita viene dopo una discesa, ogni
creazione necessita di una precedente distruzione. L’alternativa alla  decrescita, oggi, è la guerra.



da: web.ca/~bthomson/degrowth/


La decrescita dei nostri volumi economici
non è una scelta, una opzione razionale e di buon senso, un moto di
sensibilità verso Madre Natura che dobbiamo preservare dalla perversa
condizione S/M alla F. Bacon (La natura è una prostituta; noi dobbiamo domarla, penetrare i suoi segreti e incatenarla secondo i nostri desideri). 

I limiti ecologici e le loro paurose retroazioni sono un peggiorativo
ma nel mentre annunciamo i disastri ambientali ad esempio, già da tempo
si vanno compiendo quelli sociali perché è l’intero sistema, il nostro
modo di stare al mondo, che non funziona e non può più funzionare.  

La de-crescita,
la contrazione del lavoro, del consumo, della produzione, della
ricchezza reale diffusa, della stabilità, della speranza in un futuro
migliore di quello che hanno avuto i padri secondo i canoni del
benessere materiale, è già in atto. La decrescita non è
una alternativa perché non esiste più l’opzione crescita, non esistono
più le condizioni per un continuato e diffuso sviluppo, né materiale, né
immateriale. La decrescita nel senso della contrazione dei nostri
volumi economici, non è una opzione alternativa Ã¨ il nostro destino

L’alternativa,
ovvero la scelta tra due opzioni, si pone solo tra il subirla
mantenendo società ed economia nelle forme che richiedono una crescita
ipotetica che non ci sarà e quindi subire la contrazione sistemica con
tutto il doloroso portato di prolungato collasso sociale o trasformare
radicalmente economia, società e loro reciproci rapporti, dandoci la
possibilità di trovare un nuovo modo di stare al mondo. Questa è la
nostra precisa condizione attuale e futura. Si tratta solo di
riconoscerla ed adeguarsi in uno sforzo adattativo che dimentichi due
secoli che sono ahinoi passati non solo cronologicamente,  ma anche
concettualmente.



da: zeitpunkt.ch


E’ ora di svegliarci dal lungo sonno
dogmatico.  E’ ora di rivolgerci con sano e deciso tono realistico ad
economisti e politici, tanto mainstream, che critici[1]
e dir loro di piantarla di parlare del caro estinto, di allagare il
mondo con cascate di ricette senza senso su meno stato, più mercato,
meno o più controlli, moneta così o moneta cosà, risveglio industriale
ed altri impossibili Viagra per propiziare una disperata, ennesima,
erezione economica. 

Dovremmo cominciare a spegnere quell’idiota sorrisino di commiserazione con
il quale i teologi del massimo sistema reagiscono alle istanze sul
cambio repentino di mentalità economica, perché l’economia reale è già
cambiata da tempo ed è la sua teologia ad essere rimasta inchiodata
ad irrealistici dogmi metafisici fissati più di un secolo fa.

Non siamo noi a dover sostenere il picco
di Hubbert o ai dimostrare il cambiamento climatico, non siamo noi a
dover mostrare le foto satellitari sul restringimento dei ghiacci o a
dover commuovere con le foto di terrorizzati orsi bianchi che si
lasciano affogare. Dovremmo forse cambiare atteggiamento ed imporre nel
dibattito l’urgenza realista di rispondere alla domanda: come ci si adatta ad una società che è già da tempo in vistosa e progressiva decrescita economica? Segnalando
a gli utilitaristi che anche tempo utile per le risposte decresce
vistosamente e che ai fallimenti adattativi, conseguono le estinzioni di
massa.



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[1] Segnalo questo
articolo di M. Badiale che giustamente tenta di dar la sveglia al
moribondo mondo del pensiero marxisteggiante. I marxisti sembrano essere
ontologicamente accoppiati al capitalismo ed alla Rivoluzione
industriale. Per loro il problema è solo il capitale, la stesso modello
economico ma non guidato dal capitale, andrebbe benissimo. Siamo ancora
al potere dei soviet più l’elettrificazione. La loro mentalità rimane
nostalgicamente aggrappata ai fasti ottocenteschi e sono rimasti gli
ultimi a reclamare “più lavoro”, “più industria”, “più produzione”, come
se questa fosse ancora e per sempre possibile. Sebbene di un’altra
chiesa, essi non differiscono poi di molto da i più canonici adoratori
del culto del cargo.



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