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Dieci punti per far girare bene il pianeta

21 ONG di tutto il mondo (in rappresentanza di 200 milioni di persone) indicano 10 misure per evitare che il climate change raggiunga un punto di non ritorno [G. Viale]

Dieci punti per far girare bene il pianeta
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10 Settembre 2014 - 15.22


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di Guido Viale.

Ventun
organizzazioni del Nord e del Sud del mondo (in Italia Fairwatch), in
rappresentanza di oltre 200 milioni di persone, hanno sottoscritto e un
appello in 10 punti che indica le misure per evitare che i cambiamenti
climatici in corso raggiungano un punto di non ritorno. E’ un appello
alla mobilitazione contro la convocazione da parte del Presidente
dell’ONU Ban Ki Moon di un Vertice sul clima il 23 settembre a cui ha
invitato solo leader politici e manager del big business, con una
scarsa e compiacente delegazione di associazioni ambientali, per
avallare uno “scippo” della lotta ai cambiamenti climatici da parte di
chi vuole usare questa emergenza planetaria per fare business, con misure e politiche non vincolanti, a carattere privatistico, che mirano solo al profitto e sono sicuramente inefficaci.

Se i dieci punti della dichiarazione programmatica di Alexis Tsipras, integrati e specificati in un work in progress
tutt’ora in corso, hanno offerto ai promotori, ai sostenitori e agli
elettori della lista L’altra Europa – ma anche a chi ha guardato a
questo progetto con interesse, anche se non l’ha votato – un punto di
riferimento per collocare in un contesto europeo l’iniziativa delle
forze antagoniste alle politiche di austerity, questi nuovi
“dieci punti” possono ora permettere a tutti di riconoscersi e di
partecipare a uno schieramento di ampiezza e di respiro planetari.
Ritroviamo in questo appello molti dei punti sinteticamente presenti nel
manifesto da cui è nata la Lista L’altra Europa; oltre a promuovere e
sostenere una mobilitazione su un tema di vitale importanza per il
futuro di tutti e quasi scomparso dall’agenda dell’establishment
italiano, europeo e mondiale, occorre ricondurre e far vivere quegli
obiettivi di carattere globale nel vivo dell’iniziativa politica locale e
quotidiana.

Le rivendicazioni di questo appello sono state
definite sulla base delle acquisizioni dell’IPCC, la commissione
scientifica dell’ONU che studia i cambiamenti climatici, ma in essi
troviamo intrecciati temi ambientali, economici, sociali e
istituzionali, che è l’approccio che caratterizza il progetto L’altra
Europa.

I primi tre punti dell’appello rivendicano impegni
vincolanti (cioè sanzionati): a) a contenere le emissioni annue
climalteranti a 38 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 entro il
2020, per impedire che la temperatura del pianeta aumenti di più di 1,5
gradi; b) a lasciare sotto terra o sotto il fondo dei mari almeno l’80
per cento delle riserve fossili conosciute; c) a mettere al bando tutte
le nuove esplorazioni ed estrazioni di combustibili fossili (e di
uranio), comprese, a maggior ragione, quelle effettuate con il fracking e
il trattamento delle sabbie bituminose; d) a soprassedere alla
costruzione di nuovi impianti di trattamento e trasporto dei fossili,
compresi i gasdotti. Si tratta di rivendicazioni agli antipodi delle
politiche energetiche dell’UE e della Strategia energetica nazionale
(SEN) adotta dall’Italia. Ma sono obiettivi impegnativi anche per un
movimento come la lista L’altra Europa, che ha fatto della conversione
ecologica un pilastro del suo programma e ha candidato un esponente di
punta del movimento NoTriv. Non c’è molto da discutere, insomma, per
fare un esempio, su progetti come quello estrattivo di Tempa Rossa (in
Basilicata) e il suo complemento nel raddoppio della raffineria Eni di
Taranto; o come il gasdotto transadriatico (TAP) che, dopo l’approdo in
Puglia, dovrebbe attraversare e scassare tutta la penisola. C’è
piuttosto da discutere su come presentare questo obiettivo al pubblico
(cosa non facile, dato il silenzio che circonda il tema dei cambiamenti
climatici), su come organizzare la necessaria mobilitazione, su come
inquadrarlo in un programma generale di riconversione energetica.

Il
quarto punto riguarda la promozione delle fonti energetiche rinnovabili
(FER) in forme sottoposte a un controllo pubblico o comunitario (cioè
“partecipato”). Occorre ricordare che circa l’80 per cento della potenza
fotovoltaica installata in Italia è stata assegnata a grandi impianti e
che i relativi incentivi – i più alti del mondo – sono andati quasi
solo a beneficio di un’alta finanza che nulla ha a che fare con la
generazione energetica diffusa. Ma lo stesso vale per molte altre FER.
La politica energetica del paese va rivoltata “come un calzino”.

Il
quinto e il sesto punto impegnano: a) a promuovere la produzione e il
consumo locali di beni durevoli, evitando di trasportare da un capo
all’altro del mondo quello che può essere fabbricato in loco; b) a
incentivare la transizione a una produzione agroalimentare di
prossimità. E’ qui che la conversione ecologica, promuovendo una
riterritorializzazione dei processi economici attraverso accordi di
programma tra produzione e consumo (il modello, seppur in mercati per
ora di nicchia, sono i gruppi di acquisto solidale: GAS) rappresenta una
vera alternativa alla globalizzazione dei mercati dei beni fisici:
quella che esige una competizione sempre più serrata in una gara al
ribasso di salari, sicurezza sul lavoro e protezioni ambientali. Sono
rivendicazioni che si riconnettono alle lotte contro la delocalizzazione
di fabbriche e impianti, al movimento territorialista che su questi
temi ha al suo attivo, soprattutto in Italia, una corposa elaborazione, e
alla spinta verso una nuova agricoltura biologica, multicolturale,
multifunzionale e di prossimità. Qui sta anche la principale differenza
che separa la conversione ecologica dalla mera adozione di politiche
“keinesiane” di sostegno alla domanda con incrementi di spesa pubblica
(in infrastrutture e servizi) e incentivi al consumo (detassazione dei
redditi bassi e rottamazioni) finanziati in deficit. In un
mercato globalizzato una maggiore domanda non si traduce necessariamente
in aumenti di offerta e occupazione nello stesso paese, se non è
ancorata a una progettualità diffusa e differenziata in base alle
esigenze e alle caratteristiche dei diversi territori; il che richiede
anche nuove forme di democrazia partecipata e di autogoverno.

Il
settimo e l’ottavo punto riguardano l’obiettivo “rifiuti zero” (centrale
nei territori massacrati da criminalità ambientale e malgoverno),
un’edilizia a basso consumo energetico e un trasporto di persone e merci
con sistemi di mobilità pubblici e condivisa.

Il punto nove
raccomanda la creazione di nuova occupazione finalizzata alla
ricostituzione degli equilibri ambientali, sia nel campo delle emissioni
climalteranti che in quello dell’assetto dei territori. Sono le “mille
piccole opere” in campo energetico, nella manutenzione dei suoli, nei
trasporti, nell’edilizia e in agricoltura in cui dovrebbe articolarsi un
piano di lavori pubblici per creare subito un milione di posti di
lavoro in Italia e sei milioni in Europa rivendicato da molte
organizzazioni.

Il decimo punto impegna a smantellare industria e
infrastrutture militari per ridurre le emissioni prodotte dalle guerre e
destinare a opere di pace le risorse risparmiate. Non ci sono solo gli
F35 da bloccare (cosa sacrosanta); c’è tutta l’industria e l’occupazione
belliche da riconvertire: le opportunità di impieghi alternativi non
mancherebbero certo.

L’appello prosegue indicando le cose da
evitare: a) la mercificazione, la finanziarizzazione e la
privatizzazione dei servizi forniti dall’ambiente (cioè tutta la
cosiddetta “green economy”, quella che dà un prezzo alla Natura);
b) i programmi misti pubblico-privato come REDD (che dovrebbe
contrastare deforestazione e degrado boschivo) e altri simili,
finalizzati solo a creare nuove occasioni di profitto; c) le soluzioni
esclusivamente tecnologiche ai problemi ambientali (qui l’elenco è lungo
e sicuramente discutibile: geoingegneria, OGM, agrocombustibili,
bioenergia industriale, biologia sintetica, nanotecnologie, fracking,
nucleare, incenerimento dei rifiuti); d) le grandi opere inutili: si
citano dighe, autostrade, grandi stadi (e noi possiamo aggiungere TAV,
MOSE e quant’altro); e) il libero commercio e i regimi di investimento
che minaccino il lavoro, distruggono l’ambiente e limitano la sovranità
economica dei popoli: possiamo tradurre questo punto in TTIP e TISA.

In
conclusione l’appello invita a individuare e denunciare le vere radici
dei guasti che incombono sul pianeta: il modello industriale di
estrazione crescente di risorse, il produttivismo per il profitto di
pochi a scapito dei molti (cioè il capitalismo e un modello di crescita
illimitata), che vanno sostituiti con un nuovo sistema che persegua
l’armonia tra gli umani, connetta la lotta ai cambiamenti climatici ai
diritti umani e offra protezione ai più deboli: soprattutto migranti e
comunità indigene. Questo modello industriale – conclude il documento –
non è più sostenibile; occorre redistribuire la ricchezza oggi
controllata dall’1 per cento della popolazione e ridefinire il
benessere, che deve riguardare tutte le forme di vita, riconoscendo i
diritti della Natura e di “Madre Terra”.

Fonte: [url”http://ilmanifesto.info/dieci-punti-per-far-girare-bene-il-pianeta/”]http://ilmanifesto.info/dieci-punti-per-far-girare-bene-il-pianeta/[/url]

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