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Alla ricerca del tempo perduto

La 'green way' è la marca di un nuovo stile di vita e consumo che promette di rilanciare in parte l’esausta macchina risolvi-crea problemi che chiamiamo 'capitalismo'. Ma intanto il problema ambientale esiste e nessuno lo affronta come fenomeno complesso.

Alla ricerca del tempo perduto
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4 Agosto 2023 - 23.50


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di Pierluigi Fagan.

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO. Da settanta anni, tutti gli indicatori eco-climatici del pianeta o tutti i principali e tra questi i più delicati, vanno fuori scala, lasciano la progressione inclinata in un certo modo e ne prendono un’altra che punta repentinamente in alto. Ripeto “ecologici e climatici” che sebbene noi le si tratti come questioni separate non lo sono affatto visto che è sempre e tutta chimica, disciplina su cui c’è una vasta ignoranza.

Sempre da settanta anni la popolazione terrestre è triplicata e industria, agricoltura intensiva, bisogni energetici e nuove intensità di consumo della società iper-accessoriate si sono estese all’Asia dove c’è il 60% della popolazione mondiale (noi “western” -europei/anglosassoni- siamo solo circa 16%, se ben ricordo).

L’insieme di questi fatti non si è mai verificato nella storia umana di tre milioni di anni.

Gli effetti di questa progressione annunciata già dai primi anni ’70, si sono fatti sentire negli anni ’80. I primi anni ’90, quando molti di voi non erano ancora nati o si occupavano d’altro, 102 premi Nobel (incluso Rubbia) lanciano un “avviso all’umanità” (avviso! non appello) dicendo che le cose stavano andando fuori registro e promettevano di andar sempre peggio se non si fosse intervenuto. A seguire, esce un altro appello questa volta firmato da 72 premi Nobel preoccupato del fatto che le questioni in ballo erano molto complesse e dovevano esser gestite con criteri scientifici visto il summit di Rio che prendeva una piega un po’ troppo anticapitalista. Ripeto: trenta anni fa.

Era il 1992 ed a Davos si occupavano di globalizzazione, tant’è che due anni dopo viene lanciato l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) ovvero il nuovo format del commercio e finanza globale. La nuova globalizzazione interveniva sulla storica propensione allo scambio su scala planetaria già aumentato di sette volte tra 1950 e 1971. L’industria veniva spostata in Oriente dove la crescente popolazione prometteva mano d’opera docile ed a basso costo, in Occidente si prendevano soldi a tassi tendenti a zero e si investivano in nuova crescita orientale producendo centinaia e poi migliaia di nuovi miliardari (il famoso 1%), ma anche disoccupazione ed abbassamento dei redditi medi occidentali. Nuove fabbriche, nuovi trasporti, nuovi tenori di vita, nuove classi medie di proporzioni inusuali, nuova energia fossile da bruciare per avere energia, nuove navi container e navi cisterna a gasolio, nuovi areoplani per andare di qui e di là. Ma anche nuova agricoltura e allevamento intensivi per sfamare miliardi di nuove bocche, deforestazione, acidificazione degli oceani, prelievi smodati dal ciclo dell’acqua e perturbazione di vari cicli geo-chimici. Per non parlare dei rifiuti.

Non solo quindi nessuno si occupò di questo crescente problema, non solo si operava a livello globale in direzione esattamente opposta, ma molti si adoperavano alacremente per negare vi fosse un qualche problema, in parte, gli stessi che oggi strepitano h24 dicendo che dobbiamo convertirci alla green way che è la marca di un nuovo stile di vita e consumo che promette di rilanciare in parte l’esausta macchina risolvi-crea problemi che chiamiamo “capitalismo”.

Proprio a Davos, all’indomani della crisi del sistema banco-finanziario occidentale del 2008-9, si svegliano d’improvviso dopo la grande abbuffata e scoprono con angoscia che il pianeta è sregolato. Siccome i soldi si fanno giocando sul tavolo planetario, se il tavolo traballa, si inclina, sussulta, il gioco si fa pericoloso. Si narra che furono proprio le compagnie assicuratrici, ganglio fondamentale del sistema finanziario, a far presente l’insostenibilità delle continue richieste di risarcimento danni per polizze “ambientali” vendute incautamente basandosi sulle serie statistiche dei decenni precedenti. Era il 2010 quando i  Davos formano un think tank di ricerca che comincia a sfornare rapporti annuali sempre più catastrofisti in cui si addensano fosche nubi sulle materie prime, l’inquinamento, la sregolazione climatica, le migrazioni, le pandemie ed altre piaghe d’Egitto. Il rapporto si intitola “Global Risk” perché l’investimento ha un solo nemico naturale, il rischio, tocca calcolare i rischi per puntare i soldi su processi che promettono di moltiplicare i capitali. Oppure cavalcarli.

Ma il mondo normale tutto questo non lo sa, continua a vivere, discutere, dibattere, operare e pensare senza aver la minima conoscenza di ciò che sta avvenendo a livello planetario.

Ad un certo punto, di recente, comincia ad infittirsi la fenomenologia dei rischi, per altro già ampiamente annunciata da uno dei più grandi sociologi fine ‘900, Ulrich Beck che non avendo profilo Instagram o account social (per altro è morto otto anni fa) risulterà ignoto ai più. Beck aveva lucidamente avvertito che la nostra sarebbe stata la “società del rischio”, pensate già nel 1986! Non ci vuole un Nobel per dedurre che se aumenti di tre volte la popolazione sul pianeta e ne metti una sempre più grande parte a vivere all’occidentale, salta tutto il cucuzzaro. Ma l’ovvio ed il buonsenso non hanno pubblico.

Ha invece pubblico la doppia irrazionalità. Quella di coloro che cominciano a dipingere di verde i contenitori di plastica dei detersivi che lavano più bianco ma salvano Bambi fino ad arrivare alle automobiline elettriche che spostano la catena del consumo carbonifero a monte così che occhio non vede cuore non duole. Ma anche quella dei furbacchioni cui non gliela fai, la CO2 non è un veleno ma cibo per le piante (!), bombardano le nuvole apposta per produrre grandine che ci crea paura di modo da sottometterci a Matrix, nel Medioevo e al tempo di Annibale faceva più caldo. Costoro pensano che tutto il marasma lo programmino a Davos, altrimenti sarebbe tutto normale. Così, non sapendo che il marasma ha cause sue, scambiano effetti per cause. Del resto, quando vivi da particella inconsapevole di un sistema che ti sovrasta di molti gradi, cosa vuoi capire?

Ecco allora assurgere a centrale la nuova figura sociale dello spacciatore di semplificazioni. Già all’opera col Covid e la guerra in Ucraina, ora la merce più richiesta è la Verità sul Clima.

Lo spacciatore di semplificazioni ha tutti i vantaggi. Le persone hanno poco tempo da dedicare a comprendere le questioni complesse. C’è una precisa forma di organizzazione sociale che obbligando le persone a lavorare per 40 e più ore alla settimana per il 90% del tempo veglia annuo, non crea le condizioni di possibilità a priori. Manca la prima condizione di possibilità necessaria ad elevarsi dall’infimo rango di bestie lavoratrici produttrici di profitto per chi le organizza: il tempo. Tempo per capire, per riflettere, per agire politicamente. Togli tempo alle mentalità e gli puoi far fare qualsiasi cosa perché credono a qualsiasi cosa.

Il limite del poco tempo si sposa con una organizzazione mentale coltivata a schemi semplificati. Se sei bestia trattata come tale, già dai tempi della caverna platonica è ovvio tu venga coltivato a mantenere un cervello da bestia. Ci sono vari strati di questa coltivazione, alcuni molto sofisticati che risalgono ai processi educativi e formativi, altri rudimentali ma molto efficaci come il bombardamento propagandistico. Si formano così i guelfi ed i ghibellini, i progressisti ed i conservatori, gli esperti dell’uno e dell’altro, ognuno con la sua verità, in genere urlata in piena sindrome Dunning-Kruger o Pizia al contrario. In base a cosa decidi quale è la tua verità è un mistero della fede visto che non sai quasi nulla di ciò di cui si sta parlando. Quindi -appunto- è questione di fede e dire che c’era anche chi pensava la modernità esser l’età del disincanto. Hanno trasferito le chiese su i social.

Infine, molti argomenti complessi oggetto di semplificazioni dicotomiche (cioè a due versioni o A o B, mai C), sono emotivamente ansiogeni. Guerre, bombe atomiche, virus, pandemie, neri cattivi, cinesi pure, catastrofe climatica che comunque è sempre meglio di quella ecologica (che non fa audience), futuro, il bene ed il male, il giusto o l’ingiusto, anche quando sono impacchettati da argomenti d’opinione generale, sono in realtà temi esistenziali, afferiscono alla nostra vita personale, al bilancio tra gioie e dolori. L’ansia distorce la ragione perché ha neurotrasmettitori più forti e connessioni privilegiate. Evolutivamente, dato un enigmatico fruscio nella boscaglia, la velocità e pertinenza con cui decidevate se scappare in preda all’ansia o meno, ha fatto la differenza tra vivere o morire. Non esiste un cervello razionale ed uno emotivo, il cervello è un sistema unico, non è un computer complicato fatto a schede, è un sistema complesso da “cum-plexus” ovvero: intrecciato assieme. Noi umani facciamo cose complicate, la natura fa cose complesse.

Ecco perché esistono gli spacciatori di semplificazioni, perché c’è una domanda implicita di droga sedativa l’ansia. Ansia che cresce nelle menti eccitate da eventi che non riescono a domare almeno nella razionalizzazione perché non hanno la struttura mentale per farlo e non hanno tempo per formarsela. Oltre ovviamente esser bombardati da chi ha interesse ad impadronirsi della tua delega a lasciar loro, che sanno come si fa, l’onere e l’onore di difenderti dal mondo malvagio ed inquietante. Versione dominante o “dalla parte tua”, dicono.

Ad esempio, Crosetto che fa sfoggio di lucidità deduttiva secondo la quale poiché la conversione alle rinnovabili comporta l’utilizzo di minerali cinesi e visto che noi abbiamo interesse (?) a tagliare gli scambi coi cinesi, la green economy è un tafazzismo. Anzi, aggiunge Urso, ministro per le Imprese ed il Made in Italy, tocca riaprire le miniere! Scappi dai progressisti isterici e ti ritrovi in braccio ai conservatori pazzi, sembra un film di Romero. Forse sfugge ai critici-critici il cui livello di formazione ed informazione è problematico, che sono settimane che le Confindustrie di mezza Europa assediano i rispettivi governi a dire che se non la smettono con questa idea del green deal loro chiudono, delocalizzano e mandano per strada gente. Non c’è solo il capitalismo pronto a far soldi con il finto green washing, c’è anche quello che ci rimette profitti e quindi agisce. Strano che i critici-critici così acuti a domandarsi da quali interessi sono mosse certe posizioni oggi condividano le posizioni di chi sono trenta anni che nega ci sia alcun problema. Coincidenze.

Mentre i più cercano di districarsi affannati tra grandinate, sudate, geologi contra climatologi, Zichichi, ritagli del giornale di decenni fa che dicevano la stessa cosa che si dice oggi dimostrando che “non c’è nulla di nuovo sotto il Sole”, Sole che pare abbia pure diminuito l’irraggiamento a suolo negli ultimi cinquanta anni in cui invece le temperature medie sono aumentate (ma sicuramente le misurazioni sono sbagliate!), c’è la guerra degli esperti. Tra questi, segnalo una terza posizione tra i filo IPCC e la multiforme schiera scettica.

Alcuni tra coloro che dicevano di questo problema trenta anni fa e non vennero ascoltati, continuano a non esser ascoltati. Secondo loro non c’è proprio più nulla da fare, la macchina termica (e le molte altre che formano l’ecologia planetaria) sono state irreversibilmente sregolate. Si può al massimo contenere il problema che genererà effetti sempre più catastrofici ma per coloro che ne avranno a che fare tra qualche decennio. Dovremmo discutere i contenimenti ma sono cose pallose e complicate, non sono divertenti, sono reali (bleah, schifo il reale a noi piace l’ideale!).

Abbiamo perso tempo, perdiamo tempo, il tempo stabile e ciclico in cui siamo nati, vissuti e ci siamo sviluppati è perso, inutile ricercarlo. Per capire tutto ciò e pensare e discutere soluzioni di minima nonché metterle in pratica ci vorrebbe una democrazia, ma una democrazia consuma tempo e noi il tempo non ce l’abbiamo, non l’abbiamo perduto, non l’abbiamo mai avuto.

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