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'La moneta che non c''è'

Da Solone a Bretton Woods, controstoria della moneta. [Roberto Petrini]

'La moneta che non c''è'
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11 Novembre 2014 - 11.16


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di Roberto Petrini*

Solone fece una vera politica monetaria? Non fu solo Menenio Agrippa con il suo celebre apologo a indurre la plebe a più miti consigli ma una sapiente opera di svalutazione della moneta in grado di alleviare il peso dei debiti sui più poveri? E perché Enrico VIII, noto per le sei mogli, era chiamato “The Old Coppernose”? Come andò che alla fine del Seicento per risolvere il problema della penuria di monete d’argento in Inghilterra furono convocati il filosofo Locke, Isaac Newton e Halley, quello della cometa?

La storia della moneta è piena di enigmi e stranezze, ma è soprattutto una vicenda che corre pericolosamente intorno alle tasche e al tenore di vita di noi tutti. Per molti secoli è stata lo «sterco del diavolo», oggi al Dio Denaro ci si inchina. Chi ne ha spera che il suo valore resti stabile, chi ha debiti spera che si svaluti. Gli alfieri della turbofinanza pensano a «fare denaro con il denaro» e ritengono che si tratti di un affare di esclusivo dominio del mercato. Chi vive con pochi dollari o euro spera di metterne insieme a sufficienza per arrivare alla fine del mese.

La sindrome di Paperone, che venera con cupidigia la “numero 1”, il primo cent guadagnato, custodito con ansia paradossale, ci ha convinti che la moneta sia il luogo specifico dell’avidità, dell’egoismo e della diffidenza. Oggi è indubbiamente così: non c’è bisogno di fare esempi, ma non è sempre stato questo l’andazzo. Anzi, al contrario, la storia della moneta che parte oltre due millenni e mezzo fa, nelle isole dell’Egeo, ci dice che il denaro nasce dalla particolare attitudine dell’uomo a dividersi il lavoro all’interno di un gruppo e a fare scambi e commerci. A stare insieme. La moneta quando sboccia, all’alba dei tempi, fa rima con fiducia, all’interno di una comunità e tra una comunità e l’altra. È più un mezzo che un fine.

Le piccole aggregazioni arcaiche dell’Isola di Yap in Micronesia, dove come moneta venivano usati grossi pietroni, nemmeno si curavano di spostare i loro pesanti mezzi di scambio alla fine di una transazione: li lasciavano per le strade del villaggio o in fondo al mare e si limitavano a mandare a memoria debiti e crediti. L’élite di mercanti europei, che nel Trecento si dava appuntamento alle fiere dello Champagne, aveva costruito una rete basata sulla fiducia che consentiva di spostare, grazie a una semplice firma su una lettera di cambio, enormi flussi commerciali, da Barcellona, a Firenze alle Fiandre. Per secoli, dopo la riforma di Carlo Magno e fino al Settecento, la moneta è stata una semplice unità di conto: come diceva Luigi Einaudi si contrattava in “moneta immaginaria” e si pagava moneta sonante.

Si voglia o no, con questa realtà bisogna confrontarsi: la moneta non è una merce qualsiasi, un oggetto come gli altri, e non può essere lasciata a se stessa. Per questo va governata attraverso la comunità, lo Stato, le banche centrali. Eppure l’idea che la moneta potesse amministrarsi da sola è stata radicata per molti anni nel consesso internazionale: la moneta è stata per lungo tempo agganciata all’oro. Era l’epoca del gold standard, che si frantumò in coincidenza con la Grande Depressione degli anni Trenta del Novecento. Il tintinnio dell’oro ebbe allora un suono sinistro.

Eppure, se si mette in moto la macchina del tempo, si torna a ritroso a osservare secoli ricchi di fermenti e di cultura, si scopre che la moneta era considerata uno strumento di sviluppo. La pensavano così i primi banchieri veneziani del Trecento e del Quattrocento che si accorsero che era inutile lasciare i depositi della loro clientela “inerti” nei forzieri e cominciarono a fare prestiti, sotto la vigilanza accorta dei magistrati della Serenissima, e a moltiplicare credito e opportunità.

La storia della moneta è anche una storia di debiti e di crediti, di forti e di deboli. Solone nell’Antica Grecia per aiutare i più poveri svalutò la dracma, svalutazioni avvennero a Roma per placare le rivolte della plebe, l’abate napoletano Ferdinando Galiani, acuto economista del Settecento, cominciò a pensare che la moneta poteva essere usata per fare politica economica e che svalutare in fondo aveva dei vantaggi: almeno per i più poveri e i più indebitati e almeno fino a quando non sarebbe arrivata l’inflazione a rimangiare tutto. Nell’Ottocento negli Stati Uniti nacque il partito dell’argento: i “silveriti” volevano una moneta debole che alzasse i prezzi agricoli ed arrivarono a candidare alla presidenza il democratico William Jennings Bryan che si battè fieramente contro la moneta d’oro dei ricchi e di Wall Street.

La storia della moneta, dalla livre francese, al testone inglese, al maravedì castigliano, è anche la storia dei debiti dei Re e dello Stato. Nel Medioevo i sovrani, assetati di denaro, taroccavano le monete, e indebolivano le leghe per finanziare guerre ed eserciti. Un forte movimento d’opinione e le nuove classi degli aristocratici e dei proprietari terrieri li fermarono imponendo il controllo dei Parlamenti. «La moneta non è un fatto privato del re, ma è della comunità», ammonì l’erudito Nicolas Oresme nel Trecento.

Per secoli si è inseguito il mito della moneta stabile: ma crisi ripetute, drammatiche e devastanti, hanno segnato la storia. Dalla bolla tulipani nel Seicento olandese, a quella truffaldina della South Sea Company di Londra, al tentativo naufragato di John Law di alimentare la circolazione con la sua invenzione: la banconota. La nascita delle banche centrali, durante la rivoluzione finanziaria inglese del Settecento, pose le basi per un “armistizio” tra stato e mercato. La moneta poteva essere governata e non abbandonata all’anarchia.

Non fu sufficiente perché il disordine si sarebbe trasferito sul piano internazionale, l’Ottocento e il Novecento furono i secoli delle crisi bancarie e valutarie. Si dovette arrivare a Bretton Woods, con le macerie ancora fumanti della Seconda guerra mondiale, perché si riuscisse a capire che senza la cooperazione internazionale, cioè il governo della moneta, non si sarebbe andati molto avanti. Fu una scelta vincente, perché fino al 1968 regnò la calma sul mercato delle valute.

La liberalizzazione dei movimenti di capitale riaprì la porta alle crisi: la mondializzazione, con le sue forti disparità di reddito, e la “finanza globale”, dagli anni Ottanta del secolo scorso, hanno creato nuove e pericolose turbolenze. Un’enorme bolla finanziaria galleggia sul mondo, difficile da domare e da tenere a bada: una sorta di “moneta privata” formata dai derivati e dai titoli cartolarizzati “coniati” dai potentati finanziari. E c’è il rischio di una nuova e pericolosa anarchia valutaria: viene da pensare all’Anno Mille, quando in ogni angolo d’Europa c’era una zecca, guardata da armigeri, che batteva la propria moneta.

Nemmeno chi si mette al riparo dietro a una valuta forte, come ha tentato l’Argentina con il dollaro o chi si mette in comune, al costo di enormi sacrifici, come hanno fatto gli europei, è al sicuro: la crisi che investe il pianeta dal 2007-2008 ne è la dimostrazione. Come uscirne? Un buon passo sarebbe quello di tornare all’idea che la moneta appartiene alla comunità e che, in fondo, si tratta solo di uno strumento per facilitare gli scambi e, se possibile, aumentare il benessere. Nel passato erano in molti a pensarla così.

***

«Non credo che nessuno abbia mai scritto su “il denaro” con tale mancanza di denaro» scriveva Karl Marx all’amico Engels nel 1859 con amara ironia. Al di là delle disponibilità quotidiane non c’è economista che abbia trascurato il tema: una letteratura immensa da David Ricardo a Milton Friedman da Adam Smith a John Maynard Keynes. Divisi dalle loro teorie, ma anche dalla concezione della moneta. Per gli uni una semplice merce da lasciare a se stessa, per gli altri qualcosa di assai diverso che ha a che fare con lo sviluppo e la civiltà. Se si accoglie quest’ultimo punto di vista e si segue questa “pista”, si scopre che esiste una vera e propria “controstoria” della moneta, dalla quale emergono episodi e circostanze normalmente sottovalutati o dimenticati. E che vanno raccolti e raccontati.

Come narrare questa millenaria avventura? La strada migliore è quella di mettere i fatti e le idee gli uni accanto agli altri; lo svolgersi delle vicende e l’emergere delle correnti di pensiero che spesso hanno condizionato gli eventi. Tenendo decisamente conto che la sintesi di questi due aspetti è stata il frutto del disporsi sul campo nel corso dei secoli degli interessi, dei rapporti di forza e di potere. Forse uno sguardo all’indietro può essere utile.

(5 novembre 2014)

*Il testo qui presentato apre il nuovo saggio di Roberto Petrini “Controstoria della moneta” ([url”Imprimatur editore”]http://imprimatureditore.tumblr.com/[/url]).

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