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La forza del pensiero di Pier Paolo Pasolini

L’immensa forza del pensiero di Pasolini derivava dalla sua passione etica. Sapeva che senza questa passione anche il più brillante raziocinare era mostruoso. [Piero Pagliani]

La forza del pensiero di Pier Paolo Pasolini
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12 Novembre 2015 - 09.34


ATF

di Piero Pagliani

[right]Mio Tu, mio Altro, mio altro Me stesso,[/right]

[right]siamo sospinti per delle traiettorie[/right]

[right]di eventi singolari.[/right]

[right]Io lo so, Tu lo sai:[/right]

[right]Il moto può sviare a noi la storia[/right]

[right]E riafferrarci il Tutto.[/right]

[right][i]Plenum[/i][/right]

[right](Enrico Isacco Rambaldi Feldmann, Eventi, Edizioni dell’Arco, 1995)[/right]

[right]Piange ciò che muta, anche[/right]

[right]per farsi migliore. La luce[/right]

[right]del futuro non cessa un solo istante[/right]

[right]di ferirci: è qui, che brucia[/right]

[right]in ogni nostro atto quotidiano,[/right]

[right]angoscia anche nella fiducia[/right]

[right]che ci dà vita, nell’impeto gobettiano[/right]

[right]verso questi operai, che muti innalzano,[/right]

[right]nel rione dell’altro fronte umano,[/right]

[right]il loro rosso straccio di speranza.[/right]

[right][i]Il pianto della scavatrice[/i][/right]

[right](Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti 1993)[/right]

[center]***[/center]

L’immensa forza del pensiero di Pasolini derivava dalla sua passione etica. Sapeva
benissimo che senza questa passione anche il più brillante raziocinare diventava
una mostruosità. Perché l’etica? Sembra
molto “materialista”, molto “scientifico”, relegare l’etica alla sfera della
coscienza personale. In realtà è soltanto molto “progressista” e non ha nulla a
che vedere coi processi di emancipazione. Serve a togliere ostacoli al
procedere della distruttiva opera delle élite. Pasolini
era invece ben conscio che l’etica misura i rapporti sociali, anche nella loro
conflittualità. L’etica impone una misura anche allo smodato o per lo meno fornisce
la capacità di riconoscerne, e denunciarne, la smodatezza, l’anelito e la
volontà di andare oltre ogni limite, che è poi la sostanza della logica
autoreferenziale del capitalismo, che infatti non vuol farsi misurare da
nessuna etica.

E
oggi, infatti, di etica non ne abbiamo più nemmeno un’oncia. Ne siamo privi
così come è privo d’oro Fort Knox. Se è verissimo che un’etica assoluta crea
enormi problemi e genera mostri, il relativismo assunto come principio non
sottoposto a criteri di alcun tipo ne crea altri. E così la nostra coscienza
etica è oggi come un derivato bancario. Sotto non c’è nulla, ma solo altri
derivati. Al contrario di quella che muoveva la passione civica e politica di
Pasolini, la nostra etica ha solo un valore “nozionale”. Non
riescono più a smuoverci nemmeno cose inaccettabili come la dichiarazione
pubblica del Segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright, che 500.000
bambini iracheni morti a causa dell’embargo erano un “prezzo giusto” (The
price is worth it
). In pochissimi hanno alzato un sopracciglio e nessuno è
andato oltre.

[center]

[/center]

L’astrazione
orrenda, spaventosa, è il segno del nostro tempo. Il massimo di materialismo
produce il massimo di astrazione. Così 500.000 bambini sono solo un numero,
tutto sommato come ce ne sono tanti.

Eppure
una volta non era così. Una volta, per quanto manipolati possano essere stati,
c”erano numeri che non rimanevano quantità astratte. C’erano ad esempio i sei
milioni di ebrei trucidati dal nazismo. Per la mia coscienza, per la coscienza
di molti, non erano numeri, ma coltellate nell’anima. C’è
chi afferma che non erano sei milioni, ma solo quattro o forse meno. Qualcuno
che lo ha affermato, con quel “solo” di commento, è anche diventato santo. “Solo”?
Ma cosa cambia dell’efferatezza? E se fossero stati “solo” tre? O “solo” due.
Ma attenzione: così facendo da sei milioni si arriva al singolo individuo. E di
quel singolo individuo possiamo sapere allora gli occhi, l’espressione, la
bocca, i sentimenti, i progetti spezzati. Il nome:

[center](…) Yohai Rebecca, dell’ottantadue;[/center]

[center]nata in Turchia; fu deportata ad Auschwitz;[/center]

[center]selezionata nel quarantaquattro (…)[/center]

[center](…) anche Elsa Zamorani, di Bologna,[/center]

[center]lei era nata nell’ottantatrè (…)[/center]

[center]([b]Enrico Isacco Rambaldi Feldmann[/b])[/center]

Anche
un elenco è più di un numero. Quando poi si risale a quattro o sei milioni, non
si ha più un numero, ma una moltitudine di individualità. Perché continuando a
scendere si è arrivati all’individuo, a quell’individuo che nella sua unicità
trasforma un numero astratto in un grande moto etico concreto di condanna e di
rifiuto, espansione di quello stesso moto etico che si ha di fronte all’assassinio
del singolo innocente.

Noi
in Europa, in qualche modo, questo processo di decostruzione della quantità e
di ricostruzione morale lo abbiamo fatto, perché lo abbiamo sperimentato a casa
nostra, se non coi nostri occhi, almeno con quello dei nostri genitori
testimoni. Quelli di mia madre, ad esempio, che cercò di strappare alla Gestapo
l’amato cugino, ma non ci riuscì e non lo rivide più.

Ma
i dirigenti occidentali sanno da almeno due secoli che è difficile ripetere
questo processo di ricostruzione del concreto dall’astratto, questo processo di
pulizia, di ecologia dell’anima per 500 mila bambini di un lontano Paese
asiatico, che così possono rimanere solo un numero, addirittura uno strumento
di contabilità: “Il prezzo è giusto”. Morti astratti. Astratti come il denaro.
Eppure, come il denaro, pur sempre terribili concrete astrazioni.

Cercano
di impedircelo privandoci dell’etica, ma dobbiamo a tutti i costi ripercorrere
lo stesso doloroso processo di decostruzione e ricostruzione anche per quei 500
mila piccoli iracheni, fino a immaginare per ognuno di essi i capelli, il
colore degli occhi, la forma della bocca e sentire il suo respiro di bambino o
bambina, interrotto dalle élite-orco dell’Occidente. Solo
in questo modo avvertiremo prima l’esigenza e avremo poi la forza di urlare “Perché?”.

Non
occorre un grande sforzo, basta che non si permetta che la nostra umanità venga
oscurata da una propaganda che diventa sempre più aggressiva man mano che mette
in campo argomenti sempre meno credibili. Tutto sommato basta essere solo un
po’ criticamente curiosi. A volte può essere utile aver fatto qualche viaggio.
Mi si stringe il cuore quando penso a che fine può aver fatto il simpatico
giovane incontrato per caso ad Aleppo che ci fece visitare la fabbrica di
sapone della sua famiglia. Mi si stringe il cuore a pensare al Baron’s Hotel e
alle persone che lì ci avevano accolti. Che fine avranno fatto? Saranno vivi?

Oggi
è ridotto a un ammasso di macerie, ma prima era un gioiellino liberty,
prediletto da Agatha Christie e dove nel soggiorno si poteva ammirare in una
bacheca il conto del colonnello Lawrence, sì proprio Lawrence d’Arabia. Una
reliquia che oggi appare come un monito o un presagio delle selvagge vendette
di cui si sono poi dimostrati capaci gli antichi conquistatori.

L’etica
come collante di una comunità, pur percorsa da conflitti interni, dunque.
Sfondo di una metrica comune con cui si misurano i rapporti nella società e anche
i suoi conflitti, per quanto aspri (in fondo è così che sapevamo che da una parte
c’erano i lavoratori e dall’altra i padroni; per quanto grezza possa essere
stata questa divisione, richiamava qualcosa di concreto, non derivati, spread,
prodotti finanziari strutturati, numeri giganteschi che sfuggono alla
comprensione delle persone e le opprimono).

Ora
le élite hanno disintegrato l’etica per disintegrare la comunità e persino i
suoi conflitti, per mettere al loro posto solo un orrendo nulla astratto
e pretendono da noi che solo su di esso ci si possa misurare. La misura dei rapporti sociali non ha più come
sfondo la comunità. L”orrendo nulla astratto che oggi ci propongono e impongono
le élite è popolato da false comunità costruite a tavolino da esperti di
marketing, così come lo sono i conflitti e gli obiettivi che secondo loro dovrebbero
appassionarci.

Niente
di nuovissimo, comunque. Così come il vecchio capitalismo tendenzialmente privo
di confini ha dovuto inventarsi, paradossalmente, i confini del nazionalismo e
del razzismo per giustificare le proprie sanguinose epopee imperialistiche
(perché il denaro ha bisogno della politica, e la politica ha bisogno delle
distinzioni e divisioni per operare ed essere efficace), oggi, per fini
immutati, il capitalismo si inventa, al contrario, la società liquida, senza
punti di riferimento intrinseci, ma imposti da élite che non solo si ritirano
sempre più in isole lontane e al riparo dalla società e delle sue dinamiche
etiche e politiche (basti pensare alle istituzioni della UE), ma che si
riescono persino ad appropriare dei “tentativi del popolo di riprendersi la
società civile”, come avrebbe detto Marx, e a stravolgerli per i propri fini.

Di
tutto questo Pasolini aveva visto gli esordi e ne aveva previsto lo
svolgimento. Diceva
“Io so i nomi, ma non ho le prove”. Ma a un poeta che nella sua intuizione
artistica afferma “Io so” dobbiamo credere. Non possiamo esigere da lui le
prove. Le
prove erano nel suo stesso agire di poeta che osserva con sensi enormemente
sviluppati la realtà e poi, libera da costrizioni, lascia che la sua intuizione
scavi nel proprio tempo per precorrerne altri, per andare oltre. Le prove erano
il suo sconvolgente “vedere” e il suo provocatorio “dire”. E l’hanno ucciso.

[center]***[/center]

Da Piero Pagliani, La Bohème. Il
profilo melodico della rivoluzione in giacchetta

(Megachip, 2 giugno 2015)

Le nuove bohème

Privata
del suo possibile alleato proletario, la bohème europea si è mossa nel
Novecento inoltrato sbandando, a volte appoggiando idee reazionarie e
nazionaliste. Solo alla fine degli anni sessanta del Novecento i primi sintomi
della crisi sistemica sovrapposti agli effetti della più grande espansione
materiale del capitalismo termoindustriale occidentale, fece scoppiare prima la
rivolta studentesca e poi quella operaia (e negli Usa quella afroamericana). Le
lotte operaie e quelle studentesche (che in seguito si coagularono nei gruppi
politici extraparlamentari), erano però destinate a non incontrarsi, nonostante
una breve fiammata comune in alcuni luoghi specifici. A questo mancato incontro
contribuirono vari fattori, dalla trasformazione della cosiddetta “composizione
di classe” al passaggio alla finanziarizzazione. Ma oltre a ciò occorrerebbe
riflettere sui risvolti politici e soggettivi. Tuttavia è evidente che esisteva
già una dissonanza iniziale tra le due ribellioni, inevitabile data la non
commensurabilità tra uno stato transitorio e intellettuale-esistenziale e uno
permanente di carattere squisitamente materiale-politico.

Tutto
sommato il Sessantotto ha rappresentato un paradosso. Era un movimento
disperatamente aggrappato al pensiero rivoluzionario classico, o meglio confinato
alla sua elaborazione classica, ma l’inadeguatezza di questo pensiero a
comprendere le trasformazioni radicali di una crisi sistemica preparata da uno
sviluppo materiale che presentava molte caratteristiche post-classiche (come le
multinazionali integrate verticalmente e a conduzione manageriale) e sfociata
in una finanziarizzazione senza precedenti, questa inadeguatezza, dunque, ha
permesso che quel movimento diventasse veicolo della modernizzazione che era
richiesta proprio da quell’evoluzione del capitalismo in Occidente. Era una
modernizzazione nella sfera della morale, dei costumi e in quella
intellettuale. Quindi quel movimento non riuscì a  mettere in discussione il capitalismo. Di
fatto la bohème studentesca sessantottina si era intestardita a voler
mettere a nudo la borghesia, ma la borghesia si era già spogliata dei suoi
vecchi abiti, lasciandovi sotto solo uno spaventapasseri.

Lo
aveva capito benissimo, nel corso degli eventi, Pier Paolo Pasolini:

Mentre la reazione prima distrugge rivoluzionariamente (rispetto a
se stessa) tutte le vecchie istituzioni sociali – famiglia, cultura, lingua,
chiesa – la reazione seconda (di cui la prima temporaneamente si serve, per
poter adempiersi al riparo della lotta diretta di classe) si dà da fare per
difendere tali istituzioni dagli attacchi degli operai e degli intellettuali.
E’ così che questi anni sono di falsa lotta sui temi della restaurazione
classica, in cui credono ancora sia i suoi portatori che i suoi oppositori.
[1]

In questo processo non è difficile vedere
l’appropriazione da parte della “borghesia” (termine che però, a mio avviso,
era già allora impreciso) di gran parte degli obiettivi e a volte dei metodi
delle lotte del Sessantotto. Un’appropriazione alla quale corrispondeva
simmetricamente la volontà della sinistra storica di adeguarsi a questo stato
di cose nel «tentativo di annettersi il nuovo mondo». I «gauchisti»
vi vedevano invece una «potenzialità miracolosa di riscatto e rigenerazione»
veicolata dalla «nuova forma di storia creata dalla civiltà
tecnologica
» (si pensi oggi agli abbagli riguardo Internet). Giustamente
Pasolini sottolinea che questa palingenesi era il «vecchio sogno
borghese-cristiano dei comunisti non operai
».

In
altri termini il gauchismo studentesco e intellettuale, nuovamente affrancato
da ogni forma di disciplina politica e sociale, riprendeva il libro dei sogni
di una bohème sovrastorica, vissuta in frammenti puramente ideali, e
facendo finta di collegarli alla storia, a volte la più ortodossa, del
movimento operaio e comunista, lanciava invece a briglie sciolte
l’immaginazione dell’Intelletto (e non della Ragione). Nei suoi risultati più
puri, essa avrebbe finito per crearsi un capitalismo a propria immagine e
somiglianza: il “capitalismo immateriale” o “capitalismo cognitivo” [2].

La
bohème sessantottina compiva battaglie e blitz contro un «finto
potere che il potere reale lascia ancora in concessione ai suoi difensori e ai
suoi avversari, perché vi smaltiscano, accademicamente, i vecchi sentimenti
»
(ivi, pag. 20).

Nell’analisi
che Pasolini fa di questi fenomeni troviamo molti dei caratteri della bohème
classica ottocentesca, come sono emersi dal nostro precedente discorso.

Innanzitutto
quello di un fenomeno sociale posto in mezzo a due distinte forze d’attrazione.
Da una parte il successo individuale, che Pasolini legge negli anni settanta
come una «atroce nevrosi euforica, che gli fa accettare senza più resistenza
alcuna il nuovo edonismo con cui il potere reale sostituisce ogni altro valore
del passato
». Dall’altra parte una forza d’attrazione morale che esercita
su una «piccola minoranza» una «nevrosi d’ansia, che quindi mantiene
viva in essi la possibilità di una protesta
». Ma, aggiunge subito «si
tratta degli ultimi, veramente ultimi umanisti
».

C’è
un giudizio molto duro ma pertinente di Pasolini riguardo la dimensione
puramente intellettuale della ribellione: «Senza senso comune e concretezza
la razionalità è fanatismo
» [3].
Ecco di nuovo, allora, la necessità di quella che possiamo definire “passione
empirica” di Mimì, di quel tratto di genere che è sorgente di concretezza e
senso comune che, a dispetto degli intellettualismi, è l’unico sprone ad
esercitare senza soste e cedimenti l’«esame critico dei fatti»,
ineludibile dovere di ogni intellettuale per non essere “irresponsabile”.

Così
come per Pasolini la vittoria in Italia del fronte laico al referendum sul
divorzio era la cartina di tornasole di una rivoluzione antropologica in cui la
«tolleranza modernistica di tipo americano» diventava un valore dei ceti
medi, allo stesso modo un simile slittamento valoriale lo troviamo oggi
nell’elettorato conservatore degli Stati Uniti, per il quale ad esempio la
liberalizzazione delle droghe leggere e le unioni omosessuali non sono più un
tabù. Conservatorismo politico e conservatorismo etico non corrispondono più,
si disgiungono. È chiaro allora che la contromorale bohémienne può solo
condurre battaglie contro quegli spaventapasseri che sono lasciati a bella
posta dal potere reale. Lo stesso tipo di battaglia a vuoto che avviene sulla
scena politica, pura gesticolazione sul palcoscenico di un teatrino dietro il
quale, per dirla con Gramsci, sghignazza il faccione della realtà.

In
una società in cui i capelli lunghi erano simbolo di contestazione, nelle «“cose”
della televisione o delle réclames dei prodotti
» rilevava Pasolini, «è
ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane senza i capelli lunghi
».
In altri termini, ciò che voleva essere scandaloso per il potere, per il potere
era scandaloso che non ci fosse.

«Il
ciclo è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura
all’opposizione e l’ha fatta propria
» [4].

[…]

Se,
come sostengono Luc Boltanski ed Ève Chiapello, il Sessantotto ha visto
all’opera una nuova bohème, la sua critica al potere non era né giusta
né sbagliata, perché era priva di oggetto:

In specifico, l’attacco bohémien e artistico del
Sessantotto alla borghesia italiana ebbe luogo mentre essa stava saltando le
tappe da proto-borghesia (con ancora tracce di influssi tardo-signorili
tipicamente di matrice agraria e comunale) a post-borghesia consumistica priva
ormai di un ruolo storico e ideologico, benché il capitalismo italiano
continuasse ad essere un ibrido tra capitalismo familiare e capitalismo
manageriale. Se l’Italia era caratterizzata da una “borghesia stracciona” con
tutti i suoi ritardi, come già pensava Gramsci, il Sessantotto le aveva tolto
gli stracci, ma senza metterla a nudo, semplicemente perché sotto gli stracci a
quel punto non c’era più alcunché di rilevante
[5].

Oggi che un nuovo “fascismo progressista” «americanamente
pragmatico
» (Pasolini) ha ormai occupato tutti i tavoli da gioco politici e
culturali, ai nuovi sprazzi di ribellismo bohémien può capitare anche di
peggio: essere dalla stessa parte del Potere anche più torvo, senza che nemmeno
riescano ad averne il sospetto, perché la nuova impressionante pervasività del
pensiero unico del declinante sistema di potere del termocapitalismo
occidentale priva chiunque cada nel suo raggio d’azione anche di quei pochi
anticorpi che ancora nel Sessantotto resistevano, come l’antimperialismo,
sostituendoli col culto di ideali talmente astratti e discrezionali da poter
giustificare persino il massacro di donne e bambini.

NOTE


[1] P. P. Pasolini, La prima, vera rivoluzione di destra (1975). In Scritti
corsari
, Garzanti, Milano, 1975, pag. 19.

[2] Per una critica a questi concetti,
si veda il mio Al cuore della Terra e ritorno, Parte Prima, Sezione V (megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=73540).
Si noti che non nego che la crisi sistemica e in particolare la
finanziarizzazione stiano riorganizzando radicalmente il lavoro e la divisione
del lavoro
.

[3] P.P. Pasolini, Gli intellettuali del ’68: manicheismo e ortodossia
della “rivoluzione dell’indomani”
. In op. cit., pag. 25.

[4] P.P. Pasolini, Il “discorso” dei capelli. In op. cit., pag. 13.

[5] Al cuore della Terra e ritorno, Parte Seconda, pag. 23.
Scaricabile da http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=73540

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