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Ascesi e capitalismo

Recensione al libro di Elettra Stimilli, “Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo” (Quodlibet) [Gianfranco Ferraro]

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7 Agosto 2013 - 14.53


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di Gianfranco Ferraro

Qual è il paradigma di governo su cui si affaccia la società contemporanea? E come comprendere il legame tra il senso delle nostre condotte quotidiane e la forma di vita che, in maniera sempre più pervasiva, ci viene proposta come un inevitabile e “naturale” destino di indebitamento collettivo e individuale?

È a questi interrogativi che Elettra Stimilli intende dare risposta nel suo testo, raccogliendo gli esiti del suo dialogo con quell’ultimo, cruciale, risultato del dibattito novecentesco intorno alla “teologia politica”, costituito da [b]Il Regno e la Gloria[/b] di Giorgio Agamben (cfr. G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer II, 2, Neri Pozza, Milano, 2007). Per lungo tempo studiosa e interprete di Jacob Taubes, insieme a Carl Schmitt, Walter Benjamin, Erik Peterson e Hans Blumenberg personalità tra le più significative del dibattito novecentesco sulla secolarizzazione (cfr. in proposito E. Stimilli, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Brescia, Morcelliana, 2004; Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di E. Stimilli, Macerata, Quodlibet, 1996; Jacob Taubes, Il prezzo del messianesimo. Lettere di Jacob Taubes a Gershom Scholem e altri scritti, a cura di E. Stimilli, Macerata, Quodlibet, 2000), l’autrice si propone qui, lungo un sentiero che è solo per un tratto, in realtà, comune a quello di Agamben, di riallacciarsi direttamente alle ricerche avviate da Michel Foucault, negli ultimi anni della sua produzione intellettuale, intorno alle “tecnologie del sé”e alle forme di ascesi.

Stimilli fa propria la declinazione “economica” che Agamben dà del dispositivo teologico-politico congenito, secondo la sua tesi, alla modernità secolarizzata, così come l’asserzione di fondo per cui il lato “rimosso” della secolarizzazione non starebbe tanto nell’occultamento di un fondamento teologico delle istituzioni politiche moderne, quanto piuttosto nella loro dipendenza da un paradigma essenzialmente “economico” di governo dell’agire sociale. L’occupazione del campo proprio del politico da parte di un modello che Aristotele riteneva ad esso estraneo sarebbe pertanto, in questa prospettiva, all’origine del paradosso, sottolineato già da Marx, di una “economia politica”. Ora, se attraverso le metodologie di Foucault la ricerca di Agamben ha tentato di rintracciare l’origine dell’economia politica nell’altro paradosso, solo apparentemente tutto teologico, messo in atto dal trinitarismo del IV secolo per conciliare il monoteismo con il governo di una pluralità di enti, attraverso il postulato della presenza di più persone divine, Stimilli non esita a evidenziare il rischio insito in tale ricerca: lo stesso rischio che avrebbe condotto peraltro Agamben a teorizzare l’inoperosità, ovvero la ritrazione dalle “liturgie” proprie della produzione, come l’unico strumento effettivamente “critico”, in grado cioè di sottrarre i soggetti al modello dominante del loro governo.

In effetti, per quanto nel suo studio dedicato alla contraddizione tra “regola” e “forma di vita” vissuta dal francescanesimo dei primi tempi, Agamben abbia chiarito, ultimamente, anche la presenza di un suo modello “attivo” di condotta critica, come teoria dell’uso in comune (cfr. G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Vicenza, Neri Pozza, 2011), il contemporaneo volume di Stimilli apre ad un diverso indirizzo del carattere teologico-economico della “governamentalità”: per quanto esso risulti evidente nel cristianesimo del IV secolo, oggetto di indagine dovrebbe piuttosto essere per l’autrice la derivazione delle sue forme simboliche dalle concrete condotte di vita imperniate dentro una logica della salvezza, e al tempo stesso la sua capacità produttiva nel campo degli orientamenti pratici dell’esistenza. In particolare, interrogandosi sulla nascita di una oikonomia cristiana della salvezza a partire, potremmo dire, dallo spirito delle precedenti forme ascetiche, Stimilli sembra voler affondare il coltello su un aspetto ancora fragile della riflessione di Agamben: se è vero che la teologia dimostra il suo aspetto di scientia gubernandi proprio in quanto oikonomia, non è forse vero che essa è in quanto tale organizzatrice di liturgie e dunque di pratiche preesistenti ai dogmi, ai messali e alle stesse Scritture? E non è forse vero che, accanto ad una teologia economica, il cristianesimo abbia prodotto anche una molteplicità di pratiche ascetiche che, come “forme di vita in Cristo” reclamavano modelli diversi di legittimità e si opponevano alle rigide regolamentazioni dei culti?

L’obiettivo dell’autrice, in questo senso, più che ad una riattualizzazione delle tesi weberiane sull’origine della forma di governo capitalistica a partire da un modello ascetico protestante, si manifesta, in virtù di una loro rilettura attraverso le indagini dedicate da Michel Foucault alle condotte di vita ed alle forme di ascesi nell’antichità, come il tentativo di una loro verifica su larga scala: è possibile cioè ripensare, seguendo Weber e Foucault, la nascita di una determinata logica – come quella capitalistica – di direzione e di governo delle condotte di vita, a partire dalle pratiche di vita che l’hanno resa possibile? Ed è possibile considerare le “ascesi della salvezza” come il terreno su cui sono giocati in Occidente il governo e la libertà dei viventi e dunque il rapporto stesso instaurato dalle metafisiche cristiane con l’orizzonte mondano? Se il capitalismo finanziario dei nostri giorni può essere considerato come una teologia economica secolarizzata, occorre allora per Stimilli ricostruire le origini delle pratiche di vita che lo legittimano: solo in tal modo sarebbe possibile comprendere il particolare dispositivo, la particolare attitudine all’“essere in debito”, che ha orientato verso uno scopo determinato l’agire, di per sé non finalizzato e senza fondamento, delle società contemporanee, così come quelle forme di condotta che contro di esso è possibile inventare.

Con la recente pubblicazione, peraltro non ancora completa, degli ultimi corsi tenuti da Foucault al Collège de France (cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France, 1981-1982, ed. a cura di F. Gros, tr. it. a cura di M. Bertani, Milano, Feltrinelli, 2011; M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), ed. a cura di F. Gros, tr. it. a cura di M. Galzigna, Milano, Feltrinelli, 2009; M. Foucault, Il coraggio della verità: il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1983-1984), a cura di F. Gros, tr. it. di M. Galzigna, Milano, Feltrinelli, 2011, e, più di recente Du Gouvernement des vivants. Cours au Collège de France (1979-1980), Paris, Gallimard, 2012) sarà presto possibile chiarire tutta la filiera teorica che ha condotto il filosofo francese a problematizzare quello che fino ad oggi, nel dibattito italiano, è stato forse troppo sbrigativamente considerato il suo paradigma più organico: la biopolitica. La comprensione della “svolta” foucaultiana degli anni ’80 consentirà, inoltre, di studiare le reali radici del paradigma dell’homo sacer, messo a punto circa un decennio dopo da Agamben (cfr. innanzitutto Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995; Stato di eccezione. Homo sacer 2.1, Torino, Bollati Boringhieri, 2001): potranno così emergere, a quel punto, i termini effettivi del confronto che ha consentito ad Agamben di mettere a fuoco la sua prospettiva e, per altro verso, l’imponenza dell’asse di ricerca da cui oggi Stimilli prende criticamente le mosse.

Alla fine degli anni ’70 i tempi sembrano infatti maturi, per Foucault, per ripensare le forme con cui sino a quel momento egli ha riflettuto sulla “soggettività” occidentale: dalle “discipline” caratteristiche della modernità, il suo obiettivo si sposta verso la comprensione delle pratiche “governamentali” attraverso cui si costituiscono le nuove forme di legittimità politica nel XVIII secolo (cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979, ed. a cura di M. Senellart, tr. it. a cura di M. Bertani e V. Zini, Milano, Feltrinelli, 2005; M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, 1977-1978, ed. a cura di M. Senellart, tr. it. a cura di P. Napoli, Milano, Feltrinelli, 2005). Dalla secolarizzazione del “pastorato” cristiano è in effetti breve il passo verso la comprensione dei modelli “di lungo periodo” delle condotte di vita occidentale: da qui il suo tentativo, maturato all’inizio degli anni ’80, di una ermeneutica del “soggetto” occidentale nei termini di una archeologia delle “forme di governo” e delle “tecnologie” – pratiche di ascesi innanzitutto – che lo avrebbero caratterizzato. Il soggetto, le forme di dominio e di autocomprensione a cui è sottoposto in quanto “sé”, così come le pratiche di resistenza etico-politica che è possibile esercitare come critica illuministica verso il conformismo di ogni potere, diventano comprensibili solo a partire dalle condotte di vita innervate nell’agire: ed è proprio qui, dove la parabola foucaultiana si interrompe, che Stimilli inizia ad interrogarsi sullo statuto delle pratiche di ascesi caratteristiche della modernità e sul loro ruolo specifico nello sviluppo delle “metodiche” caratteristiche della forma capitalistica di “governo dei viventi”.

La natura potenziale dell’azione umana è riorientata dalle metodiche di vita del capitalismo verso un continuo “essere in debito”, e il debito diviene così – scrive Stimilli – “il presupposto delle attuali modalità di assoggettamento e, come tale, deve essere riprodotto, piuttosto che saldato” (p. 12). Il margine di liberazione dal modello teologico-economico del capitalismo trova quindi consistenza per l’autrice solo a partire da un esercizio critico in grado di investire la prassi: solo delle “controcondotte” in grado di liberare l’agire dalle liturgie indebitanti e colpevolizzanti a cui è sottoposto dal dominio capitalistico possono neutralizzare le forze che “trattengono” il tempo di questo dominio, il suo katechon, e avvicinarci così alla sua fine.

Con la cassetta degli attrezzi foucaultiana, Stimilli intende ribadire in questo senso la sua fedeltà teorica alla prospettiva tracciata da Jacob Taubes, sulle orme delle tesi di Benjamin, sulla filosofia della storia: la stessa prospettiva che entrambi gli autori ebrei condividono, appunto “in divergente accordo”, con Schmitt e per cui il processo di secolarizzazione occidentale si sarebbe compiuto non tanto nei termini di una sostituzione quanto in quelli di una metamorfosi delle strutture di legittimazione del potere. La tesi schmittiana per cui il grande Leviatano dello Stato moderno soppianterebbe effettivamente l’impianto teologico proprio della metafisica cristiana con quello caratteristico delle forme giuridiche moderne ha avuto con Benjamin e Taubes una riscrittura escatologica (cfr. C. Schmitt, Teologia politica in Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1981; J. Taubes, Escatologia occidentale, pref. di M. Ranchetti, Milano, Garzanti, 1997; W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997): per entrambi il tempo dell’apocalisse messianica andrebbe, più che trattenuto, affrettato. Ma se la “modernità”, al contrario di quanto affermava, proprio contro Schmitt, Hans Blumenberg, non sarebbe dotata di un’autonoma “autocefalia” (cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’era moderna, tr. it. a cura di C. Marelli, Genova, Marietti, 1992), restano allora da comprendere quali siano i “dispositivi” che hanno effettivamente traghettato nel moderno il fondamento teologico proprio delle società e delle forme statuali dell’Ancien Regime, insieme ai vincoli di salvezza impliciti nelle loro espressioni simboliche e pratiche. Se Schmitt evidenziava, dentro i grandi paradigmi giuridici dello Stato moderno, su tutti quello dello stato di eccezione, la riformulazione di dispositivi teologici, Stimilli, sulle orme di Foucault, delinea invece nella secolarizzazione un altro transito teologico: il movimento costituente della modernità andrebbe indagato, ancor più che nella metamorfosi dei dispositivi giuridici, nella trasformazione delle forme economiche e politiche di “liturgia” (cfr. G. Agamben, Segnatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008; G. Agamben, Opus dei. Archeologia dell’ufficio. Homo sacer II, 5, Neri Pozza, Vicenza 2011).

Ciò che porta dunque Stimilli a recuperare le indagini intorno alle pratiche ascetiche e alle condotte di vita del padre intellettuale di Schmitt, Max Weber, è allora proprio il rimosso di cui Agamben rimprovera i cattolici Schmitt e Peterson, giurista l’uno e teologo l’altro (cfr. E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, tr. it. di H. Ulianich, Brescia, Queriniana, 1983), ne Il Regno e la Gloria, ovvero la matrice teologico-economica del potere moderno. Contro Peterson, che negava, opponendosi a Schmitt, la possibilità di una teologia politica cristiana proprio in nome della distanza tra trinitarismo teologico e forma monarchica dello Stato romano, il paradigma agambeniano individua la matrice teologica delle pratiche gestionali della sfera pubblica. Il concetto weberiano di secolarizzazione appare allora in questo senso più vicino al modello proposto da Agamben di quanto non lo sia quello di Schmitt: a condizione però di individuare proprio nelle “pratiche ascetiche”, in quanto orizzonti di esercizi metodici formalizzati, il dispositivo costituente fondamentale della “teologia economica”. Così, l’orizzonte etico-economico a cui Weber riconduce la sociologia della religione può effettivamente gettare a sua volta, in quest’ottica, una diversa luce intorno alla macchina “gestionale” della vita divina, che i padri trinitaristi avrebbero consegnato alla storia occidentale.

Dove però il percorso di Stimilli si allontana dal lavoro di Agamben è appunto nell’indagine dei dispositivi “interiori” delle “liturgie”. L’autrice può così riprendere un frammento del 1921 in cui Walter Benjamin analizza il capitalismo, e ben prima di dedicarsi allo studio dei Passages parigini, proprio in quanto religione. Le forme di tale culto “sans rêve et sans merci” sarebbero caratterizzate per il filosofo tedesco, in questo non diversamente da qualunque credo tradizionale, proprio da una forma fideistica, orientata all’“essere in debito”. Pura religione cultuale, tutta immanente, il capitalismo sembra essere costituito da una produzione immateriale, economica e psicologica, di debiti insolvibili. Facendo esplicito riferimento a Nietzsche, Freud e Weber come ai “sacerdoti” del tempio capitalistico, Benjamin sottolinea i caratteri che del pensiero di ognuno appaiono ai suoi occhi direttamente riconducibili alla forma di vita capitalistica: se l’incremento di forze caratteristico dell’oltreuomo nietzschiano darebbe forma perfetta alla nuova religione, il rimosso freudiano della colpa avrebbe in sé sin troppi sintomi della natura occulta del capitale. Ma l’interesse di Stimilli va innanzitutto al carattere fideistico che sembra abitare, per Benjamin, la coscienza della colpa propria del capitalismo (cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, a cura di G. Galli, Milano, BUR, 2006).

La “fede”, la sua istituzionalizzazione politica, questa dunque la tesi centrale di Stimilli, costituisce il vero perno intorno a cui ruota la “secolarizzazione” occidentale: se per Weber la coscienza “economica” puritana è l’effetto di precedenti pratiche di vita già economicamente strutturate, il suo “successo” culturale nel capitalismo, come “essere in debito” secolarizzato, è divenuto per l’autrice, anche nelle forme di metodica più distanti da un modello sacrificale del mondano, lo strumento ideale di un assetto governamentale fondato sul dominio tecnico-finanziario, sempre più astratto, della produzione. Il governo capitalistico dei viventi potrà così legittimarsi non solo attraverso una economia del debito in quanto sacrificio di sé, come ancora riteneva Weber leggendo Benjamin Franklin, quanto attraverso una economia di soggetti indebitati che solo grazie alla produzione di nuove forme di indebitamento possono garantirsi, seppur in forma di feticcio, la soddisfazione dei propri desideri. Il controllo metodico dell’esistenza, proposto da Weber come archetipo della condotta di vita dell’asceta intramondano, calvinista prima e compiutamente capitalista dopo, si ripresenterebbe dunque in altre forme: sempre di pratiche di vita però si tratta, permeate dalla fiducia nella possibilità, tutta immanente – e tutt’altro che puramente “idealistica” -, della salvezza individuale.

Senza inoltrarsi in un’analisi dell’epistemologia weberiana, Stimilli si limita a evidenziare, dentro la pluralità di direzioni di ricerca del filosofo tedesco, la sua costante attenzione verso l’interconnessione etico-economica delle forme di vita religiosa: qualunque lettore di Weber, la cui “sociologia” si può adesso forse cominciare a ripensare, sia sulla scorta delle nuove edizioni critiche che del pensiero foucaultiano, come una “genealogia delle forme di vita”, non ha certo difficoltà a riconoscere nell’autofinalità attribuita alla logica produttiva del capitalismo e nella sua legittimazione attraverso specifiche tecniche di vita, le stesse forme di controllo dell’agire etico-economico, di per sé “infondato”, che Weber analizza in altri capitoli della sua sociologia delle religioni (cfr. a questo proposito W. Schluchter, Religion und Lebensführung. Studien zu Max Webers Kultur- und Werttheorie, Frankfurt / M., Surkhamp Verlag, 1988). Se Foucault stesso, pur con importanti distinguo, ha collocato a più riprese Weber tra i padri filosofici della propria “ontologia dell’attualità” (cfr. ad esempio Qu’est-ce que les Lumières?, in M. Foucault, Dits et écrits 1954-1988, II 1976-1988, éd. ét. sous la dir. de D. Defert et F. Ewald, avec la coll. de J. Lagrange, Gallimard, Paris 2001), Stimilli può pertanto riprendere questi aspetti della riflessione weberiana, del resto cruciali anche per Jaspers, per indirizzarli verso una genealogia, ancora tutta da venire, di quelle “condotte di vita” che hanno giocato per la modernità un ruolo costituente.

Dove infatti il lavoro di Foucault si interrompe, le indagini di Weber sulla metodica di vita dell’ascesi protestante sembrano indicare, nell’interpretazione di Stimilli, una pista ulteriore, in grado di farci comprendere la vera posta in gioco di una critica del dispositivo governamentale del “debito”: la possibilità cioè di rinvenire, nella trama delle condotte vocate a scontare con un nuovo debito intramondano la perdita di qualunque speranza di salvezza trascendente, quella libertà anarchica dell’agire (cfr. a questo proposito R. Schürmann, Il principio di anarchia. Essere e agire in Heidegger, tr. it. di G. Carchia, Il Mulino, Bologna, 1995) che, riconosciuta da Weber, andava incontro per lui ad un inesorabile destino di irreggimentazione tecnica, dentro quella “gabbia d’acciaio” su cui si sarebbe retta la potenza “più fatale” dei nostri giorni. Alla tragica prospettiva di un pensatore che, da conservatore radicale, tentò fino all’ultimo di individuare un impossibile equilibrio “politico” tra forze opposte, al fine di garantire, se non altro, il miglior governo possibile di quella notte che vedeva profilarsi all’orizzonte, con i suoi demoni in perenne lotta tra loro (cfr. M. Weber, La politica come professione, a cura di P. Rossi, Torino, Einaudi, 2004), Stimilli oppone lo statuto costantemente mobile dell’agire come l’unica reale possibilità di demolizione della religione di “puro culto” del capitalismo, effettivamente avviata ormai, con le sue liturgie della disperazione, come Weber preventivava in accordo con Marx, ad informare tutte le “forme di vita” o, più precisamente, tutte le “etiche economiche” del mondo: a farsi cioè prima forma di vita compiutamente globale. Prospettare nuove, libere direzioni alle energie economicamente convogliate dalle metodiche di vita, e non accontentarsi dell’esercizio “inoperoso” (Agamben) di un’archeologia o di una decostruzione della teologia e delle liturgie (cfr. J.-L. Nancy, La creazione del mondo o la mondializzazione, Torino, Einaudi, 2003; id. La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, Napoli, Cronopio, 2001): solo in tal modo, per l’autrice, sembra possibile sottrarre la nostra esperienza del mondo a quella inarrestabile conformazione seriale delle condotte di vita che caratterizza sempre di più l’essenza dispiegata del nichilismo non più solo europeo, e che si mostra ormai, nella sua potenza tecnica estesa a livello globale, come la più compiuta e pervasiva eredità di una “ontologia economica” della soggettività.

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La recensione di Gianfranco Ferraro al libro di Elettra Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, (Quodlibet, 2011, pp. 291), è uscita sul sito della Società italiana di filosofia politica ([url”www.sifp.it/”]www.sifp.it/[/url]).

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