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Una prescrizione vi salverà

La prescrizione e il sistema delle impugnazioni sono tra le principali cause dell’irragionevole durata dei processi, molti dei quali finiscono in un nulla di fatto. [P.Davigo]

Una prescrizione vi salverà
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30 Novembre 2014 - 19.33


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di Piercamillo Davigo

Le norme che regolano la prescrizione e il sistema delle impugnazioni sono due delle principali cause dell’irragionevole durata dei processi in Italia, molti dei quali dopo svariati anni finiscono in un nulla di fatto. Da garanzie per l’imputato, questi istituti si sono trasformati in strumenti dilatori e, combinandosi con altre anomalie italiane, come il frequente ricorso ad amnistie e indulti, sono diventati garanzie d’impunità. Anche e soprattutto per questi motivi l’Italia è al 157° posto per la durata dei procedimenti e per l’inefficienza della giustizia, preceduta da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo. La crisi della giustizia

In Italia la durata dei procedimenti, sia civili che penali è molto elevata e ha esposto lo Stato italiano a numerose condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Le cause principali dell’eccessiva durata dei processi sono da ricercare nell’eccessivo numero dei procedimenti oltre che nell’interesse di talune parti private a differire il più possibile la decisione che si prevede sfavorevole e soprattutto l’esecuzione della stessa.

Il rapporto annuale Doing business della Banca mondiale del 2011, dedicato alla classifica dei paesi dove conviene investire, indica l’Italia al 157° posto, su 183 paesi, per la durata dei procedimenti e per l’inefficienza della giustizia, preceduta da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo.

In Italia occorrono 1.210 giorni per il recupero di un credito commerciale, in Germania appena 394. Osservava l’ex governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nel suo ultimo appuntamento prima di passare al nuovo incarico di presidente della Banca centrale europea: «L’incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che d’ingiustizia. Nostre stime indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale» 1.

Al 30 giugno 2011 la massa dell’arretrato era di quasi 9 milioni di processi (5,5 milioni nel settore civile e 3,4 milioni in quello penale), mentre sono cresciuti a dismisura i tempi medi necessari per la definizione di una causa: nel civile 7 anni e tre mesi (2.645 giorni) e nel penale 4 anni e nove mesi (1.753 giorni).

Il problema, contrariamente a quel che molti pensano, non dipende da risorse insufficienti: in materia di giustizia l’Italia spende più o meno quanto la Gran Bretagna ed è comunque in linea con la media della spesa per la giustizia dei paesi europei.
Le cause della crisi non dipendono neppure da una carenza di produttività degli apparati giudiziari italiani che, secondo la Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej), è fra le più alte dei 48 Stati membri del Consiglio d’Europa.

L’anomalia è rappresentata da una domanda patologica di giustizia sia nel settore civile che in quello penale: nel settore civile vengono avviate ogni anno in Italia più nuove cause di quante ne vengono iniziate in Francia, Regno Unito e Spagna messe insieme.

Le sopravvenienze civili annue contenziose di primo grado per ogni giudice in Italia sono 438,06, in Francia 224,15, in Germania 54,86. Quelle penali annue (reati gravi) per ogni giudice, in Italia sono 190,71, in Francia 80,92, in Germania 42,11 (dati Cepej 2008; per il 2010 non sono disponibili i dati relativi alla Germania) 2. Ciò, a mio avviso, dipende in gran parte dal fatto che il sistema legale tende a tutelare maggiormente chi viola la legge piuttosto che chi subisce una lesione dei propri diritti dalle altrui violazioni.

Per quanto riguarda in particolare il sistema penale, quando fu introdotto il vigente codice di procedura penale, al rilievo che tale codice avrebbe almeno triplicato i tempi della giustizia penale, dal momento che prevedeva l’inutilizzabilità degli atti compiuti nelle indagini preliminari (tranne quelli irripetibili) e la reiterazione delle prove in dibattimento, i fautori della riforma risposero che solo pochi procedimenti sarebbero stati trattati in dibattimento, mentre la maggior parte sarebbero stati definiti con riti alternativi (patteggiamento e giudizio abbreviato), grazie alle riduzioni di pena previste per chi avrebbe scelto tali riti.

In realtà in Italia la percentuale di definizioni con riti alternativi è di circa il 15 per cento, molto lontana da quella degli Usa, dove il 90 per cento degli imputati si dichiara colpevole 3.
Il risultato è che, in Italia, un numero enorme di procedimenti viene trattato con rito ordinario.
L’elevato numero di procedimenti penali dipende ovviamente anche dal numero di fattispecie previste e dall’obbligatorietà dell’azione penale imposta dall’articolo 112 della Costituzione.
Tuttavia in una situazione come quella italiana, in cui la devianza delle classi dirigenti, compresa quella politica, è elevatissima, mi pare impensabile rendere l’azione penale discrezionale, affidando a valutazioni politiche il relativo esercizio.

Le situazioni che in Italia inducono gli imputati a resistere in giudizio il più possibile sono, essenzialmente, la disciplina della prescrizione, i meccanismi dilatori consentiti dal codice di procedura penale, la normativa sulle impugnazioni e il retaggio del sistematico ricorso a provvedimenti di amnistia e indulto.

La prescrizione nel sistema penale italiano

La Costituzione della Repubblica prevede la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna, a differenza di quanto contemplato in altri Stati e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che prevedono la presunzione di innocenza solo fino a sentenza di condanna (quindi fino alla sola pronunzia di primo grado).

La presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva ha, quale prima conseguenza, che gli imputati in custodia cautelare permangono in tale regime fino all’irrevocabilità della sentenza di condanna, quindi normalmente fino alla pronunzia della Corte di Cassazione, cioè dopo tre gradi di giudizio (che però in caso di annullamento con rinvio possono diventare cinque – dovendosi aggiungere il giudizio di rinvio e il nuovo ricorso per Cassazione – o più – in caso di ulteriori annullamenti con rinvio).

Di qui la frequente scarcerazione di imputati per il decorso dei termini massimi di custodia cautelare, ma anche i continui riferimenti all’elevata percentuale di detenuti definiti in attesa di giudizio. In realtà il dato italiano non è confrontabile con quelli stranieri dove, dopo la sentenza di primo grado, i detenuti sono considerati in espiazione di pena.

Una seconda conseguenza è correlata alla particolare disciplina della prescrizione in vigore in Italia.
Nel codice penale la prescrizione è una causa di estinzione del reato e della pena e tale istituto esiste in quasi tutti gli Stati.

Le ragioni della prescrizione sono molteplici, ma quelle prevalenti sono la necessità di dare certezza ai rapporti giuridici e di evitare processi in cui la prova sia divenuta particolarmente difficoltosa.
Se definiamo la prova come la traccia che un fatto lascia nelle cose o nella memoria degli esseri umani, è evidente che il passare del tempo disperde tali tracce.

Inoltre si ritiene che il passare del tempo faccia venir meno l’interesse a punire la condotta vietata, che non abbia senso una pena finalizzata alla rieducazione inflitta a distanza di troppo tempo e che, infine, la prescrizione assicuri il diritto dell’imputato alla ragionevole durata del processo.
Il sistema vigente in Italia di prescrizione del reato è, però, a dir poco singolare e la sua scarsa ragionevolezza è stata accentuata dalla riforma di cui alla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (cosiddetta ex Cirielli), sicché anziché contribuire alla ragionevole durata del procedimento ne determina l’allungamento. La legge fissa un termine superato il quale il reato si prescrive.

Tale termine è di 6 anni dalla data del commesso reato per i delitti puniti con pena fino a 6 anni (minore per le contravvenzioni) e pari alla pena massima prevista per il delitto per le pene superiori (i delitti puniti con la pena dell’ergastolo sono imprescrittibili).
Il compimento di determinati atti (ad esempio l’interrogatorio dell’indagato, le sentenze di condanna in primo o secondo grado) interrompe il decorso del termine di prescrizione, che ricomincia a decorrere dall’inizio.

Però, tranne che per determinati reati o per i recidivi, «in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere» (artt. 160 e 161 codice penale modificati dalla citata legge 251/2005: in precedenza il tetto era della metà).

Il decorso della prescrizione può altresì essere sospeso in vari casi, fra cui quello di impedimento dell’imputato o del suo difensore, ma la sospensione non può superare il tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni (art. 159 codice penale, come modificato dalla legge 251/2005).
Il ridotto limite di proroga (un quarto del termine massimo) è ciò che rende il sistema di prescrizione penale italiano intrinsecamente irragionevole.

Infatti il pubblico ministero, allorché riceve notizia di un reato, il cui termine di prescrizione è, ad esempio, di 6 anni, commesso cinque anni prima, dovrà procedere interrompendo il decorso della prescrizione, ma gli resteranno due anni e 6 mesi per procedere alle indagini preliminari, all’eventuale udienza preliminare e ai giudizi di primo grado, appello e Cassazione.
Sarebbe certamente preferibile, se mai, un termine più breve per l’esercizio dell’azione penale, ma più lungo dopo che il procedimento è passato dal pubblico ministero al giudice.

L’esistenza di un simile sistema di prescrizione diviene infatti un potente incentivo per condotte dilatorie e per la presentazione di impugnazioni pretestuose da parte degli imputati o dei loro difensori, perché, se si riesce a far passare il tempo previsto dalla legge, si evita la condanna.

Una diversa normativa, basata sul principio che, una volta iniziato il procedimento (rinvio a giudizio, o se proprio si vuole, almeno dopo la condanna in primo grado) la prescrizione cessa di decorrere (come avviene nel procedimento civile), o che, quantomeno, preveda limiti più elevati conseguenti all’interruzione e alla sospensione, farebbe venir meno l’interesse dell’imputato a prolungare il procedimento e quindi, in definitiva, concorrerebbe a ridurre la durata dei processi. Tanto più che la prescrizione (essendo fra l’altro rinunciabile) è ambita più dagli imputati colpevoli che da quelli innocenti.

In altri paesi (ad esempio Usa a livello federale) la prescrizione (tranne che per i reati imprescrittibili) è di cinque anni, ma cessa di decorrere dopo la richiesta di rinvio a giudizio. È questa l’ovvia via maestra.

Infine, pur essendo la prescrizione rinunziabile da parte dell’imputato, non vi sono apprezzabili conseguenze (neppure di biasimo morale) per chi, ricoprendo cariche elettive se ne avvalga, in spregio all’articolo 54 della Costituzione, che impone ai cittadini che ricoprono cariche pubbliche il dovere di adempierle con disciplina e onore. Vi è disciplina e onore nel ricercare la prescrizione e nell’avvalersene?

La cosa che più sorprende è che la prescrizione continua a decorrere anche quando l’impugnazione sia proposta dal solo imputato condannato (che spera che prima della nuova sentenza scadano i termini, con relativo proscioglimento). Non è facile spiegare agli stranieri perché, se è l’imputato a dolersi della decisione, può godere anche del vantaggio del decorrere della prescrizione, con cui sperare di farla franca prima della nuova sentenza.

Le possibilità dilatorie insite nel codice di procedura penale vigente

Il vigente codice di procedura penale si fonda sul principio (successivamente inserito nell’art. 111 della Costituzione 4) della formazione della prova innanzi al giudice nel contraddittorio delle parti, salvo che per gli atti irripetibili e per quelli di cui le parti consentano l’acquisizione al fascicolo del dibattimento.

Stante la disciplina della prescrizione, è raro che la difesa consenta l’acquisizione di atti, anche quando non vi è alcuna concreta esigenza di ripetere l’assunzione della prova.
Ad esempio, in un processo per ricettazione di assegni, di solito non potrà essere acquisita la denunzia di furto o di smarrimento del libretto degli assegni, ma il denunciante dovrà essere citato come testimone, per dichiarare che ha presentato tale denunzia.

Un altro esempio è l’esame testimoniale degli appartenenti alle forze di polizia, i quali sono di solito i testi d’accusa. La loro attività ordinaria (quella dei processi comuni) è ripetitiva e raramente costoro, a distanza di mesi o di anni, sono in grado di ricordare i particolari relativi a uno scippo o a un borseggio. Peraltro essi documentano il loro operato in annotazioni di servizio, delle quali non è consentita l’acquisizione al fascicolo del dibattimento se non con il consenso delle parti. Pertanto è necessario citarli (mancando normalmente il consenso della difesa all’acquisizione delle annotazioni di servizio) per poi vederli consultare gli atti da loro redatti in aiuto alla memoria 5.

Ancora l’articolo 525 del codice di procedura penale, sotto la rubrica «Immediatezza della deliberazione», stabilisce nel secondo comma che alla deliberazione della sentenza concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento.

Ciò comporta che, in caso di mutamento della composizione del collegio giudicante (per malattia, trasferimento di un magistrato o altro), le prove già acquisite devono essere reiterate 6.
È possibile derogare alla rinnovazione delle prove solo in presenza del consenso delle parti, ma raramente interviene quello della difesa, per le ragioni già esposte.

La disciplina delle impugnazioni in materia penale

Un’ altra anomalia del sistema processuale penale italiano è quello relativo alle impugnazioni.
In Italia nel processo penale impugnare conviene perché non si corrono rischi, in quanto vi è il divieto di peggiorare la posizione dell’imputato se è solo lui appellante, e non anche il pubblico ministero 7.

La Corte d’appello non può aumentare la pena inflitta in precedenza, pertanto non vi sono rischi a proporre appelli infondati e meramente dilatori.
Attualmente perché in Italia l’imputato condannato a una pena da eseguire 8 non dovrebbe appellare? Se è detenuto, può uscire per decorrenza termini; se è invece libero, non andrà in carcere fino a sentenza definitiva. Dopo l’appello, ci si può rivolgere alla Corte di Cassazione. Alla fine di questa lunga corsa a tappe, dopo aver scalato tutti i gradi, si può sempre sperare nella prescrizione.

Il diritto di appellare del condannato è previsto da convenzioni internazionali e non può essere abolito, a meno di rinunciare a ricondurre il giudizio di Cassazione alla sua funzione essenziale di legittimità: garantire la nomofilachia, cioè l’uniforme interpretazione del diritto. La soluzione va trovata nell’autoregolamentazione, introducendo dei rischi a carico di chi propone impugnazioni infondate e meramente dilatorie.

In pratica, si deve consentire la reformatio in pejus in appello, in modo da introdurre una qualche deterrenza e ricondurre il numero di impugnazioni a livello di quello di altri paesi.
Il confronto con altri Stati è infatti impietoso per l’Italia 9. Sono poco più di 37 mila gli appelli pendenti in Francia (dove non vi è il divieto di reformatio in peius) a fine 2009, contro i «nostri» 169 mila. La Corte di Cassazione francese è investita di circa 8 mila ricorsi all’anno, con un centinaio di avvocati abilitati alle giurisdizioni superiori (meno che nella sola città di Rieti). In Italia i ricorsi in Cassazione penali sono circa 50 mila l’anno, quasi altrettanti nel civile e gli avvocati iscritti all’albo delle giurisdizioni superiori sono circa 50 mila.

Nel Regno Unito le “Crown Courts” agiscono anche come giudice d’appello per le “Magistrates Courts”. Nel 2010 hanno esaminato 13.800 casi. Contro i loro giudizi emessi in primo grado si può ricorrere in appello presso le Appellate Courts contro la condanna (conviction: accertamento della colpevolezza da parte di una giuria) e contro la sentenza (sentence: irrogazione della pena da parte del giudice). Ma perché le domande (applications) siano esaminate occorre un’autorizzazione (leave) del giudice che ha pronunziato la sentenza da impugnare o di quello adito.

Nel 2010 su 7.250 richieste, 1.500 sono state contro la condanna e 5.500 contro la sentenza. Delle 4.800 domande rivolte a un single judge ne sono state accolte oltre 1.400, mentre ne sono state respinte 3.300. L’application, anche se la risposta è negativa, può essere ripresentata alla Full Court of Appeal (da 3 a 5 giudici), ma viene «bollata» con la stampigliatura «perdita di tempo» («loss of time»). Quanto alle Full Courts of Appeals, nel 2010 sono stati ammessi 190 ricorsi contro la condanna e 1.460 contro la sentenza. Respinti invece 300 contro la condanna e 600 contro la sentenza. Per la Corte suprema (Supreme Court: dal 2009 ha sostituto la House of Lords) sono appena 9 le petizioni accettate, 16 respinte.

Negli Usa vi sono gli ordinamenti di 50 Stati, quello federale ordinario e quello federale militare. Limitando l’esame all’ordinamento federale ordinario, gli appelli non conoscono grandi numeri. Le Corti d’appello federali americane (Appeals Courts, ognuna formata da 3 giudici e distribuite in 13 Circuits) esaminano errori in punto di diritto, studiando la documentazione esibita in primo grado, seguita dalle argomentazioni legali delle parti, in forma scritta. Solo a volte agli avvocati è consentito integrare oralmente le loro deduzioni. Nel 2010, sono stati appena 12.797 gli appelli che, provenienti dalle Us District Courts, sono stati giudicati dalle US Courts of Appeals, con una riduzione del 7 per cento rispetto al 2009.

Per quel che riguarda la Corte suprema degli Stati Uniti, nel 2009 solo 8.159 casi (civili e penali) sono approdati all’esame della più alta istanza giudiziaria americana con un aumento del 5,4 per cento rispetto all’anno precedente. Di questi, peraltro, solo una piccolissima parte viene esaminata, essendo necessario che almeno 4 dei 9 giudici chiedano di esaminare il ricorso.

Quanto al ricorso per Cassazione, va ricordato che, secondo l’articolo 111 della Costituzione, lo stesso è sempre ammesso contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale. Nel 2013, a fronte di quasi 53 mila ricorsi in materia penale 10, il 15,9 per cento dei procedimenti è stato definito con decisione di rigetto e il 17,7 per cento con annullamento (con rinvio nel 9,9 per cento dei casi, senza rinvio nel 7,8 per cento). Il 64,3 per cento dei definiti è stato dichiarato inammissibile 11.

In caso di inammissibilità viene di solito inflitta una sanzione pecuniaria (normalmente mille euro a favore della Cassa delle ammende), ma una percentuale ridicolmente bassa delle relative somme viene effettivamente riscossa, posto che la maggior parte degli imputati non risulta intestataria di beni su cui eseguire coattivamente la sanzione.

Non vi sono neppure altre forme di deterrenza alla proposizioni di impugnazioni manifestamente infondate, sia perché raramente si arriva alla soglia degli illeciti disciplinari dei difensori (ad esempio per violazione del dovere di diligenza o del dovere di verità), sia perché è possibile la proposizione dell’impugnazione da parte dell’imputato personalmente, anche nel caso in cui abbia un contenuto essenzialmente tecnico come il ricorso per Cassazione.

Una peculiarità italiana è l’elevato numero di ricorsi per Cassazione proposti contro le sentenze di applicazione pena (patteggiamento). Infatti il 14,9 per cento dei ricorsi riguarda sentenze di patteggiamento 12, rispetto alle quali la funzione quasi esclusivamente dilatoria del ricorso è evidente.

Il retaggio (e non solo) dei provvedimenti di amnistia e indulto

In Italia fra il 1942 e il 1986 vi erano stati circa 35 provvedimenti di amnistia (che estingue il reato) e indulto (che estingue la pena).

Al momento dell’entrata in vigore del vigente codice di procedura penale, il cui funzionamento era legato all’ipotizzato massiccio ricorso ai riti alternativi, i fautori della riforma si resero conto che ciò sarebbe stato impossibile alla luce del sistematico ricorso a tali provvedimenti, che incoraggiavano il resistere in giudizio. Fu pertanto cambiato l’articolo 79 della Costituzione, prevedendo la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera per l’approvazione di leggi di amnistia e indulto 13.

Peraltro, dopo l’entrata in vigore del codice di procedura penale vi fu un’amnistia (decreto presidenziale 12 aprile 1990, n. 75) giustificata con l’esigenza di eliminare l’arretrato per non intralciare il funzionamento del nuovo codice.

Successivamente vi è stato un indulto nel 2006 (legge 241/2006) e recentemente si è tornati a proporre un provvedimento di indulto a fronte del problema del sovraffollamento delle carceri 14.
In altri paesi l’amnistia è un provvedimento di carattere eccezionale e piuttosto raro.

Qualche tempo dopo l’entrata in vigore del codice accusatorio, alcuni giudici della California vennero in Italia e parteciparono a un incontro organizzato dall’Associazione nazionale magistrati a Milano. Erano interessati a comprendere perché in Italia fosse così ridotta la percentuale di patteggiamenti e furono loro indicate le varie cause. Costoro, che avevano compreso benissimo anche questioni complesse, quando si indicò il frequente ricorso all’amnistia, chiesero più volte all’interprete di ritradurre. Dopo una consultazione fra loro chiesero se fosse qualcosa di analogo al perdono presidenziale, ma fu risposto che quello corrisponde in Italia alla grazia, mentre l’amnistia è una legge che perdona tutti. Vi fu una nuova consultazione fra loro seguita da ampi sorrisi e dissero che avevano capito: stavamo facendo loro uno scherzo.

Il solo parlare di amnistia o indulto, come avvenuto ancora di recente, riduce le richieste di riti alternativi e incentiva ulteriormente i comportamenti dilatori e le impugnazioni. Infatti se la sentenza diviene definitiva il condannato deve scontare la pena, ma se riesce a differire il passaggio in giudicato della sentenza potrebbe arrivare un provvedimento di clemenza.

In un sistema processuale come quello descritto, in cui il consenso dell’imputato è necessario per poter evitare lungaggini e ripetizioni, devono essere incentivati i comportamenti collaborativi e disincentivati quelli dilatori, ricordando l’indicazione di Adam Smith: «Non è dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi» 15.

Sotto questo profilo la modifica del sistema di prescrizione e l’introduzione di adeguati rischi alla proposizione di impugnazioni dilatorie è indispensabile per cercare di dare efficienza e dignità al processo penale.

NOTE

1 Considerazioni finali 2011 del governatore della Banca d’Italia.

2 Le relazioni Cepej sono reperibili su internet all’indirizzo: www.coe.int/cepej.

3 L. Lanzillo, «Le statistiche sulle cause di inefficienza del sistema giudiziario e i rimedi all’eccessiva durata del processo penale», Treccani.it. Sul fatto che negli Usa non vi sono vantaggi a differire il giudizio si veda A. Patrono, A. Mura, La giustizia penale in Italia: un processo da sbloccare. La lezione americana, Cedam, Padova 2011.

4 L’articolo 111 Cost. è stato modificato con legge costituzionale 25 novembre 1999, n. 2.

5 L’articolo 499 comma 5 c.p.p. prevede infatti che il presidente possa autorizzare il testimone a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti.

6 È affetta da nullità assoluta e rilevabile d’ufficio, per violazione del principio di immutabilità del giudice, a norma degli articoli 525 e 179 cod. proc. pen., la sentenza emessa da giudici diversi da quelli che hanno partecipato al dibattimento, in difetto della rinnovazione di questo e degli atti già compiuti, anche se le parti non ne abbiano formulato esplicita richiesta (Cass. Sez. 3, sentenza n. 12234 del 4/2/2014 dep. 14/3/2014 Rv. 258703).

7 Unica eccezione è l’opposizione a decreto penale di condanna (provvedimento con il quale si infligge una pena pecuniaria, anche in sostituzione di una pena detentiva), all’esito della quale il giudice può infliggere una pena più grave.

8 Cioè non coperta da indulto o non condizionalmente sospesa.

9 I dati che seguono sono tratti da P. Davigo, L. Sisti, Processo all’italiana, Editori Laterza, Bari 2012, dove sono indicate le relative fonti.

10 Nel 2013 il 93,4 per cento dei procedimenti definiti è proposto da parte privata (l’80,6 per cento è l’imputato e il 12,8 per cento è un’altra parte privata) e il 6,6 per cento ha come ricorrente il pm.

11 I ricorsi per Cassazione sono dichiarati inammissibili, prevalentemente per genericità, manifesta infondatezza o perché proposti fuori dai casi consentiti (prevalentemente perché svolgono censure di merito. Si vedano le relazioni di inaugurazioni dell’anno giudiziario sul sito internet della Corte di Cassazione www.cortedicassazione.it.

12 Il dato è tratto dalle statistiche allegate alla relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 e relativo all’anno 2013, reperibile all’indirizzo web indicato nella nota precedente.

13 Legge costituzionale 6 marzo 1992, n. 1.

14 «In Italia non ci sono “troppi detenuti”! Secondo l’ultimo rapporto Istat pubblicato a dicembre 2012, ci sono 112,6 detenuti ogni 100 mila abitanti, contro una media europea di 127,7. In Spagna e in Inghilterra ci sono molti più detenuti che in Italia, senza parlare degli Stati Uniti con i suoi 2 milioni e 300 mila detenuti e un tasso pari a 761 persone ristrette ogni 100 mila abitanti. Ciò che è intollerabile è la gravissima insufficienza dei posti disponibili (appena 45.700), il numero più basso d’Europa e sostanzialmente immutato negli ultimi decenni, nonostante il notevole aumento della popolazione, italiana ed extracomunitaria, e il radicale mutamento della società. La depenalizzazione di alcune figure di reato non produrrebbe il benché minimo effetto sulla popolazione carceraria, perché in Italia non ci sono detenuti per “reati minori”. Il 95 per cento dei detenuti è infatti in carcere per produzione e spaccio di sostanze stupefacenti, rapine, estorsioni, furti reiterati. Il resto per violenza sessuale, associazione mafiosa, omicidio; tutti reati che sarebbe impensabile depenalizzare». Da una nota diffusa dal magistrato Mario Morra sulla mailing list di Magistratura indipendente. Sono invece rari i detenuti per reati dei colletti bianchi: lo 0,4 per cento, contro la media Ue del 4,1 per cento (Fonte: Rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal, Università di Losanna).

15 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 1995.

(27 novembre 2014)

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