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Culture dimenticate

“Venticinque sentieri smarriti dell’umanità” è il sottotitolo del libro "Culture dimenticate" di Haarmann, una collezione di fatti archeologici fuori teoria o fatti dimenticati, accantonati, minimizzati perché poco utili o in contro-narrazione.

Culture dimenticate
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18 Gennaio 2023 - 22.52


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di Pierluigi Fagan.

“Venticinque sentieri smarriti dell’umanità” è il sottotitolo del libro “Culture dimenticate” di Harald Haarmann, una collezione di fatti archeologici fuori teoria o fatti dimenticati, accantonati, minimizzati perché poco utili o in contro-narrazione con le versioni dominanti. I citati casi di Dilmun, della regina Zenobia di Palmira e delle mura ciclopiche dello Zimbabwe del precedente post ne fanno parte. Noi vi abbiamo aggiunto le pitture rupestri di Sulawesi. Ma c’è parecchio altro.

Giù nel tempo profondo c’è il caso della lance di Schöningen, otto lance-giavellotti miracolosamente scampati all’entropia che, ricostruiti in copia perfetta, sono stati lanciati da atleti raggiungendo i limiti del primato olimpico femminile di specialità, circa 70 metri. Cose non inventate lì per lì, frutto cioè di trasmissione ed affinamento cultur-artigianale molto sofisticato, un sapere forse condiviso tra diversi gruppi, per diverse generazioni. Peccato siano di 320.000 anni fa, non sapiens ma neanche neandertalensis, bensì hidelbergensis. Come si scambiavano conoscenze questi antenati? Parlavano tra loro in qualche modo? Visto che è praticamente l’unico manufatto non di pietra del paleolitico inferiore che ci è pervenuto, cosa ci siamo persi nelle letture del “come eravamo?”.

Trenta anni fa, si sprecavano i libri specialistici in cui veniva spiegato perché i Neanderthal non potevano avere linguaggio e da qui la loro minorità culturale. Oggi sappiamo che avevano linguaggio ed abbiamo prove di pensiero simbolico ed artistico, anche molto antico. Per carità, differenze di complessione ed anche di DNA tra noi e loro ci sono, ma oggi si ritengono molto meno significative del recente passato. Questo tende ad erodere uno dei famosi paradigmi ovvero che l’innovazione umana promani dall’innovazione genetica (paradigma a sua volta in transito verso una Sintesi estesa più ampia e sistemico-complessa), dinamica guarda caso molto simile a quella del cambio dei modi di produzione per innovazione tecnica. Non che queste dinamiche non esistano, ma forse non sono l’unica ed a volte neanche la principale variabile del cambiamento macro osservato.

Rispetto al problema della gerarchia sociale, H. cita la proto-civiltà danubiana dell’Europa Antica (VI-V millennio a.C.) e quella della valle dell’Indo (III millennio a.C.). Il primo problema è accettare che il repertorio di simboli grafici del primo caso, sia da annoverare come proto-scrittura, precedente il cuneiforme. Pagine e pagine di spiegazioni sulla “invenzione” della scrittura (sono tutte “invenzioni” secondo questa IDM forgiata sui telai con spoletta volante che portarono alla rivoluzione industriale nel XIX secolo) alla nascita della civiltà, palazzi di potere, re, accumulazione e ridistribuzione di risorse, tutte teorie deterministiche, riduzioniste, monocausali (economiciste) da mandare al macero o rivedere pesantemente. Ma non c’è solo il problema del primato scritturale. I “danubiano-balcanici” antichi non avevano palazzi di potere né di culto, non avevano sepolture o case di prestigio, non mostrano differenza di potere sociale tra maschi e femmine, avevano una sofisticata divisione del lavoro, erano agricoli come i mesopotamici, non avevano mura perimetrali ed armi che pure conoscevano. Eppure, nel IV millennio avevano da due a quattro volte città più grandi delle prime mesopotamiche (Uruk) tra i 10.000 ed i 7.000 abitanti cadauna. Ne parlavano nel loro libro anche Graeber-Wengrow (L’alba di tutto, Rizzoli).

Vale anche per i vallindi (India-Pakistan), III millennio a.C., stessa mancanza di segni di potere centrale e gerarchia, wc attaccati alla rete fognaria in ogni casa di modello standard (con acqua corrente), un raffinato sistema di irrigazione, almeno quattrocento segni di repertorio grafico (non decodificato ancora, come per i danubiani), niente mura, armi e casta militare o sacerdotale. Ma avevano una area culturale di più di mille villaggi, evidentemente non subordinati ad un centro, non a forma di impero ma di “cultura”. I due principali centri erano Mohenjo-Daro contava 30.000 abitanti, Harappa 40.000. Siamo alla popolazione massima di Uruk la prima città-Stato di potere e gerarchia della Mesopotamia con la quale i vallindi erano, tra l’altro, in floridi e multiformi rapporti commerciali. Come facevano ad organizzarsi socialmente per tenere tanta complessità senza apparenti gerarchie stabili? Come si vede, dalla scrittura a quanto la gerarchia sociale debba esclusivamente al modo di produzione agricolo e non solo, abbiamo sequenza di problemi teorici che stridono con le forme condivise di teoria sociale della nascita delle civiltà.

Ma i fatti fuori teoria abbondano sempre più e si sommano a chiamare nuove teorie generali meno primitive e stereotipate delle nostre attuali. Cosa facevano e come vivevano gli abitanti di Catalhoyuk, Anatolia (Turchia) tra il 7500 ed il 5500 a.C. in una città di 10.000 persone circa, di nuovo tutte con lo stesso tipo di case, niente armi, niente palazzi di potere o di culto, agricoltori, allevatori ancora attivi nella caccia e raccolta, nessuno differenza di potere sociale tra maschi e femmine (ma con una chiara inclinazione al culto della facoltà di dare la vita da parte delle donne, cosa che appare abbastanza logica come per altro i culti del Sole. Vita, cosa c’è di più importante per l’Essere?), giovani o anziani, con ricche pitture murali ed addirittura la prima pianta topografica (della loro città) mai trovata al mondo? Forse occorre distogliere il nostro sguardo d’indagine da presunte dinamiche necessarie interne alle società ed osservare le condizioni di contesto, spesso sono queste a spingere i gruppi a modificare radicalmente i loro assetti. È spesso una questione di come ci si adatta a contesti che cambiano velocemente e radicalmente diventando più problematici.

Oggi sta succedendo esattamente lo stesso, triplicazione popolazione mondiale in soli settanta anni (ormai e per la prima volta, il nostro areale è il mondo), dinamiche ecologico-climatiche, problemi delle risorse, equilibri geopolitici da rivedere, tecnologie non socialmente determinate.

Per arrivare al più importante “fatto fuori teoria” ancora non ben digerito nonostante l’evidenza palese e lampante. Parliamo di Gobekli tepe, a partire dal 10.000 a.C., millenni prima di piramidi, ziggurat, Stonehenge et varia edilizia pubblica a base di schiavi e potere dato dalla gestione dei surplus agricoli (che poi di recente s’è scoperto che le piramidi egizie erano fatte dando lavoro pubblico regolarmente pagato ad agricoltori ed artigiani disoccupati nella stagione fuori il ciclo semina-raccolta). Schiavitù e guerre sono fenomeni più tardi del ritenuto, de di come l’umano-sociale ha reagito alla complessità di contesto, forse ci manca una teoria del regresso di civiltà accanto a quella del progresso. La collina di Gobekli ospita venti circoli con cadauno otto piloni di pietra scavata in tutt’uno, roba da fino a sei metri cadauno (ma in genere tre metri), venti tonnellate in tempi in cui non c’erano i metalli, finemente scolpiti con basso o alto rilievi senza figure umane. Niente villaggi o città intorno, il sito non era abitato ma usato da chi, come e perché vattelapesca. Siamo ancora a “cacciatori-raccoglitori” per intenderci, niente cereali ammassati per pagare manodopera modello salariato, ma si sono trovate ampie tracce di birra (anche a Gerico). Oggi gli scavi nei dintorni stanno trovando (Karahan tepe) decine di piloni simili, quella era una “area culturale”, forse una confederazione tribale ma di chi e fatta come siamo solo all’inizio di scoprirlo. Duemila anni prima di Catalhoyuk che è tremila anni prima della prima Uruk e l’inizio del pacchetto gerarchico: agricultura-re-militari-sacerdoti-ricchi&poveri-scrittura-imperi etc. Gobekli tepe dista temporalmente da Uruk come noi distiamo sempre da Uruk-inizio della civiltà, solo per dare il senso della profondità storica.

Siamo nel mesolitico, il periodo della transizione (come il nostro), tremila anni che sarà fantastico studiare meglio perché sono fitti-fitti di cose straordinarie e dinamiche incredibili che ci aiuteranno a capire meglio chi davvero siamo o eravamo. Lì le condizioni di contesto diventano sempre più complicate per riduzione dell’offerta naturale (caccia e raccolta), aumento della densità territoriale, inversione climatica dopo esser state precedentemente molto favorevoli con la deglaciazione. Ci furono agricoltura, commercio, credenze anche senza gerarchia sociale ma con complessità sociale e l’unica cosa certa per il passaggio allo stadio gerarchico è che ogni spiegazione monocausale fallisce, soprattutto se solo internalista ed a salti rivoluzionari accesi da invenzioni umane.

Nel libro poi ci sono mummie europee in Cina, Hittiti, Sciti con oreficeria incredibile, Amazzoni, minoici, Khmer, vaste geometrie precolombiane amazzoniche, etruschi a cui forse dobbiamo molto più del ritenuto, una enciclopedia di storie affascinanti e tutte tanto umane quanto incredibilmente varie.

Insomma, la ricerca sull’umano nel tempo profondo è un campo di studi affascinante per svariati motivi, tra cui il contendere all’immagine di mondo dominante lo schema interpretativo. Nel loro caso di giustificazione del fatto che questo è il migliore dei mondi tra i possibili, nel nostro, la convinzione che un altro modo è possibile, poiché già lo è stato, a certe condizioni. Adattamento è cambiare per andar d’accordo col mondo, ma anche cambiare il mondo per metterlo in accordo a noi, con nostre intenzioni condivise. Per capire meglio cosa e come poter esser altro, cosa meglio dello studiare cosa e come siamo stati? Per trovare nuovi sentieri rovistare in quelli smarriti può aiutare?

Fonte: https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/pfbid0H1GD2hSS8odx6Bmz4a39xvWYc9v3XhGjZ2cFAoqzuw1a6ixDZvJgqNiqf6TUXiQDl.

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