quegli attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in
una tranquilla sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il
futuro. E poi un uomo nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue,
il cervello che schizza tutto intorno, la paura, il dolore, la furia.
significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde
a volte anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto
di menar le mani. Ma dire ultrà , ripeterlo in tutti i telegiornali, è
anche un modo di non prendersi le responsabilità di un atto efferato. È
lui, solo lui, l’uomo con la spranga, il colpevole, sembrano
giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno strano, un emarginato in
fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è colpa nostra se
ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia non
nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo.
attentati jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e
odiosamente nessuno lo ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa
di essere la prima vittima del terrorismo, ma sa anche che il terrorismo
nasce dalle sue devianze. E anche il razzismo, l’odio di cui è avvolto
tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy. Non è un fatto isolato. E
ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far finta di nulla.
Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause profonde
di questa sciagura.
Non è la prima volta che succede.
Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama.
Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di
studio in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo
a cui credeva più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua
vita. L’Unione Sovietica lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo
comportamento era stato considerato inopportuno. La motivazione
ufficiale era che “beveva troppoâ€. Ma Ahmed Ali Giama sapeva di non bere
più degli altri, sicuramente non più di quanto si faceva in Russia. Si
sentiva vittima di una profonda ingiustizia.
Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella
di Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una
vita sempre più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’
di cibo. E poi quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979,
quattro ragazzi annoiati gli danno fuoco e lui muore senza un perché
sotto l’arco del tempio della Pace, a Roma. I ragazzi erano fascisti?
Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza era una che stava nei
movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di sinistra. Solo
un grande squallore.
Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante.
Anche la sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si
vedono nei telefilm americani. Il padre era stato cancelliere
dell’ambasciata italiana in Jugoslavia e la madre era una splendida
somala di nome Egal Ubax Osman. Una coppia che univa il bianco e il
nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A Udine una famiglia così
non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in visibilio per quei
Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di sinistra e
questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a scuola
discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava
il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così
intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava
avanti a testa alta. Sapeva di valere.
Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella
famiglia troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro†di frequentare
una scuola friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era
troppo di sinistra. E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due
compagni di classe lo attirarono con una scusa in un capanno e lì giù
botte e coltellate. Daniel P. (14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano
dare una lezione a un diverso. E la lezione furono 63 coltellate che
lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era il 1985.
L’Italia dell’apartheid
In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da
parecchi anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la
raccolta dei pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per
un lavoro faticoso ed estenuante. I ragazzi dormivano in baracche
fatiscenti e anche se non c’era spazio per nulla, loro cercavano
comunque di trovare un posticino per i loro sogni e il loro futuro che
prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti, “non sarà per
sempreâ€. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano scappato
dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter
camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli
dicesse dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine
dell’apartheid. Non mancava molto. Nelson Mandela aveva resistito così
tanto in carcere anche per lui. Jerry lo sapeva, ci sperava.
Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di
segregazione razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della
sua pelle. Non era il Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia
dell’apartheid. Quattro persone, con delle calze di nylon sulla testa,
fecero irruzione nelle baracche dove dormivano gli africani e
cominciarono quella mattanza insensata. Si impossessarono anche di due
spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo dell’incursione. Il motivo era
lo stesso degli assassini di Giacomo Valent: dare una lezione al
diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia che il
razzismo non era solo quello degli altri.
L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò
tanto di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi
accompagna la morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di
Jerry Maslo. Il funerale fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se
stessa che per Jerry. Era stato un colpo scoprirsi razzista.
detto Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario
del Burkina Faso preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco
di biscotti. Lenuca Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu
Caldaran, bambini rom morti in un rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor,
uccisi a Firenze da un simpatizzante di Casa Pound .
E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e
ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica?
Torturato non a Raqqa, ma a Parma?
Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno
spettacolo teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale
senegalese. Mohamed il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava
l’autobus a Milano. Un uomo gli si era avvicinato dicendo: “Qui c’è
qualcosa che non vaâ€. Poi arrivò quella pugnalata allo stomaco. Mohamed
Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente non si fermò ad
aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma anche nello
sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava
dissanguando.
Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai
nostri. Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso
ogni giorno da giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci
siamo abituati ai titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione,
alle battute politicamente scorrette e agli articoli “perbene†scritti
da persone “insospettabili†che parlano di civiltà superiori, di
occidente moderno contro selvaggi di diversa provenienza. E siamo
indifferenti verso la storia di questa Italia che si è formata e
costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del
diverso.
lo hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non
esistevano. Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani.
L’Italia era pura astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare
l’idea di un italiano bianco ed europeo. Diverso dal suo meridione per
prima cosa. Quindi prima si colonizzò il sud Italia, poi si colonizzò
l’Africa per rimarcare questa unicità e diversità italiana. E il nero
(ma anche il meridionale) divenne, di fatto, quello a cui l’Italia si
doveva opporre.
ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato all’impresa
africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu oggetto di
uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso schiacciato,
la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva
somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini
aveva non solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma
anche una campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto
ubriacare da alcuni abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la
faccia di nerofumo per farlo assomigliare ancora di più a un africano.
Infine fu avvolto in un lenzuolo bianco e fu fatto montare su un asino.
Così conciato venne portato in giro per il paese, che sfogò la sua
violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni genere.
sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così
incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisaâ€. I
riferimenti alla violenza contro l’altro si ritrovano spesso nelle
canzoni fasciste della conquista dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!â€. In Povero Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!â€.
Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti.
Imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita
impunemente. Nella canzone Topolino dichiara candidamente che “appena
vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco
dallo spaventoâ€. Ma il Negus non gli basta. Topolino vuole massacrare
tutti. E ha un motivo ben preciso, che spiega ai suoi comandanti: “Ho
molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro
per farci un paio di scarpeâ€. Ma sua madre non è l’unica ad avere
bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre manderò tre o
quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di
pelli perché fa il guantaioâ€. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con
quei cioccolatiniâ€.
alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono
atti quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una
rottura del quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le
frustrazioni di una società in crisi. Ecco perché il colonialismo e
l’antisemitismo in Italia non sono fatti secondari, incidenti di
percorso della nazione. Come ha detto Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione dell’identità nazionale italianaâ€.
L’antropologa aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal
titolo “Se i miei genitori fossero neriâ€. In questi temi i bambini
scrivono cose come “se i miei genitori fossero neri li metterei in
lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino Bianco, Atlas, Ace detersivo,
Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei sicuro che ritornerebbero
normaliâ€. I bambini sono razzisti allora? No, certamente. Ma hanno
respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e l’altra
sbagliata.
un’automobile†che “può essere spento, può essere in folle, andare a
cinquemila giri. Ma anche spento, è un insieme coordinato. Il sistema di
pensiero razzista, che fa parte della cultura della nostra società , è
come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né
spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi
impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento
buono, in un momento di crisi, partireâ€.
l’aggressione di alcuni somali presi di mira da un commando squadrista.
Occorre fermare quel ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di
mezzi d’informazione che flirtano con il razzismo, di leader politici
che incitano all’odio per una manciata di voti, di benpensanti che
pensano male abbracciando apocalittici scontri di civiltà . Dobbiamo
fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di vivere in armonia
abbracciando tutti i suoi colori.