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Sanità ed economia, simul stabunt vel simul cadent

E' vero che la stabilità favorisce gli affari, ma è altrettanto vero che il capitalismo è fatto per sguazzare nelle crisi, per distruggere (tanto) e ricreare: si fa sempre trovare pronto. E noi?

Sanità ed economia, simul stabunt vel simul cadent
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4 Novembre 2020 - 14.29


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di Pino Cabras.

Babele Covid

Nel valutare l’impatto del fenomeno Covid 19 sono innumerevoli i tentativi di mettere le brache al mondo, di leggere con schemi puerili un fenomeno che invece si rivela ovunque con estrema complessità, di imputare colpe a certi attori per scagionarne altri, di considerare insomma tutto dentro il proprio metro quadro di competenze, tralasciando quelle altrui. Il Signore della Genesi sembra fare il remake: «Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Missione compiuta: Babele colpisce ancora. E gli scontri di piazza di questi giorni sembrano un acconto di nuove e più profonde “incomprensioni”, chiamiamole così. Per abitudine, l’umanità perturbata dall’epidemia del secolo pretende ancora parole precise, punti di riferimento saldi, sirene che confermino le speranze. Fantastica la corsa dietro il dito puntato contro qualcuno: è colpa sua, no, è colpa sua. Così come commuove l’attesa di qualche decisione salvifica e risolutiva, possibilmente da un’angolazione desolatamente provinciale (quelli che “il governo ITALIANO ha distrutto il paese”), mentre il pianeta sta bruciando.
Poche settimane prima di lasciarci, Giulietto Chiesa avvertiva: «Il coronavirus è il “deus ex machina” che viene all’improvviso dal profondo della complessità della crisi e si rivela capace di demolire tutti i sistemi minori, ciascuno dei quali ritiene di poter vivere autarchicamente ed eternamente.»
 
Great Reset. Chi ha filo da tessere tesse
Non c’è dunque una lingua comune, c’è una crisi comune che ci assimila e che cambierà il mondo. Una parte delle classi dirigenti delle grandi tecnostrutture è pronta a prendere le decisioni che modificano i rapporti di forza e di potere. Questo succede perché è sì vero che la stabilità favorisce gli affari, ma è altrettanto vero che il capitalismo è fatto per sguazzare nelle crisi, per distruggere (tanto) e ricreare: si fa sempre trovare pronto per le crisi e le chiama opportunità, o magari Great Reset  (cioè un gattopardismo tecnocratico, più dinamico del conservatorismo tradizionale).
Questa è una grande crisi; ergo, è una grande opportunità per chi l’aveva saputa attendere impassibile nei bivacchi del grande latifondo mondiale. Altro che governi protagonisti dittatoriali delle scelte! Li vedo semmai rincorrere affannosamente gli eventi, laddove altri grandi poteri hanno la pazienza del ragno e perfino la capacità di portare a proprio beneficio le convulsioni degli antisistema più ingenui. Il fatto è che i partiti occidentali non prendono i voti degli elettori in base a programmi che guardino lontano, bensì su promesse elettorali che hanno scadenze brevi e non implicano programmazione, né pianificazione, né grandi scenari. Navigano a vista. E alla maggior parte degli elettori in fondo per anni è piaciuto così. Di conseguenza i partiti (e anche gli elettori) sono spiazzati da una crisi come questa, che esce da quegli schemi che avevano selezionato il loro personale politico e i loro governi. Possono intromettere tentativi d’ordine, correzioni, o al contrario opportunismi, tentativi di incrementare potere e controllo locale in qualche provincia dell’impero. Ma spesso sul loro «agire» prevale l’«essere agiti» dagli eventi. Nel frattempo, Amazon polverizza ogni record mentre sprofondano interi settori merceologici, e – potete scommetterci – le grandi compagnie farmaceutiche schierano i migliori lobbisti per orientare le scelte sulle cure che daranno sollievo ai loro bilanci anziché ai pazienti.
 
Crisi sanitaria e crisi economica. Un bilancio comparato
Possiamo fare un bilancio provvisorio e comparato, sia della crisi sanitaria sia della collegata crisi economica.
Partiamo dalla sanità.
Invito tutti a guardare le curve dei contagi, dei ricoveri e dei morti dei paesi dell’estremo oriente asiatico per poi confrontarle con i bollettini che vengono dai paesi europei e dalle Americhe. In Giappone, nella Repubblica Popolare Cinese, a Taiwan, in Corea del Sud e in Vietnam (un’area molto vasta segnata da regimi politici diversissimi, in tutto 1,74 miliardi di abitanti) la curva epidemiologica è piatta da inizio aprile. Si registrano pochissimi casi al giorno, nessun vero focolaio, passano settimane senza che muoia nessuno positivo al virus SARS-CoV2. Un conto sarebbe qualche settimana, un conto è vedere tutta la linea temporale: i dati sono eclatanti e parlano chiaro. Il collasso del sistema sanitario in quei paesi è stato scongiurato da un’inesorabile macchina di tracciamento e di medicina territoriale, proprio quel che manca all’Italia e in proporzioni analoghe agli altri Paesi europei: un immenso dispositivo pubblico capillare, non incentrato sugli ospedali, con una profonda e tempestiva interoperabilità dei sistemi, senza il fardello di sub-poteri dediti al clientelismo e alla propaganda. I cinesi, appena è partito il focolaio di Wuhan, hanno innanzitutto rimosso i caporioni della provincia dello Hubei. Noi riconfermiamo i De Luca a furor di popolo. In Giappone, a Taiwan e in Corea del Sud non hanno nemmeno dovuto porsi il problema di qualche signorotto locale. E sarà pure significativo che il Vietnam, che fronteggiò l’epidemia di Sars del 2003, gode oggi dei forti investimenti in sanità: mentre noi tagliavamo selvaggiamente, i vietnamiti hanno avuto un aumento medio annuo del 9% della spesa sanitaria pubblica tra il 2000 e il 2016.
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Allora domandiamoci onestamente: non è che l’Europa ha proprio sbagliato alla grande di fronte a questa catastrofe? Ce lo dice in modo spietato e inoppugnabile la brutale comparazione con la relativa normalità riacquistata proprio dai paesi più esposti alla primissima ondata dell’epidemia: a Wuhan e in tante altre megalopoli orientali si vive normalmente (certo con qualche profilassi molto più rigorosa aggiuntasi nella quotidianità), da noi si va verso un aggravamento delle misure di confinamento, al punto che il tracciamento non traccia più nulla. Troppo tardi, ormai. Si ripropone la stessa situazione della prima ondata dell’epidemia, con i sistemi sanitari nazionali sequestrati dalla curva crescente dei contagi, dallo scarso avvicendamento delle prolungate terapie intensive e dall’imminente saturazione ospedaliera: un meccanismo devastante e rapidissimo che porta a chiudere tutto, com’è accaduto in nazioni e società diversissime fra loro e non legate certo a una catena di comando unica. Non è «un’influenza come altre», come molti insistono a strillare, sbagliando: è un’epidemia che ha un modo di propagarsi che – una volta perso il controllo – mette in ginocchio rapidamente l’organizzazione della sanità, una trave maestra delle società contemporanee.
Il dramma ha tante implicazioni. Se blocchi intere regioni, interi Paesi, infine interi continenti, salvi così delle vite umane?
Sì, da un lato, salvi le vite umane, perché hai la necessità impellente di evitare la sommersione e il collasso dei reparti ospedalieri. Immagina un grosso incendio in una casa. Per arrivare a sottrarre al rogo le potenziali vittime abbatti porte e finestre, devasti stanze, sacrifichi attrezzature, distogli i pompieri al contemporaneo incendio che nel frattempo è scoppiato presso un capannone disabitato. Allo stesso modo per l’epidemia i nudi fatti stanno portando governi diversissimi fra loro a scegliere analoghe forme e periodi di confinamento di massa anche se devono pagare prezzi sociali ed economici mai visti.
No, dall’altro lato, non salvi vite umane. Non parlo nemmeno dell’interruzione spesso totale delle cure per altre malattie (che per adesso consideriamo ancora un fenomeno “provvisorio”). C’è di peggio, cioè un effetto strutturale dovuto a una “retroazione” della crisi economica anche sulla crisi sanitaria: il crollo economico fa crollare le aspettative di vita, garantite fin qui, negli ultimi sessant’anni, dal benessere che sorreggeva il sistema.
Il sociologo Marco Pitzalis ha pubblicato una tabella che mostra l’andamento delle aspettative di vita in Russia dopo la fine dell’Unione sovietica. Quando il sistema russo venne sottoposto al piccone neoliberista e alle privatizzazioni selvagge (su ispirazione nordamericana per mano del ministro 35enne Egor Gajdar), seguirono anni di sofferenze e miseria che determinarono una caduta verticale delle condizioni esistenziali di milioni di cittadini, con un riflesso diretto sulla loro salute. Le speranze di vita dei cittadini maschi scesero addirittura a 58 anni. Il trauma economico fece strage. Ci vollero molti anni di ricostruzione economica per recuperare il terreno perduto e la depressione demografica.
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Non c’è da attendersi nulla di meglio oggi qui da noi se non cambia anche l’economia sottoposta al trauma Covid. Sanità ed economia, simul stabunt vel simul cadent. Insieme staranno o insieme cadranno.
Veniamo dunque al tema della crisi economica.
Pure in questo campo registriamo un grave grippaggio dell’economia europea sconquassata dai giganteschi crolli settoriali e dalle scosse sui bilanci dei suoi paesi. Anche qui confrontiamo gli accadimenti europei con quelli dell’Estremo oriente, così come per la crisi sanitaria. In più risulta illuminante il confronto con gli Stati Uniti d’America, pur colpiti in modo analogo all’Europa dal lato sanitario. Il confronto è impari. Nel 2020 le economie europee crollano e si riprendono, sì, ma senza recuperare del tutto. In USA invece nel secondo trimestre assistiamo al crollo del PIL più repentino e drammatico nella sua storia (meno 31,4%), ma nel terzo trimestre assistiamo alla ripresa più spettacolare mai accaduta (più 33,1%). Dopo la crisi finanziaria del 2008 gli USA ci misero tre-quattro anni a riprendersi (qualcuno dice sette anni). La Federal Reserve (Fed), ossia la banca centrale USA, dovette inventarsi un modo di “stampare moneta”, il Quantitative Easing, che ebbe comunque un rodaggio prolungato. Questa volta la risposta statunitense alla crisi è stata decine di volte più rapida e potente: una fulminea immissione di liquidità che ha versato nei conti correnti di cittadini e imprese immani risorse, prontamente fungibili.
In USA, dati alla mano, i clic provvidenziali della Fed ricreano la provvista direttamente nella banca online di suoi cittadini. Lo stesso è accaduto in Corea del Sud e Taiwan (pur con sbalzi meno scenografici), in Giappone (che punta tuttavia sul 2021), in Cina (dove la grande corsa dell’economia è già ripresa in funzione di un velocissimo riadattamento al mercato interno).
E anche in Europa i segnali di ripresa sono venuti soltanto grazie alla forte copertura della Banca Centrale Europea (BCE), attraverso una sua versione del Quantitative Easing, su una scala più ridotta nonché frenata dai tedeschi. Sebbene inibito da notevoli remore, il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme, ossia “programma di acquisto per l’emergenza pandemica”) è pur sempre un programma da 750 miliardi di euro (750.000 milioni) che si dispiegano già ora nell’anno in corso, non con i tempi dilatati e taccagni dei summit europei.
Si può allora ben capire quale sia il vero ordine di grandezza del Recovery Fund alias Next Generation EU, il piano per risollevare l’Europa dal Covid: arriverà tardi – non nel 2020 e solo in poca misura nel 2021 – e avrà un impatto macroeconomico inferiore all’1 per cento del PIL. Troppo poco, troppo tardi e con troppe condizioni.
L’Europa politica lo propaganda per dirsi ancora utile e ne decanta le virtù salvifiche, ma è una montagna di avare promesse che partorisce un topolino. Stiamo parlando di frazioni minuscole di intervento economico, poste sotto il tallone di un sistema farraginoso che rende eterna la semiparalisi dell’Europa in un ambiente competitivo dove alcuni paesi dominanti vogliono perpetuare il “vincolo esterno” degli altri paesi. Il saldo reale del fondo perduto è di fatto modestissimo, e diventerebbe una dose omeopatica di fronte a una seconda ondata pandemica, che è già qui. L’unico pregio del compromesso raggiunto a Bruxelles è che dà un segnale calmierante sulla dinamica speculativa degli spread e perciò contribuisce a disinnescare le pressioni extra sui debiti pubblici. Ma fuori dagli strumenti monetari della BCE, pur frenata come dicevamo, non troviamo nulla che faccia riprendere l’economia. Ho sentito grandi entusiasmi anche nel mio gruppo parlamentare intorno a questo ennesimo avvitamento della giostra europea, ma la seconda ondata del Covid ne farà strame, ne sono certo. Bisogna già ora pensare ad altri strumenti ben più potenti e immediati, senza indugiare. Ci tornerò, sul punto.
Non dobbiamo raccogliere speranze da convogliare in un vicolo cieco. Dobbiamo guardare con il massimo realismo alla verità effettuale delle condizioni sanitarie ed economiche che ora subiranno un’estrema torsione. La seconda ondata porta a un nuovo fermo economico di ampi settori con riflessi massicci non solo sulla vita civile ma anche sui meccanismi stessi della riproduzione economica. I palliativi oggi ci appaiono deboli, domani ci appariranno criminali. Cosa può fare la Repubblica Italiana in questa fase storica? E cosa può fare la forza oggi più rappresentata in Parlamento, il MoVimento 5 Stelle?
 
Nuove scelte forti per il M5S
Una premessa di fondo: analizziamo innanzitutto la condizione attuale del M5S. Il MoVimento 5 Stelle è stato fondato e si è sviluppato come una sorta di “partito della crisi” che dava risposte forti ai bisogni di grandi masse popolari colpite dal declino economico e dal fallimento morale delle classi dirigenti italiane che avevano servito le classi dirigenti europee all’interno della gabbia del trattato di Maastricht.
Il M5S esprimeva nel corso del tempo un’intransigenza segnata da parole d’ordine – piacessero o meno – profondamente riconoscibili, in grado di coalizzare un elettorato eterogeneo ma condensato dentro un nuovo senso di appartenenza. Milioni di esclusi (fosse la loro un’esclusione o sociale o politica o economica) incontravano una nuova forza politica che presentava un set di proposte originali molto caratterizzate, ammantate persino di una retorica rivoluzionaria, “guerriera” e antisistema. Chi nega questa cosa semplicemente non riesce a capire come un terzo dei votanti nel 2018 scelsero il M5S.
La doppia esperienza di governo del Conte I e Conte II ha portato a realizzare pezzi importanti del programma politico del M5S, ma questo non basta a far reggere più questo fabbricato. Nel frattempo sono entrati in profonda crisi sia la sua originale, fragile e azzardata forma-partito sia la capacità di innovare programmi, idee e proposte. L’atterraggio è stato duro non solo nel dare risposte agli attivisti e agli elettori, non solo nel rapporto con le vecchie volpi dei partiti tradizionali con cui ha formato i governi, ma anche nell’impatto con lo Stato Profondo (che ha fatto il suo antico mestiere di palude burocratica in grado di disinnescare le riforme). Registriamo ora un distacco dai territori, una dignitosa routine governativa non trainante ma trainata, uno sbilanciamento in favore della macchina propagandistica a totale discapito dell’elaborazione culturale e programmatica. Proprio ora che occorrono più che mai nuove idee forti, nuovi obiettivi, nuovi principi guida. Servirebbe un MoVimento che trascini, che non si trascini e che non si faccia trascinare dalle forze che ha combattuto, che conti su una cosa importante: la propria autonomia. La scommessa degli Stati Generali, cioè la forma congressuale scelta per determinare il futuro del M5S, si gioca in mezzo a un passaggio esistenziale drammatico. Il problema è che non assistiamo a un formidabile dibattito, per la verità, e tutto appare poco all’altezza della sfida. La reggenza uscente ha scelto finora un autolesionistico appiattimento sull’esistente, incompatibile con la tempesta in corso.
Qual è il tema centrale? Vivendo in pieno in questa fase storica dobbiamo essere ancora una volta una sorta di “partito della crisi”, ma dobbiamo esserlo secondo le nuove condizioni materiali oggettive e le nuove priorità della bufera Covid, in cui sanità ed economia stanno insieme.
 
Reset. La proposta forte di una Moneta Fiscale
Credo che sia realistico immaginare che l’Italia, così come tutta l’Europa, dovrà sostenere nuovamente un pesante colpo. Il Covid19 ha una sua peculiare velocità che trionfa davanti alle insufficienze e lentezze del sistema sanitario così com’è ora, alle burocrazie, ai sistemi decisionali ereditati dagli ultimi decenni, ai costumi attuali dei cittadini. Possiamo essere certi che subiremo uno shock economico che minaccerà ancora più seriamente la tenuta sociale. Il compromesso costituzionale è – tra le tante cose – anche un patto sociale per il benessere, la libertà e la sicurezza dei cittadini, e la dimensione dello shock andrà a rompere in più punti proprio le fondamenta del patto. Si tratta quindi di una traversata estrema e pericolosa, quasi un “passaggio di fase”. Come quello dell’acqua quando passa dallo stato liquido a quello gassoso. L’universo fisico in cui ci muovevamo cambia già ora. Dovremo fare anche noi un grande Reset innanzitutto dello strumento più vicino che adottiamo, il MoVimento, a partire dai suoi obiettivi fondamentali.
Vado alla questione delle questioni. Posto che patiremo con ogni certezza un trauma smisurato, dovremo curarlo con un contro-trauma economico di inedita e pari forza. Se prima eravamo il “partito degli esclusi della piccola crisi” e proponevamo il Reddito di Cittadinanza come grande risposta per milioni di sommersi dalla crisi, oggi dobbiamo essere il “partito dei colpiti dalla grande crisi” e dobbiamo proporre una risposta ancora più caratterizzante e coraggiosa. Io credo che questa risposta consista in un programma di rinascita economica incentrato su una Moneta Fiscale che colmi quel che l’euro, alle condizioni attuali, non potrebbe colmare da solo: un grande bisogno di liquidità che la Repubblica italiana può realizzare attivando i suoi punti di forza, rimasti intatti a dispetto delle crisi di questi anni e perfino della crisi pandemica.
Certo, è quanto mai necessario che la Banca Centrale Europea prenda essa per prima tutte le misure proporzionate ai rischi che stiamo correndo. E faccia pienamente il mestiere di banca centrale. Ci torneremo. Se non fosse stata tragica per la Grecia e alcune generazioni italiane spolpate vive con la scusa del debito, oggi sarebbe persino buffa la discussione in seno alla Commissione Europea sulla possibilità di monetizzare/cancellare i debiti Covid. Ora che la crisi tocca da vicino Francia e Germania, quel che causava sacrifici umani in altri paesi si scopre che si può superare con un clic e l’acqua diventa vino. Ma intanto vediamo cosa possiamo fare noi.
Ormai molti giornali economici hanno capito il valore straordinario e le potenzialità del Superbonus 110%, la detrazione fiscale a favore del contribuente del 110% sulla spesa sostenuta per veri tipi di riqualificazione edilizia, una detrazione così facilmente cedibile da diventare un mezzo di pagamento. I cronisti economici usano ormai disinvoltamente il termine Moneta Fiscale. È una misura che il M5S ha fortemente voluto, e rappresenta la versione immediata, iperpragmatica e “timida” della mia più complessiva proposta di legge sui Certificati di compensazione fiscale (CCF). Ecco, non è il momento di essere timidi, proprio no. Con il Superbonus si è affermato il principio che già avevamo chiarito sui CCF: le compensazioni fiscali non generano debito, perché non comportano pagamenti futuri da parte dello Stato che emette i titoli, come invece avviene nel caso dei titoli di debito, Se vale per l’edilizia, può valere anche per tutto l’arco delle attività economiche. Le tecnostrutture pubbliche legate a uno status quo abbattuto dalla Storia si stanno opponendo ai CCF con argomenti deboli che il M5S non ha ancora confutato con una presa di posizione forte, ma sono resistenze che dobbiamo travolgere con una forte assunzione di coraggio e determinazione politica. Dobbiamo presentarci con una proposta forte paragonabile per impegno e impronta identitaria a quel che abbiamo fatto a suo tempo per il Reddito di Cittadinanza, ma ancora più forte, interclassista, di portata generale su tutto il sistema economico.
Dobbiamo istituire una piattaforma elettronica dedicata allo scambio di compensazioni fiscali in grado di attivarle come equivalente alla liquidità disponibile e utilizzabile nei pagamenti. Si tratta di rendere possibile la trasferibilità di qualsiasi agevolazione fiscale (credito, detrazione, sconto, compensazione) tra tutti i soggetti giuridici residenti. L’attuale piattaforma informatica pubblica che risiede presso l’Agenzia delle Entrate ai fini della trasferibilità delle agevolazioni fiscali (crediti, detrazioni, sconti), va tuttavia riorganizzata e resa di uso semplice e facile tra tutti i cittadini. In proposito esistono progetti di legge già depositati (tra cui quello sui CCF, da approvare in modo coordinato o recepire già per decreto), oltre a miei ordini del giorno accolti dal Governo in sede di approvazione dell’ultima legge di bilancio e di altri successivi provvedimenti economici. In proposito si può creare un Conto Fiscale Unico (comprensivo di Iva per aziende).
Essendo i CCF degli sconti fiscali a scadenza differita avranno un impatto posticipato sul bilancio pubblico. In altri termini, il differimento garantisce la circolazione dei titoli nel periodo che intercorre tra l’emissione e la scadenza e quindi la possibilità di far funzionare i titoli fiscali come mezzo di pagamento complementare all’euro per un periodo di due anni. Tutto ciò senza creare nuovo debito e senza i giganteschi costi geopolitici del “rompere” la moneta unica europea. I CCF sono in effetti una ‘quasi moneta’ con natura fiscale.
La proposta può ben sposarsi con altre proposte su cui stanno lavorando alcuni colleghi, miranti a rendere molto facile avviare imprese e attività professionali rovesciando la piramide degli adempimenti fiscali. Così come può sposarsi a un insieme di proposte che avevo presentato la scorsa primavera assieme a decine di colleghi, gravemente sottovalutate dalla reggenza uscente del M5S, tutta assorbita da una miope politique politicienne.
 
Riassumendo
Riassumendo: la crisi sanitaria è un potente fattore di destabilizzazione delle nostre società che va misurato su scala planetaria, avendo presenti gli effetti devastanti sul sistema economico. Attardarsi a vecchie ricette politiche e attendere soluzioni di lungo termine è incompatibile con gli sviluppi ravvicinati della crisi. Chi oggi ha responsabilità di governo, come una forza nata innovativa come il M5S, ha come unica strada percorribile il proporre una soluzione fuori dagli schemi e lo deve fare investendo tutto il proprio peso, che non si è esaurito, in raccordo con masse di cittadini da rappresentare in modo nuovo. Bisogna essere il partito più attento alla nuova grande crisi. La mia proposta è fare un grande investimento politico sui bonus fiscali da rendere un sistema efficace di transazione, una quasi-moneta in grado di far reggere e rilanciare interi settori. Offriremo una risposta concreta e immediata alla nostra Repubblica nella sua ora più oscura.
Il tempo è adesso.

 

Roma, 3 novembre 2020

Pino Cabras, deputato del MoVimento 5 Stelle.

Fonte: https://www.pinocabras.it/sanita-ed-economia-simul-stabunt-vel-simul-cadent-un-reset-per-il-m5s/ 

 

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