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Non è un Paese per onesti - PM Di Matteo

Lo Stato processa se stesso, il presidente della Repubblica finisce intercettato con un indagato e reagisce, mentre chi indaga viene isolato e minacciato. [beppegrillo.it]

Non è un Paese per onesti - PM Di Matteo
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7 Aprile 2014 - 23.52


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Intervista a Nino Di Matteo.

In un Paese in cui lo Stato processa se stesso,
in cui il presidente della Repubblica finisce intercettato con un
indagato e schiaccia una procura contro la “sua” Corte Costituzionale,
chi porta avanti un’inchiesta per l’accertamento della verità viene
isolato, minacciato, processato dai suoi stessi colleghi e poi,
ovviamente, si fa di tutto per togliergli quelle carte di mano.

Nino Di Matteo, pm di Palermo sotto scorta, non può
più vivere come una persona libera. Sacrificio a cui non si
contrappongono riconoscimenti istituzionali o l’appoggio delle più alte
sfere dello Stato. Tutt’altro. Ma va bene così.

“I momenti di perplessità e di scoramento sono tanti e non
appartengono soltanto al passato” dice Di Matteo, ma sono superati dall’
“entusiasmo per il lavoro che faccio, che era quello che desideravo
fare quando ho iniziato i miei studi di giurisprudenza, e che è
obiettivamente entusiasmante, là dove proceda per l’accertamento della
verità”. È questa passione che “fa prevalere in me, così come nei miei
colleghi, la forza di andare avanti nonostante tutto, nonostante la
consapevolezza che questa inchiesta, che questo tipo di lavoro,
certamente non paghi ai fini della carriera, ai fini del quieto vivere,
ai fini dell’aspirazione a nomine per uffici direttivi o altri incarichi
importanti. Non ha importanza, noi facciamo i magistrati, abbiamo
giurato sulla Costituzione e la cosa più bella ed entusiasmante che ci
possa capitare è quella di avere la consapevolezza di cercare con tutti i
nostri limiti di fare il nostro lavoro senza condizionamenti, paure,
tentennamenti”.

L’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, indirettamente, è arrivata fino al Quirinale con quelle telefonate
fra Napolitano e l’ex senatore Mancino che dovevano essere distrutte a
ogni costo e che nei cittadini hanno lasciato un enorme dubbio. “Abbiamo
fino dall’inizio rilevato e anche esternato che quelle intercettazioni
non erano penalmente rilevanti” spiega Di Matteo, orgoglioso di come sui
giornali non sia uscita neanche una parola. Eppure non è la prima volta
che la voce del Capo dello Stato viene incisa su un nastro dagli
investigatori. È già accaduto, a Milano e a Firenze, con Scalfaro e con
lo stesso Napolitano. Quelle intercettazioni, invece, “erano state
trascritte dalla polizia giudiziaria, cosa che non è avvenuta in questo
caso, depositate agli atti del processo, cosa che non è avvenuta in
questo caso, e finirono sulle pagine dei giornali, cosa che non è
avvenuta in questo caso. Ebbene, per gli altri casi non fu sollevato il
conflitto di attribuzioni, in questo caso è stato sollevato. Questo è il
dato di fatto” aggiunge Di Matteo, che in verità fra Quirinale, CSM e Riina non sa da chi doversi guardare prima.

Dopo l’intervento senza precedenti del Presidente della Repubblica
che ha portato il caso fino alla Consulta per difendere la sua “inviolabilità”,
ci si sono messi anche i suoi colleghi: lo hanno sottoposto a un
procedimento disciplinare che, secondo lo stesso pg della Cassazione che
ha sostenuto l’accusa, non aveva ragion d’essere (tanto è vero che oggi
è stato prosciolto, ndr). E accanto allo Stato, fra Quirinale e Csm (a
capo di entrambi Giorgio Napolitano), non poteva mancare la mafia, con
la voce più pesante, autorevole e terrorizzante: quella di Totò Riina.
L’ha giurata a quel magistrato con la schiena dritta che va avanti
nonostante i molteplici attacchi.

“Tecnicamente, perdonerete la
precisione pignola, non sono delle minacce – spiega Di Matteo – perché
fino a prova del contrario Riina non sapeva di essere ascoltato e quindi
non sapeva che il minacciato, tra virgolette in questo caso io, lo
stesse ascoltando, e allora non sono delle minacce, ma sono più che
altro esternazioni, auspici, per non dire ordini di morte nei miei
confronti”.

Riina ha condanne per secoli e secoli di carcere sulle
spalle, come possa temere un processo in più o uno in meno non è dato
sapere. Ma “c’è un motivo, contingente, legato alla paura, al timore che
Riina certamente ha sulla possibile emersione di suoi rapporti esterni
nel periodo delle stragi. Però – prosegue Di Matteo – credo che ci sia
anche un aspetto di natura più generale da considerare, e cioè il Riina
evidentemente auspica un ritorno a una strategia di violenta
contrapposizione allo Stato che invece da quando si è verificata la
cessazione delle stragi del ’93 Cosa Nostra ha
abbandonato”. Insomma, una questione di DNA e “Riina è convinto che
-anche al fine di negoziare i propri, non soltanto propri, personali, ma
i rapporti della mafia con l’organizzazione statuale- le bombe, gli
omicidi eccellenti siano sempre il viatico migliore”.

Con un fuoco incrociato del genere non poteva mancare qualcun altro
per provare a scippare quel processo e quell’inchiesta a Di Matteo. A
provarci è un altro pezzo di Stato seduto sul banco degli imputati: gli
ex Ros Subranni, Mori e De Donno che, preoccupati dei
riflessi di ordine pubblico dopo le terribili minacce di Riina, hanno
chiesto che il processo si spostasse in altra sede. Ricominciando da
zero. E la procedura, questa volta, è stata fulminea, tanto che il 18
aprile la Cassazione emetterà il verdetto. “È un fatto assolutamente
importante e grave, mi stupisce, ma forse non troppo, considerata la
disattenzione generale per il problema, per la vicenda della trattativa,
constatare come gli organi di stampa non ne abbiano sostanzialmente
dato notizia, se non nella prima battuta, nella prima fase, senza
appunto chiedersi ciò che deriverebbe non soltanto dallo spostamento del
processo, ma da un accoglimento che sancirebbe un principio devastante,
e cioè che la violenza o la minaccia di un imputato nei confronti dei
magistrati che hanno istruito il processo e che rappresentano la accusa
nel processo può fare spostare il processo dalla sede naturale. Cioè
sostanzialmente nel caso di accoglimento si determinerebbe anche un
precedente molto pericoloso, devastante per il futuro, per cui la
violenza nei confronti dei magistrati che celebrano il processo potrebbe
indurre a violare il principio costituzionale del giudice naturale”.

Tutto ciò non può non portare alla considerazione che, evidentemente,
questi giudici abbiano toccato qualcosa che ha fatto saltare i nervi a
tutti i livelli – sia nello Stato che nella criminalità organizzata –
senza, magari, neanche accorgersene. “Certe volte questa stessa domanda
me la pongo anche io – dice Di Matteo – ce la poniamo con i nostri
colleghi, e obiettivamente non so risponderle. Qualche volta abbiamo
avuto la sensazione in esito a determinate reazioni che ci sono state al
progredire delle nostre indagini anche di avere potuto, senza averne
piena consapevolezza, sfiorare delle verità forse troppo scomode”.

Di Matteo ha una sua idea dell’evoluzione del rapporto fra criminalità e politica,
e il brodo di coltura nel quale si sviluppano è quello della
corruzione: “È proprio attraverso quelle condotte, di corruzione, di
abuso di ufficio, di turbativa d’asta, condotte commesse da pubblici
ufficiali o da soggetti che collaborano con i pubblici ufficiali, che le
mafie riescono a penetrare il potere”. Perché in questo Paese si prende
sempre la scorciatoia di scaricare tutto addosso ai magistrati, di
regolare tutto col diritto penale, mentre altri sarebbero i principi da
far valere “fare valere responsabilità di tipo diverso, di tipo
politico, di tipo deontologico, di tipo disciplinare”.

E dopo un viaggio attraverso un incubo, il magistrato dalla schiena
dritta qualche sogno lo continua a coltivare. Primo quello di
riconquistare una propria libertà personale. Ma anche “quello di
contribuire, anche un minimo, senza enfatizzare mai né il mio ruolo, il
mio lavoro, il nostro lavoro, a cercare di fare vivere i miei figli, i
nostri giovani, in un paese diverso, dove non ci siano la libertà e la
democrazia condizionate e fortemente limitate dalla illegalità, dalla
corruzione, dalle mafie. Questo è il mio sogno, ma anche la mia
speranza” chiude Di Matteo che auspica anche un futuro diverso per la
magistratura italiana.

“Il sogno di una magistratura che
per prima coltivi al suo interno l’autonomia e l’indipendenza, non
soltanto difendendosi dagli attacchi esterni, ma anche dagli attacchi
interni, cioè dalla tentazione di mutuare dalla politica le peggiori
logiche, per esempio quelle per cui l’autogoverno della magistratura è
determinato dalle logiche delle correnti. Una magistratura che
all’interno di ciascun magistrato recuperi l’essenza fondamentale della
consapevolezza di dovere rispondere soltanto alla legge e di non
perseguire mai il risultato più opportuno, ma quello più conforme alla
legge, alla giustizia e verità”.

Nicola Biondo, Andrea Cottone

Il Csm ha prosciolto il magistrato in istruttoria,accogliendo la richiesta del Pg della Cassazione. Ansa del 2 Aprile 2014

Per leggere l’intervista integrale clicca qui

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Fonte: http://www.beppegrillo.it/2014/04/passaparola_-_non_e_un_paese_per_onesti_-_pm_nino_di_matteo.html.

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