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Dall’egologia all’ecologia

C'è una linea di faglia che separa l’ipermodernità del capitalismo spettacolare-integrato a guida angloamericana, dalla nascente era complessa in cui sta prendendo forma un mondo multipolare attraversato da sfide trasversali gigantesche.

Dall’egologia all’ecologia
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26 Aprile 2023 - 15.12


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di Paolo Bartolini.

Dove siamo? Parto con questa domanda, che riecheggia il titolo di un libro recente dell’antropologo e pensatore francese Bruno Latour, da poco scomparso. Tra i temi caldi che polarizzano l’opinione pubblica, soprattutto sui social networks ma non solo, troviamo con insistenza gli interrogativi etici sulla cosiddetta intelligenza artificiale e una congerie di rivendicazioni che attengono alle identità di genere. Altri due argomenti, di portata ancora più decisiva, catturano l’attenzione collettiva e generano un dibattito vivace e inquieto: il disastro ecoclimatico e la guerra in Ucraina (con tutti i risvolti internazionali annessi e connessi).

Una cortina di ingombrante silenzio sembra calata, invece, sulla gestione autoritaria e inefficace della pandemia. L’indisponibilità delle istituzioni a mettere in discussione le strategie adottate dal 2020 in poi, insieme alla necessità di congelare un dibattito democratico che porterebbe a capovolgere di segno la lettura degli eventi filtrati “militarmente” dai mass media, offuscano dunque la rilevanza di questa ulteriore dinamica in corso.

Comunque, la mia sensazione è che un filo rosso leghi tutti questi eventi culturali, geopolitici e antropologici. Essi si collocano sulla linea di faglia che separa l’ipermodernità del capitalismo spettacolare-integrato a guida angloamericana, dalla nascente era complessa in cui sta prendendo forma un mondo multipolare attraversato da sfide trasversali gigantesche: crisi ecologica, ridistribuzione delle aree di influenza per le grandi potenze nazionali, aumento dei flussi migratori forzati, diseguaglianze sociali. Il filo rosso riguarda il ripensamento radicale di categorie filosofiche come identità e differenza, libertà e limite. Gli effetti perversi del tecno-capitalismo hanno prodotto società frammentate, conflitti distruttivi e nuove patologie che colpiscono a vario titolo tutte le fasce sociali.

Si sta così sgretolando l’architettura di fondo dell’Occidente, la sua cosmovisione atomistica basata sul primato degli individui sulle relazioni.

Il rapporto tra umani e non-umani, ora che il mito della “crescita infinita” si è infranto contro la limitatezza delle risorse naturali e la fragilità degli equilibri degli ecosistemi, va riconfigurato superando la scissione tra un fantomatico soggetto razionale, libero e autonomo, e una natura intesa come oggetto su cui esercitare azioni e saperi finalizzati al controllo, al dominio e all’estrazione di plusvalore. La cultura dell’Essere inteso come sostanza, come “assoluto”, è in disfacimento; meglio non stanno i monoteismi con la loro pretesa di uniformare il molteplice alla volontà unica e soprannaturale del divino. L’umanità plurale del terzo millennio, però, non si lascia ingabbiare nel recinto degli auspici universalistici astratti, pur condividendo in maniera inedita e destinale la casa comune, il pianeta Terra, oggi minacciata dagli eccessi di un modello di sviluppo fallimentare.

Questo fermento plurale lievita in un passaggio storico ben preciso: quello in cui l’egemonia degli Stati Uniti d’America e dei suoi alleati declina vistosamente, mentre le rispettive élite rifiutano di accettare il riequilibrio a cui sono chiamati i principali protagonisti della geopolitica contemporanea. Miliardi di persone non si riconoscono nella famigerata Comunità internazionale, la stessa che ha condannato (giustamente) l’invasione russa dell’Ucraina, ma che nega il contributo poderoso dato allo scatenamento del conflitto da parte del blocco di interessi atlantico. Il mondo unipolare a stelle e strisce, emerso dopo il crollo del muro di Berlino, è adesso in crisi e la guerra sembra ai suoi sostenitori l’unica via per rallentare il passaggio di testimone dagli USA alla Cina e ai suoi satelliti (grandi e meno grandi).

Questo scenario è permeato da domande implicite che tormentano i nostri contemporanei, prima sicuri del loro posto nel mondo, oggi spaesati e sconvolti per le scosse telluriche provenienti dalla storia. Provo a esplicitarle. Chi sono io? Su quale terreno poggiano i miei piedi? Come affrontare l’incontro con la differenza senza smarrire un senso coerente di sé? Esiste ancora un futuro da sognare e costruire insieme? Come venire a patti con il fatto che la specie umana non è il vertice della natura, ma una sua componente, talora infestante poiché incline alla dismisura? Quali sono – insomma – i margini concreti di libertà e i vincoli materiali e biopsichici che rendono ormai ridicoli gli slogan di un capitalismo senile che gioca a fare l’eterno adolescente (“Tutto è possibile”, “No limits”…)?

Non credo sia sbagliato affermare che il malessere contemporaneo, incontrato anche nella stanza di analisi, muova da un’incapacità di trovare risposte chiare a tali quesiti epocali.

Ne risente ogni campo dell’esistenza individuale e collettiva: quello delle relazioni di coppia e dei metodi riproduttivi, quello della cura dei beni comuni, del rapporto con le altre specie animali, della convivenza tra etnie diverse, dell’accesso a un mercato del lavoro dove regnano insicurezza e sfruttamento, del livello di umanità minimo per non permettere che le persone in fuga da situazioni drammatiche finiscano sul fondale del Mediterraneo o in qualche lager a cielo aperto. Di sicuro i vecchi confini – politici, geografici e identitari – non possono arginare i sommovimenti innescati da tutto ciò che ho commentato agilmente fin qui. Nell’ambito dei saperi, dei vissuti singolari e dell’immaginario, del costume e dell’arte, tutto ciò che è “trans” o “cross” sta guadagnando una centralità indiscutibile.

Non si riesce, per insofferenza o per intelligenza del cuore, a tollerare contenitori del pensiero e della vita troppo rigidi. Le maschere di ruolo imposte dall’alto disturbano e soffocano il respiro. Le frontiere comprimono il desiderio umano dell’incontro e di una mobilità priva di coercizione. Tutto viene rimesso in discussione, mentre fino a ieri era solo il capitale finanziario a circolare senza freni e controlli alle dogane. Questa tendenza complessiva non va innanzitutto giudicata, ma compresa, e per farlo diventa cruciale interrogarci su come rendere compatibile il desiderio umano con i limiti del vivente.

Si tratta, infatti, di riterritorializzare la vita delle comunità e degli individui senza cadere in forme reazionarie di sovranismo identitario. Il futuro è nebuloso, ma il passato non ci offre di certo dei modelli di convivenza adatti ai tempi. Riproporre soluzioni tradizionaliste per gestire il caos contemporaneo è stupido, inefficace e dannoso, anche se brandire posizioni ultraconservatrici fa la fortuna di qualche personaggio pubblico in cerca di notorietà. Nonostante questi rigurgiti ideologici, ormai sappiamo bene che non c’è alternativa al dialogo, all’ascolto delle “ragioni degli altri”[1], alla ricerca di un senso che sappia comporre percezioni e rappresentazioni di sé unificando il molteplice senza negarlo. “Noi contro gli Altri”, ecco l’opposizione fatalmente anacronistica che dobbiamo abbandonare, non per dismettere il conflitto generativo, ma per liberarci dalle catene del dominio, dell’esclusione, dell’incomprensione reciproca. Per esodare dai territori occupati dalle logiche del tecno-capitalismo, siamo chiamati a maturare una consapevole posizione filosofica che integri i frammenti sparsi qui discussi e li osservi alla luce di un’ecologia delle pratiche e dei discorsi.[2] Non stupisca adesso l’invito a una riflessione filosofica “alta”. Del resto la prassi costringe le teorie a riformularsi, e le teorie orientano pur sempre l’agire umano, secondo una circolarità virtuosa o viziosa. Dato lo spazio a disposizione ho deciso, qui, di esprimermi per bagliori, dando spunti che meriteranno una ripresa più organica altrove.

Una prospettiva filosofica all’altezza del presente potrebbe suonare così: la vita non è un Intero che si possa osservare da fuori, è una totalità aperta e mai conchiusa. Ne facciamo parte, quindi non è traducibile in un sapere definitivo e “oggettivo”. Nessuno la sperimenta in generale, bensì sempre in situazioni concrete. Essa è un fenomeno che incarna il proprio transito inarrestabile in figure determinate (soggette a continua metamorfosi, ma caratterizzate da alcune coerenze strutturali che impediscono un divenire casuale e sconclusionato). La vita, per riprendere una metafora di Henri Bergson che ho trovato in un’opera di Carlo Sini, è un fuoco d’artificio, esplosione e frammentazione continua nel molteplice delle sue figure antagoniste e complementari: preda/predatore, madre/figlio, maschio/femmina, partner/partner, vecchie/nuove generazioni… L’identità, colta in questo gioco di complementarità, è sempre relativa, cioè relazionale. Lo sviluppo psicofisico e spirituale dell’essere umano si dà solo nel luogo dell’intersoggettività, dove l’amore e il desiderio degli adulti plasmano una creatura in via di farsi. Non esistono, insomma, soggetti a monte belli e fatti, ma solo a valle, dove comunque il soggetto continua a evolvere e cambiare. La nostra vita è un processo di individuazione perenne, con aspetti stabili (individuati) e turbolenze creative (prossime allo strato preindividuale dell’essere ipotizzato da Gilbert Simondon) che richiedono di essere incanalate per trovare una realizzazione adeguata, ovvero una forma che eviti gli estremi della sclerotizzazione identitaria e della dispersione priva di centro. È l’evento atemporale e aspaziale della relazionalità radicale (Panikkar) quello che traccia il limite e, nello spazio e nel tempo, con-figura le combinazioni tra viventi: un qui per un là, un tu per un io, e viceversa.

Scrive Sini a tal proposito:

Per parte nostra diciamo che il limite è la soglia in cui e per cui due “cose” entrano in relazione di reciprocità. Il limite infatti è una relazione, non una cosa. Una cosa ha dunque l’altra al limite, ma il limite non è un’altra cosa, è l’essere in relazione della cosa. […] Ogni figura è un precipitato di mondo. Ogni figura è l’evento del mondo nei segni di un corpo. Ogni figura è un corpo “segnato”. Ogni figura reca traccia degli eventi che l’hanno preparata, segnata e disegnata. Transito di innumerevoli vicende e di molteplici supporti, il suo evocarli ne configura l’aura».[3]

Ecco, dunque, che ciascun vivente, come figura di mondo che si stacca dal mondo e agisce in esso secondo le proprie caratteristiche, può molto ma non tutto. L’eredità delle «innumerevoli vicende» che lo hanno costituito come uno specifico nodo nella rete della vita, pone ogni esistente dentro un perimetro di azioni aperto ma non illimitato.
La coevoluzione in accoppiamento strutturale che vede protagonista l’elefante, ad esempio, fa sì che l’organismo esplori i suoi possibili a partire dalla compatibilità del suo corpo con gli ambienti che frequenta, che modifica e da cui viene modificato. La ricchezza meravigliosa della biodiversità – non a caso minacciata dall’economia predatoria di mercato, dai suoi scarti e dalla miopia di una tecnica messa al servizio dell’accumulazione capitalistica – sboccia laddove i potenziali degli esistenti si confrontano con i limiti interni (struttura dell’organismo stesso e suoi tropismi, dovuti entrambi alla lunga durata dell’evoluzione di specie) ed esterni (ad esempio il ciclo alimentare che assegna, nella permanente autofagia dell’essere, ad alcuni animali il ruolo di predatori e ad altri di prede; i numerosi vincoli che l’ecosistema impone alla sopravvivenza di un determinato organismo…).

Negli umani i possibili logici e fantasmatici suscitati dal linguaggio e dal fare tecnico (su cui si regge il lavoro sociale) rischiano, non di rado, di risultare – come suggerisce Miguel Benasayag rievocando un concetto di Leibniz – non compossibili. La realtà, insomma, fa resistenza e non permette che tutto possa realizzarsi. Vuoi volare senza ali? Dovrai adoperarti per prendere un aereo, un deltaplano, una mongolfiera, perché se ti butti dalla finestra e agiti le braccia, non farai una bella fine. A questo livello sorge il problema (meraviglioso e inquietante insieme) del desiderio umano. Quest’ultimo emerge dentro un quadrilatero di eventi evolutivi molto chiaro: a) il predominio nell’umano della pulsione sull’istinto; b) la ricorsività del linguaggio e la sua potenza creativa inarrestabile; c) l’agire comunitario in forma di prassi/lavoro (con la produzione di resti accumulabili e riutilizzabili secondo progettualità condivise); d) la facoltà di immaginare altrimenti ciò che è dato ipotizzando alternative e soluzioni divergenti rispetto alle criticità incontrate.

Qual è il problema antropologico per eccellenza? Quello di non imbrigliare il desiderio, ma di coltivarlo con saggezza affinché si riveli compossibile rispetto alla realtà del campo biologico, quindi della vita organica e culturale che in esso affonda le radici. Il desiderio, si sa, si nutre della mancanza, ambisce a colmare un divario, una distanza. Può compiersi nell’unione tanto attesa, ma non si acquieta mai definitivamente. Risorge dopo l’intensa combustione dei corpi e delle anime. Ogni momento fusionale è condannato (per fortuna) a restituire i viventi alla loro figura relazionale, separata dalle altre e impossibilitata contemporaneamente a fare a meno di esse. Tutta la vita materiale, ma anche quella psichica, ruotano attorno a processi di unificazione e separazione, come bene avevano inteso i filosofi presocratici. Nell’epoca del desiderio addomesticato dal tecno-capitalismo, o esacerbato fino al disgusto per diffondere piaceri tossici funzionali al profitto privato, tenere insieme senza dissociarli i poli del legame e della libertà è la missione principale per chi ha compreso che la politica oggi investe questioni tanto economiche, geopolitiche ed ecologiche, quanto antropologiche e spirituali. D’altronde il desiderio porta in sé i semi sia della passione per l’infinito, che della dismisura. Quest’ultima, come fuga dai limiti e dalla morte, si presenta come volontà di potenza estrema, illusione di poter travasare la vita vissuta nel codice della vita saputa, nei suoi segni analitici: primo fra tutti il denaro.

Il passaggio dalle comunità sacrali a gruppi umani sempre più determinati – con l’affermarsi della modernità – dalla funzione economica, da una democrazia di facciata, da innovazioni tecnologiche finalizzate a negare la fragilità dei corpi e dei bisogni (basati sull’interdipendenza) e a costruire il sogno artificiale dell’uomo “aumentato”, ha reso in-differente la vita dei singoli, scollegandola dall’appartenenza simbolica al cosmo/pianeta e ai luoghi concreti dell’esperienza comunitaria. Il desiderio, inteso regressivamente come volontà infantile di dominio e di controllo, la fa da padrone, con l’effetto di desertificare sentimenti e vissuti, di impoverire la ragione critica, di mutilare il linguaggio (che ci offre le parole per pensarci), di rimuovere dal raggio della coscienza i nodi critici del nostro tempo. Questo desiderio al grado zero, fondamentalmente immaturo e ignorante, non impedisce – per un paradosso che non è invero tale – all’erotismo e alla sessualità di scoprirsi deboli, con un crollo generalizzato della voglia di incontrare l’alterità e di mettere in comune le proprie differenze (definizione non peregrina dell’amore tra i sessi).

Ciò accade, oserei dire, quando il desiderio vitale degli umani viene intercettato dal potere e con esso si confonde. La sovrabbondanza di stimoli sessuali mercificati, invece di “liberare” Eros, lo assuefà, lo droga, lo spegne appiattendone lo spessore.

Quale cura, dunque, dobbiamo pensare per la dismisura e per la concomitante resa collettiva al degrado del tecno-capitalismo nella sua fase terminale? Innanzitutto – e spinozianamente – una cura della ragione, che trovi antidoti alle sue derive totalitarie e ne rilanci la capacità di cogliere nessi e stabilire relazioni, aumentano la nostra potenza di agire. Pensare in modo generativo significa questo. E la ragione, in questa fase di transizione ecologica e multipolare, dalle nostre parti è chiamata a salvare il meglio della tradizione occidentale abbandonando le fantasie di immortalità che proliferano nell’immaginario transumanista, neoliberista e della cosiddetta “intelligenza” artificiale. Se è vero che non siamo individui completi alla nascita, e che diventiamo umani un po’ alla volta, partecipando a quelle dinamiche relazionali che sostanziano l’Intero non in una “cosa” statica, permanente e “in sé”, ma in un intreccio di processi-al-limite, cioè creativi e al contempo regolati da vincoli strutturali e dalla funzione X-tollerante del campo biologico,[4] allora dobbiamo cominciare a pensare libertà e legami in senso ecologico, sporgendoci oltre i bordi dell’io e delle sue smanie di padronanza.

Questa esigenza si riflette in tutte le aree che ho discusso all’inizio del presente scritto.

La priorità, oggi più che mai, è quella di accettare i limiti, di comporre i conflitti, di promuovere la libertà senza confonderla con il liberismo dei capricci e delle identità fluide care al circo spettrale della società dello spettacolo (che umilia decenni di lotte per i diritti tramutandone le istanze in un gioco di conformismi controproducente).

Possiamo essere noi stessi, e imparare a diventarlo, quando evitiamo gli estremi – anche e soprattutto nelle futili diatribe social – e non scambiamo l’identità per una corazza rigida e la differenza per una liquefazione delle strutture date e dei legami costitutivi che ci tengono al mondo. Mi pare che nella questione aperta dei sessi e dei generi, del conflitto e della passione che li separa/connette, si possa rintracciare uno spunto con il quale chiudere queste riflessioni che ho sviluppato in ordine sparso. Ogni identità di genere, nel tentare di liberarsi dai binarismi della propria cultura di appartenenza, è chiamata a maturare, sul versante psichico, sociologico e politico, un’ecologia delle figure compossibili, al fine di non lasciarsi catturare dall’incantesimo dell’immaginario tecno-capitalista, secondo il quale (con una caricatura del motto femminista “il corpo è mio e lo gestisco io”) ognuno potrebbe scegliere di testa a quale dimensione sessuata dell’umano assegnarsi, facendo del proprio corpo un progetto di totale emancipazione dai vincoli materiali e affettivi conosciuti dentro la famiglia, la società e il gruppo di appartenenza. La psicoanalista Alessandra Lemma, nei suoi lavori dedicati alle modificazioni corporee, al fenomeno del transessualismo e ai mille modi con i quali l’anima (il sé) è chiamata a trovare dimora nel corpo,[5] ci costringe a fare i conti con una verità inconfutabile: ciascun esser umano, piaccia o meno, proviene da un’origine irrevocabile. La coppia genitoriale, e con essa una cultura determinata e l’intera specie, si riproducono nella strozzatura del corpo individuale, segnandolo con aspettative, desideri, rifiuti, proiezioni ecc.

Non si può semplicemente pretendere di cancellare, secondo fantasie inconsce di autocreazione, quei “corpi dati”, quindi ricevuti da altri e segnati dall’Altro, che portano traccia dell’eredità biologica, dell’amore e del disamore di coloro che ci hanno accolto in una certa comunità umana. Il duro lavoro psichico e filosofico da fare, per abitare le asimmetrie dell’identità e della differenza in maniera non egocentrica, è quello di vivere il processo di individuazione/soggettivazione ricordando che nessuno ha diritto di imporci chi essere se l’esperienza soggettiva non collima con questa prescrizione, ma anche che la nostra vita non è davvero “nostra”, perché non è una proprietà da possedere. Con una provocazione direi che, quando smettiamo di desiderare di essere tutto (di essere Dio) e comprendiamo di poter solo partecipare a questa pienezza, assaporando l’infinito della vita che circola nelle figure incarnate della finitezza, siamo allora pronti per affermare: “il corpo non è mio… e lo gestisco io!”. Perché – e qui la distanza abissale di questo discorso dai veleni del patriarcato, del maschilismo e dell’autoritarismo religioso o di Stato – quando riconosciamo che la vita non è al servizio di alcuna brama “privata” siamo davvero pronti a prendercene cura, a decidere liberamente sul nostro corpo, non perché sia “roba nostra”, ma perché esso esprime nella sua figura sospesa tra provenienza e destinazione la complessità delle situazioni, dell’intreccio naturalculturale che ci rende umani e non opossum o farfalle, pur riconoscendo l’impossibilità di vivere una vita pienamente umana senza farfalle, alberi, fiumi, montagne e opossum. Un ragionamento affine andrebbe fatto per i beni comuni, che non sono proprietà esclusiva di nessun individuo e richiedono di onorare i legami della nostra appartenenza e inclusione in ecosistemi ben precisi, coltivando possibilità realistiche di trasformazione di ciò che è dato, in natura e in società, senza danneggiare gli equilibri finissimi che armonizzano il molteplice in una sorprendente cooperazione interspecifica alla quale tutti prendono parte con la loro identità relazionale.

Nel calderone di queste considerazioni che ho provato a mettere in forma provvisoria, si trova a mio avviso la misura di una resistenza creativa al peggio, che non ceda – come scrivo in chiusura di un mio saggio – alla «duplice follia dell’uniformazione globalista e della guerra tra identità contrapposte e non comunicanti».[6]

Se un’intersezionalità delle lotte è auspicabile, e io lo credo fortemente, mi auguro che tale effervescenza critica e trasformativa prenda sempre più le distanze dalla narrazione dominante, minando alle fondamenta quella passione per la dismisura che fa del potere una caricatura mostruosa del nostro desiderio autentico di una vita liberata.

NOTE:


[1] Questo è il titolo di uno splendido libro del 2013 scritto dall’etnopsichiatra Piero Coppo, uscito per Raffaello Cortina Editore, Milano.

[2] Mi permetto di rinviare, su questo, al mio Un’ecologia delle pratiche. Curare  l’ignoranza dei legami con la filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023.

[3] C. Sini, Il sapere dei segni. Filosofia e semiotica, Jaca Book, Milano 2012, pp. 11-12.

[4] Miguel Benasayag parla di funzione X-tollerante quando vuole ricordarci che la vita organica e il campo biologico che la sostiene non possono tollerare qualsiasi manipolazione/modificazione, opponendosi tramite disfunzioni, malesseri e resistenze ai progetti di trasformazione integrale del vivente in valore economico.

[5] Cfr. A. Lemma, Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee, Raffaello Cortina, Milano 2011; Id., Pensare il corpo. L’esperienza corporea in psicoanalisi e oltre, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2015; Id. Le identità transgender, Franco Angeli, Milano 2023.

[6] P. Bartolini, Un’ecologia delle pratiche, cit.

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