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'L''irriformabilità della UE'

'L''economista Emiliano Brancaccio: ''L’Unione Europea non è più riformabile. Va fermata la circolazione indiscriminata dei capitali'''

'L''irriformabilità della UE'
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13 Settembre 2016 - 05.07


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Intervista a Emiliano
Brancaccio  a cura di Giacomo Russo Spena
.

“Mettiamocelo
bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di
cambiamento. La sostanza delle politiche economiche non è cambiata. L’eurozona
resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più
fragili e per i lavoratori di tutto il continente. Il sentiero che stiamo
percorrendo è palesemente insostenibile”. L’economista Emiliano Brancaccio non
ha mai aderito allo storytelling
renziano sulle possibilità di rilancio del progetto di unificazione europea.
Anzi, nel commentare le recenti decisioni di politica monetaria e le proposte
di gestione del post-Brexit, Brancaccio mette in luce l’affiorare di crepe
sempre più profonde nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione. 

Professore,
la settimana scorsa Mario Draghi ha dichiarato che per i prossimi mesi la BCE
non immetterà ulteriori dosi di liquidità nell’economia europea. Possiamo
affermare che nel direttorio di Francoforte questa volta Draghi ha perso, e che
hanno vinto i “falchi” dell’austerity guidati dal tedesco Weidmann?
 

Il
problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche
l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti maggiormente in difficoltà. Le
regole attuali impongono alla BCE di acquistare titoli secondo quote pressoché
fisse tra i vari Paesi, il che significa che larga parte delle erogazioni della
banca centrale finisce in Germania anziché nelle economie che ne avrebbero più
bisogno. Per iniziare ad affrontare i problemi di solvibilità dei Paesi più
fragili bisognerebbe almeno superare questi aspetti così regressivi della
politica monetaria europea. Ma i conservatori, tedeschi e non solo, ormai
bloccano anche le più modeste istanze di rinnovamento. 

Questo
significa che la BCE non riuscirà a perseguire l’obiettivo d’inflazione che si
era data?
 

Le
banche centrali non hanno mai avuto il potere di controllare l’inflazione. Il
loro vero compito è di definire le condizioni generali di solvibilità delle
unità economiche. Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa
in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri
Paesi del Sud Europa. 

Nella
conferenza stampa di giovedì scorso, però, Draghi ha auspicato che il governo
tedesco si attivi per aumentare la domanda interna e stimolare le importazioni
di merci estere, in modo da ridurre gli squilibri che derivano dall’eccessivo
surplus commerciale della Germania. È un modo per richiamare la Merkel alle sue
responsabilità? 

Un modo
molto timido, direi. In conferenza stampa Draghi ha anche aggiunto che l’Unione
europea non è un’economia pianificata, e che quindi non esistono modi semplici
per ridurre il surplus di paesi competitivi come la Germania. Questa
affermazione descrive abbastanza correttamente lo stato dei fatti, ma lasciarla
in sospeso significa creare un gigantesco alibi al governo tedesco. Se il
Presidente della BCE volesse affrontare davvero il problema, dovrebbe trarre le
conseguenze del ragionamento e riconoscere che l’eurozona sta implodendo anche
a causa di un deficit di “pianificazione”, per usare il suo stesso gergo. 

Lei è
stato l’ideatore dello “standard
retributivo europeo”
, una proposta di riforma che mirava a sanzionare la
politica di schiacciamento dei salari praticata dalla Germania. Tra gli esempi
di “deficit di pianificazione” dell’Unione possiamo contemplare anche la
mancanza di questo tipo di coordinamento europeo della contrattazione
salariale? 

In
senso lato sì, certo. Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se
il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso
sui salari relativi. Oggi si dice che in Germania le retribuzioni hanno
cambiato passo, che hanno cominciato finalmente a crescere. In effetti negli
ultimi anni il costo unitario del lavoro tedesco è cresciuto di cinque punti in
più rispetto alla media europea. Ma in questo modo è stato eliminato solo un
terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso
decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari. Oltretutto,
la forbice tra i costi si sta riducendo molto più attraverso la deflazione
salariale nei paesi periferici che tramite la ripresa delle retribuzioni in
Germania. Ma la deflazione distrugge capacità produttiva e cancella altri posti
di lavoro nel Sud Europa. Lungo questo tracciato la fragilità dell’eurozona
viene accentuata, non risolta.

Renzi e
Padoan però affermano che grazie al Jobs Act l’occupazione in Italia è
ripartita e anche oggi l’Istat parla di 439mila occupati in più nel secondo
trimestre…

Magari
Renzi crede davvero al suo storytelling
ma Padoan la verità la conosce. Dall’approvazione del Jobs Act i posti di
lavoro in Italia sono aumentati meno della metà rispetto alla crescita media
europea, che già di per sé è stata molto modesta. La ricerca accademica ha
ripetutamente provato che la precarizzazione dei contratti non crea
occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i
salari. 

È
notizia recente che l’Italia è diventata nuovamente un Paese ad emigrazione
netta: i concittadini che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati
che arrivano. La persistenza dei divari occupazionali tra l’Italia e la media
europea può spiegare anche le nuove tendenze all’emigrazione?

Non è
un fenomeno solo italiano. Si fa un gran parlare dell’immigrazione che proviene
dall’Africa e dall’Asia, ma dovremmo ricordare che almeno metà delle attuali
migrazioni è interna al continente, e riguarda cittadini dell’Unione europea.
Fin dai suoi primordi, si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato
andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi Paesi, e quindi avrebbe
indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più
forti. Rispetto al 2007, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati
in più mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno,
in Italia un milione di occupati in meno e in tutto il Sud Europa sono stati
distrutti circa cinque milioni di posti di lavoro. Nell’Unione questi squilibri
non possono essere affrontati con le politiche economiche: non solo non c’è un
coordinamento salariale, ma non sussistono nemmeno trasferimenti fiscali dalle
economie forti a quelle più deboli. In questo contesto, l’unico meccanismo che
può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto è dunque soltanto
la migrazione di milioni di lavoratori dal Sud al Nord Europa. Ma quella
migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che
richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della
velocità dei flussi. 

Secondo
lei, anche sul campo delle migrazioni, si è registrato un “deficit di
pianificazione”?

L’esigenza
di regolare la crescita dei flussi migratori era nota da tempo, ma le
istituzioni europee non sono riuscite nemmeno a elaborare una parvenza di
controllo “a valle” degli squilibri che esse stesse creavano. Come al solito,
hanno scelto di affidarsi a rozzi meccanismi di mercato, e così hanno finito
per cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia.
Basti ricordare che oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran
Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono
troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i
popoli europei.

In
un’intervista a l’Espresso lei ha sostenuto che queste tendenze potrebbero
sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, una sintesi perversa tra
vecchia e nuova prassi politica. Vede questo sbocco anche nei possibili esiti
della trattativa sulla Brexit?

Purtroppo
sì. La proposta di gestione della Brexit attualmente in voga è quella suggerita
dall’influente Istituto Bruegel di Bruxelles: promuovere un nuovo accordo tra
UE e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della
indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e
dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di
immigrati dal continente. Se questo è il meglio che gli illuminati think tank europei
sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non
è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata
un’orrida realtà di fatto.

A
questo proposito, lei insiste spesso sull’idea che proprio il caos creato dalle
ricette del liberismo economico sia stato il detonatore delle suggestioni
razziste e xenofobe che oggi attraversano il continente…

Alcuni
storici revisionisti hanno sostenuto che l’avvento dei fascismi in Europa fu
una reazione alla rivoluzione bolscevica e all’affermarsi del “grande altro”
sovietico. Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa
di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come effetto
diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale
assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente
tradeunionista. 

In
effetti, dopo la cosiddetta resa di Alexis Tsipras, con la Grecia costretta a
ingoiare la cicuta, la sinistra sembra essere finita di nuovo ai margini del
dibattito politico. I reduci del sogno di “un’altra Europa” sono oggi divisi:
Varoufakis, che insiste su un rilancio delle lotte per cambiare l’Unione
dall’interno, attacca i propugnatori della “Lexit”, che invocano un’uscita da
sinistra dall’euro per ripristinare forme di sovranità nazionale sulle leve
dell’economia. Come giudica la polemica in corso?

La
peggiore discussione possibile, chi la alimenta si diletta a dividere l’atomo
anziché cimentarsi nella fatica della sintesi. Coloro i quali oggi sostengono
di voler lottare per cambiare l’Unione dall’interno dovrebbero occuparsi di
miracolistica, non di politica. Al tempo stesso, chi parla di “sovranità
nazionale” adopera pigramente un linguaggio banale, ambiguo, oltretutto
estraneo alla tradizione del movimento operaio, che era internazionalista per
ragioni materiali e non semplicemente ideali.

Il
vertice dei Paesi euro-mediterranei voluto da Tsipras potrebbe costituire una
base internazionale di rilancio dei progetti di riforma in senso progressista
dell’Unione?

L’Unione
non è più riformabile in senso progressista. Le condizioni politiche, se ci
sono state, ora non si intravedono nemmeno all’orizzonte. Forme di
coordinamento dei Paesi euro-mediterranei potrebbero avere un senso, ma lo
scopo dovrebbe andare oltre le attuali agende politiche. 

Cosa
pensa della proposta del premio Nobel Joseph Stiglitz di dividere in due
l’eurozona con una moneta per i paesi del Sud e una per quelli del Nord?

In
linea di principio non è sbagliata, le economie del Sud Europa sono più
complementari di quanto si pensi. Ma al momento credo sia più realistico lo
scetticismo di Paul De Grauwe: se l’Unione salta, ogni paese tornerà alla
moneta nazionale. Poi si vedrà.

In
questo scenario, quale proposta si sentirebbe di avanzare?

I partiti
xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo
proponendo il blocco dei movimenti migratori di persone. Bisognerebbe
fronteggiare l’intraprendenza di queste forze reazionarie avanzando chiare
proposte alternative. Per esempio, bisognerebbe spiegare ai cittadini che la
crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla
questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei
capitali. L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore
scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro
tempo. In un contesto in cui i capitali possono muoversi da un Paese all’altro
alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e
blandi vincoli ambientali e contrattuali, ogni istanza di progresso sociale e
civile viene presto o tardi soffocata. Per questo, penso che sarebbe utile
lavorare collettivamente intorno all’idea di un “labour standard sulla moneta”,
vale a dire un sistema di gestione delle relazioni internazionali finalizzato
al controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, specialmente
da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale. 

In
Italia vede al momento forze politiche disposte a fare della proposta di
controllo dei movimenti di capitale una vera e propria bandiera?

Dalle
nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla. Eppure, quando ai
prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i programmi dei
partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze
assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali.

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