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Il nodo del fisco

'l guaio è che noi non sappiamo quanto sono ricchi i ''ricchi''. Ecco gli errori più diffusi quando si tratta di valutare chi paga e come paga le tasse. [Aldo Giannuli]'

Il nodo del fisco
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15 Aprile 2015 - 22.43


ATF

di
Aldo Giannuli
.



Per
quanto possa sembrare scandaloso al lettore europeo, la legislazione
americana prevede una tassazione “regressiva” sul reddito, per
cui i lavoratori dipendenti pagano le tasse per una aliquota del 35%
mentre i redditi superiori al milione di dollari annuo pagano il 15%
(1). 

Questo in ossequio al mantra neoliberista, per cui sono i ricchi
a consumare ed investire, quindi devono pagare meno tasse degli
altri, perché così investono e stiamo meglio tutti.

Infatti,
i ricchi investono, ma in altri titoli finanziari per fare altro
denaro che reinvestiranno in altri titoli finanziari e così via,
senza che questo crei un solo posto di lavoro. La cosa, a pensarci
bene, fa un po’ ribrezzo, al punto che persino quel gentiluomo di
Warren Buffet si è detto stufo di pagare tasse percentualmente
inferiori a quelle della sua segretaria.

Anche
il Presidente della Francia, François Hollande (2), minacciava
sfracelli tributari contro i ricchi (per la verità, lo ha fatto un
po’ meno in occasione della sua visita alla City a Londra, quando
ha spiegato che non ce l’ha con la finanza). E dunque si levi il
grido: “Tasse ai ricchi!”. Giustissimo, ma come?

Il
guaio è che noi non sappiamo quanto sono ricchi i “ricchi”.
Innanzitutto, richiamiamo una delle cose dette all’inizio: da un
punto di vista economico, quello che conta non è il numero delle
persone da tassare ma la quantità di ricchezza posseduta, per cui,
anche se i ricchi in America sono circa 400 famiglie (cioè 1 persona
ogni 250.000), e, dunque sembrano irrilevanti numericamente, quello
che conta è che hanno la fetta più rilevante della ricchezza
nazionale. C’è un modo di ragionare sbagliato, nel quale spesso
cadono anche persone di sinistra, che suona più o meno così: “se
i cittadini che hanno un reddito superiore al milione di euro (o
dollari) sono solo 500, questo vuol dire che la loro ricchezza
complessiva ammonta a qualcosa di più di 500 milioni di euro, forse
il doppio, il triplo o addirittura dieci volte tanto, dunque, si
tratta di una porzione minoritaria della ricchezza, per cui la parte
più rilevante è da cercare nella fascia medio-alta, quei 2 milioni
di contribuenti che, guadagnando fra i 50.000 ed i 100.000 euro
(calcolando una mediana di 75.000) rappresentano una massa di circa
150 miliardi di Euro, cioè 300 volte di più del totale presuntivo
precedente” (3).

L’errore
è doppio ed è spesso indotto dal modo malizioso con cui vengono
proposte le statistiche sui giornali, perché, mentre per la classe
contributiva di mezzo si dà un valore minimo ed uno massimo (per cui
il lettore calcola approssimativamente la mediana), quella più alta
è una classe “aperta” per la quale si indica solo il valore
minimo, dunque il lettore è indotto a pensare che la mediana non
sarà superiore a cinque o dieci volte il valore più basso.

Ma
l’errore più rilevante è l’altro: come abbiamo ripetuto alla
nausea, la propensione al risparmio è funzione del reddito, per cui,
se il confronto sul reddito può essere relativamente contenuto,
quello sui patrimoni raggiunge distanze stellari. Se il reddito degli
ultraricchi si conta nell’ordine di decine o forse centinaia di
milioni di euro, il patrimonio accumulato spesso supera le diverse
migliaia di miliardi. E questo è l’effetto della rendita
finanziaria che, non solo produce guadagni crescenti e sempre
maggiori rispetto a quelli delle altre classi di reddito, ma, per di
più, è anche merito della legislazione fiscale combinata con la
normativa sulla libertà di movimento dei capitali adottata dagli
anni ottanta in poi.

Già
nei primi anni ottanta si manifestò una elevata erraticità dei
capitali da un capo all’altro del Mondo e con conseguenze non
sempre auspicabili o di poco conto (4). Dopo, una legislazione sempre
più permissiva, il decalogo del Washington Consensus,
accordi internazionali sempre più favorevoli alla libera
circolazione mondiale dei capitali e l’ingresso trionfale delle
nuove tecnologie informatiche nella finanza, fecero il resto.

La
giustificazione di queste scelte: solo con la libera circolazione di
capitali e merci si può garantire l’allocazione ottimale delle
risorse. Ma, lasciando impregiudicata la questione della fondatezza
di questo assunto, c’era anche dell’altro. Fra gli anni venti e
gli anni settanta c’era stata una crescita notevole del reddito
delle classi medie e popolari: i salari erano considerevolmente
cresciuti per effetto dell’azione sindacale, un forte intervento
statale in economia aveva sostenuto l’occupazione, lo sviluppo del
welfare aveva garantito sanità ed istruzione quasi gratuite ai non
abbienti ed al ceto medio, lo sviluppo dell’edilizia popolare aveva
risolto gran parte del problema abitativo. In definitiva,
l’intervento statale in economia (tramite investimenti diretti
nelle grandi opere o tramite l’impresa pubblica o indirettamente
attraverso l’erogazione di servizi a prezzi politici) aveva
costantemente operato un trasferimento di ricchezze dai ceti abbienti
a quelli popolari, attraverso la leva fiscale. Nel ventennio 1960-80
la media dei paesi Ocse (5) segnalava che la pressione fiscale era
passata dal 25,8% del Pil al 32,16. Bisogna inoltre tenere presente
che, nel periodo considerato, i diversi regimi fiscali nazionali
erano tendenzialmente ispirati ad una certa progressività sul
reddito e basati più sulla tassazione diretta che su quella
indiretta, mentre le tariffe dei servizi pubblici (dalle tasse
universitarie ai ticket sanitari o al costo dei servizi pubblici)
erano molto bassi.

Diamo
ora un’occhiata a questi dati relativi alla percentuale del gettito
fiscale sul Pil al decennio 2000-2009 (abbiamo scelto i paesi più
rappresentativi confrontando il dato del 2000 –prima colonna- con
quello del 2009 –seconda colonna; sempre percentuale del gettito
fiscale sul Pil):

Usa
29,6% | 24%

Giappone 27,1% | 28,1%

Germania 37,9% |
37%

Francia 45,3% | 41,9%

Italia 42% | 43,5%

Inghilterra
37,4% | 34,3%

Svezia 54,2% | 48,2%

Le
media Ocse è scesa dal 37,4% al 32,6%. Dunque, il gettito ha
registrato un aumento dal 1980 al 2000 (anche se contenuto) per poi
tornare praticamente ai livelli del 1980. Ma, bisogna tenere presente
che:

a-
nel frattempo la tassazione è andata spostandosi verso le fasce di
ceto medio o perché (in paesi come in Italia) l’aliquota massima è
rimasta ai livelli nominali precedenti7 o perché (come negli Usa) si
sono applicati sgravi ai redditi maggiori per cui “chi ha di più
paga di meno”)

b-
sono considerevolmente cresciute un po’ dappertutto i costi di
tasse universitarie e scolastiche, ticket sanitari, prezzi dei
trasporti pubblici ecc.. che, ovviamente, attingono molto di più
dalle classi medie e popolari che da quelle abbienti.

Dunque,
la pressione fiscale è complessivamente diminuita ed è andata
spostandosi verso i ceti medio bassi. Si noti anche il parallelismo
fra il calo del gettito fiscale e l’incremento del debito pubblico.

Un
caso? Tutt’altro: un obbiettivo raggiunto. Lo scopo vero (o
comunque più importante) della normativa sulla libera circolazione
dei capitali era proprio quello di sottrarre allo Stato la
possibilità di operare quella redistribuzione di ricchezze di cui
abbiamo detto. Ed a confermarcelo è un apologeta della
globalizzazione come Wolf che, dopo qualche contorsione, ammette:

«Gli
stati  possono ancora redistribuire il reddito nella misura in
cui coloro che detengono i fattori produttivi o le attività
assoggettate alle aliquote più elevate non sono in grado o non
desiderano evadere o eludere le tasse. Questi soggetti potrebbero
anche essere favorevoli a pagare le tasse, sempre che vedano la
retribuzione del reddito come un beneficio relativo a quella
giurisdizione, o perché si identificano con i beneficiari della
redistribuzione, o perché temono8 di poter diventare essi stessi
diventare beneficiari. o perché attribuiscono importanza alla
sicurezza individuale che deriva dal fatto di vivere in mezzo a
persone che non si trovano in condizioni disperate»
(9)

Per
tagliare corto: i poveracci le tasse le devono pagare mentre quelli
“che detengono i fattori produttivi…”, cioè lorsignori, le
pagano se gli va; bellissimo quel “potrebbero anche essere
favorevoli a pagare le tasse..(se) non desiderano evadere o eludere
le tasse”: bontà loro. Dopo di che qualsiasi principio liberale di
eguaglianza dei cittadini davanti alla legge è praticamente
abrogato. Quel che dimostra che liberismo e liberalismo non sono la
stessa cosa e la maggioranza dei neo liberisti non sono affatto
liberali.

Il
punto è che i capitali finanziari si sono globalizzati, ma il fisco
è rimasto nazionale e questo ha avuto come risultato la nascita di
uno stato virtuale “Riccolandia” che prende denaro da tutti e non
ne versa a nessuno. Ne riparleremo.

NOTE:

1) 
Federico RAMPINI “Obama inventa la Tassa Buffet” in Repubblica
19.9.11 p. 15. Per la verità questi graziosi cadeaux agli ultraricchi
non sono stati solo opera dei repubblicani ufficiali Bush padre e
figlio, ma anche del repubblicano ausiliario Clinton.

2)
“S24” 27.1.12 p. 23.

3)
Le cifre sono convenzionali, per capirci, non si riferiscono a nessun
paese in concreto.

4)
Robyn T, NAYLOR “Denaro che scotta” Edizioni Comunità, Milano
1989.

5)
Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo Economico, fondata
da tutti i paesi del blocco Nato con l’aggiunta della Svezia.

6)
Martin WOLF “Perché la globalizzazione funziona”.

7) 
Se nel 1990 l’aliquota massima del 40%si applicava oltre la soglia
dei 50.000 euro attuali, aver mantenuto sostanzialmente invariato
quel valore venti anni dopo,  senza tener conto della
svalutazione, ha significato spostare sempre più verso il basso la
soglia oltre la quale scatta il prelievo massimo.

8)
Il punto merita un chiarimento: “Temono” di poter diventare
beneficiari a causa di un loro eventuale impoverimento.

9)
Martin WOLF “Perché la globalizzazione funziona”.

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