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Il partito provvisorio

'«Il partito provvisorio. Storia del PSIUP nel lungo Sessantotto italiano». Recensione dell''ultimo libro di Aldo Agosti. [Alberto Melotto]'

Il partito provvisorio
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25 Luglio 2013 - 17.06


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di Alberto Melotto

Il bel libro dello storico Aldo Agosti, [b]Il partito provvisorio[/b], da poco nelle librerie, provvede brillantemente a colmare una lacuna storiografica non secondaria. Una parte della vicenda del percorso socialista che rischiava di rimanere esclusivo patrimonio dei militanti che quella vicenda avevano vissuta. Ovvero, gli otto anni di vita del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Psiup).

Agosti individua l’embrione del futuro partito nel percorso del Partito Socialista nel primo quindicennio della Repubblica. Le elezioni del 18 aprile 1948 offrono un risultato sconfortante per l’alleanza frontista fra socialisti e comunisti. L’effigie di Garibaldi non si rivela una scelta fortunata, e chi soffre maggiormente per l’esito negativo delle urne è proprio il Psi, reduce dalla scissione socialdemocratica di Saragat. A risollevare le sorti del partito pensa Rodolfo Morandi, chiamato da Nenni ad una vera e propria rifondazione. Il vicesegretario addetto all’organizzazione raggiunge in sei anni di intenso lavoro risultati quasi insperati, che permettono ai socialisti di recuperare il terreno perduto, raddoppiando il numero degli iscritti, da 400.000 iscritti a oltre 700.000 e dotandosi di una presenza capillare sul territorio nazionale, anche nelle fabbriche dove fanno sentire la loro presenza i Nas (nuclei Aziendali Socialisti).

Venuto a mancare Morandi nel 1955, le condizioni della politica italiana e internazionale mutano in modo da rendere impossibile il permanere dell’unanimismo all’interno del partito. In particolare, nel 1956, prima le rivelazioni del rapporto di Chruscev al XX Congresso del Pcus sugli orrori dello stalinismo e poi l’invasione dei carri armati russi in Ungheria provocano fibrillazioni e inquietudini nel gruppo dirigente. In realtà, il motivo del contendere, più che la via democratica al socialismo, data per assodata, è la liceità di un avvicinamento socialista al partito-regime, il punto d’incontro degli interessi del grande capitale, la Democrazia Cristiana.

È a partire da questo cambio di rotta di Nenni, che si sviluppa una sinistra interna, via via sempre più insofferente e astiosa. Le componenti sono diverse: la parte maggioritaria si riconosce nella leadership di Tullio Vecchietti, che diverrà poi il segretario “storico” del Psiup, vi è poi la componente operaista di Vittorio Foa, il socialismo “sentimentale” di Lussu e Pertini, e la componente di Alternativa Democratica, il cui esponente più prestigioso è Lelio Basso, già fondatore, durante gli anni della Resistenza, del Mup (Movimento di unità proletaria).

Nell’estate del 1959 la neonata corrente decide di dotarsi di un proprio periodico, [b]Mondo Nuovo[/b], stampato nella stessa tipografia dell’Unità, il che crea malumori e sospetti fra gli autonomisti, ovvero la maggioranza che sostiene Nenni. A far precipitare i rapporti fra le due parti è l’opposta valutazione dei moti di piazza repressi con violenza dal governo Tambroni, nel 1960. Gli autonomisti intendono scongiurare un’involuzione in senso reazionario del quadro politico e premono per una partecipazione diretta al governo del paese, la sinistra non intende in alcun modo recidere l’unità d’azione con il Pci.

Negli ultimi mesi del 1963, con il varo del governo Moro si completa il lavoro di avvicinamento al governo dei socialisti, il famoso ingresso nella “stanza dei bottoni”. Significativo il discorso di Lelio Basso che parla a nome dei 25 deputati dissenzienti:

“non si può sacrificare l’autonomia del movimento operaio … subordinandone le politiche al disegno organico della classe dominante”.

Va detto che il partito comunista, almeno inizialmente non vede con favore la scissione che si va ormai consumando, convinto com’è che la sinistra socialista in un partito a sé stante scomparirebbe assai presto. In seguito i pareri interni al Pci si diversificano e c’è chi, come Longo, valuta che un’altra forza autenticamente di sinistra possa soltanto favorire la lotta del movimento operaio nel suo insieme.

E così, il 12 gennaio del 1964, al palazzo dei congressi dell’Eur si celebra il congresso fondativo del Psiup. Già nel mese di febbraio:

“il neonato partito può contare , secondo [i]Mondo Nuovo su 117.895 iscritti, destinati a divenire 131.106 nel mese successivo. Considerato che al momento del XXXV congresso il Psi registrava, secondo i dati ufficiali, 484.313 iscritti, nel giro di un anno la scissione avrebbe portato via al vecchio partito una quota dei suoi effettivi compresa tra il 25 e il 30%: dunque un risultato piuttosto consistente”[/i].

Fin dai primi mesi di vita della neonata formazione, lo scopo principale dei suoi dirigenti è quello di crearsi uno spazio politico fra i due partiti maggiori della sinistra. Soprattutto nei primi anni, i giudizi psiuppini sul centro-sinistra saranno sprezzanti e privi di sfumature, si ricordi ad esempio lo sferzante e lucido giudizio del segretario Vecchietti verso la fusione fra socialisti di Nenni e De Martino e i socialdemocratici di Saragat che dà vita al Psu:

“Si manifesta la tendenza a dar vita a un partito socialdemocratico che, ideologicamente e propagandisticamente, si rifà, sì, ai modelli socialdemocratici europei, ma che, diversamente da essi, invece di avere la propria forza nella classe operaia inserita in un sistema capitalistico avanzato, riscuote fiducia fra le forze clientelari …”

Il rapporto col Pci si caratterizzerà invece come un’unità d’intenti mai del tutto raggiunta, mai priva di distinguo e di critiche talvolta anche ruvide.
A sua volta la dirigenza psiup dovrà guardarsi al suo interno dall’irruenza delle federazioni locali, spesso inclini alla fascinazione per il marxismo terzomondista, da qui il luogo comune del Psiup filo-cinese, in fondo immeritato, poiché lo sguardo del partito si focalizzò semmai sull’emergere di una generazione di studenti e di giovani operai poco propensa a rispettare le liturgie dei vecchi partiti.

Agosti riconosce che il partito Socialista di Unità Proletaria seppe prevedere con un certo anticipo il nascere del movimento sessantottino, intuendone le potenzialità ai fini della lotta politica. Al Consiglio Nazionale del 21 e 22 ottobre 1965, infatti, il padre nobile del partito Lelio Basso:

“teorizza la superiorità del socialismo sul capitalismo … e si richiama … all’esigenza di saper essere rivoluzionari nei paesi capitalistici avanzati, di colpire qui al cuore l’imperialismo ed il capitalismo avanzato”.

Andrea Margheri, della federazione di Firenze, parla invece di:

“creare l’anti-stato, il contro-potere al sistema coordinato dal capitalismo, fondandoci sulle grandi masse, sulle forze produttive, sui nuovi ceti”

mentre l’emiliano Franco Boiardi arriva a mettere in discussione la Costituzione Italiana, che a suo dire avrebbe:

“rivelato col tempo di non sapere garantire se non libertà formali di derivazione ottocentesca e un tipo di democrazia meramente rappresentativa”.

I leaders del movimento riconobbero, almeno in un primo momento, nel Psiup l’interlocutore più disponibile al dialogo, ma ben presto i due mondi tornarono a farsi distanti.

Il triennio 1966-1968 vede comunque il Psiup aumentare in maniera non indifferente il proprio consenso elettorale, fino alle elezioni politiche del 19 maggio 1968, quando si rivela vincente la scelta di apparentarsi al Pci almeno al Senato. Non c’è quasi il tempo di gioire del risultato inaspettato, che ancora una volta la politica estera torna a causare problemi, stiamo parlando dell’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici.

L’atteggiamento tiepido verso la (parziale) apertura al mercato di Dubcek si poteva leggere nelle parole di Lucio Libertini che giustificava le novità in politica economica solo come un “ripiegamento necessario per riprendere il cammino”. Più la situazione fra il gigante sovietico e la Cecoslovacchia si fa tesa, più si disvela secondo Agosti un atteggiamento di “reticente equidistanza” da parte della dirigenza Psiup, per non parlare del comunicato che prende atto, il 22 agosto, dell’avvenuta invasione dove non si va oltre la considerazione che l’intervento militare:

“non risolve ma rende più difficile la soluzione positiva dei problemi di fondo che sono all’origine dell’attuale crisi interna cecoslovacca e nei rapporti tra i paesi socialisti”.

L’autore de Il partito provvisorio commenta amaramente che è questo il momento in cui l’Unione Sovietica decide di presentare il conto dei finanziamenti finora versati. Oltre a questo, vi è anche un [i]“filo-sovietismo radicato”[/i], di vecchia data, a impedire a molti dirigenti del psiup di esprimersi in maniera più solidale ai compagni cecoslovacchi.

Agosti ci dice che da quel momento in avanti le fortune del Psiup volgono al tramonto, e di certo la sua incisività politica si riduce alquanto. Ne sono prova la sostanziale passività rispetto all’emergere della strategia della tensione, sia, alquanto paradossalmente, il grande impegno nel sostenere le rivendicazioni nelle fabbriche durante il secondo biennio rosso 1968-1969, impegno che non si traduce in un maggior numero di tesserati né tantomeno, di voti alle elezioni. Anche i commenti pur partecipi dei dirigenti comunisti si fanno via via più preoccupati per una formazione che appare priva di rotta e di timoniere.

Così ai primi di luglio del 1969 Ingrao si esprime in una riunione della direzione del Pci:

“bisogna riconoscere che il Psiup non sta sprigionando tutto ciò che potrebbe sprigionare”.

Il 15 gennaio 1971 Lelio basso abbandona definitivamente il partito. Mentre alcuni deputati e senatori passano al gruppo misto. Nel 1972 i vertici del partito prendono la decisione, forse affrettata, di sciogliere il Psiup, i qui quadri e militanti prendono tre diverse strade: la confluenza nel Pci, il ritorno (privo di rancori) nel Psi e la prosecuzione dell’esperienza Psiup unendosi ad alcune frange del Manifesto e dando vita al Pdup (Unità Proletaria).

Come epitaffio per questa vicenda politica così ricca ed intensa vale citare l’Enrico Berlinguer degli articoli di Rinascita dell’autunno 1973, quando, riferendosi ad un certo tipo di sinistra extra-parlamentare, rifiutava la proposta di:

“certi sciagurati di abbandonare il terreno democratico e unitario per scegliere un’altra strategia fatta di fumisteria”

e aggiungeva, citando lo scritto di Karl Marx, [b]Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte[/b]:

“noi non siamo affetti da cretinismo parlamentare, mentre qualcuno è affetto da cretinismo antiparlamentare”.

Forse il Partito Socialista di Unità Proletaria non seppe scegliere pienamente tra vecchi e nuovi compagni di strada, né seppe destreggiarsi fra i pericoli di un regime politico (e di una società) in via di involuzione autoritaria. Col passare degli anni, la scelta di continuare sarebbe stata forse premiata da elettori socialisti in fuga dalla corruzione craxiana. O forse no. Di certo, dal 1976 la parola socialismo assunse nel nostro belpaese un significato alquanto sgradevole, e almeno di questo, il psiup non ha colpe.

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