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Tempi complessi

Il pensiero della complessità e l’interpretazione del mondo. Intervista a Pier Luigi Fagan [Paolo Bartolini]

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18 Gennaio 2016 - 19.03


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(a cura) di Paolo Bartolini

Lei si occupa da anni di “complessità” declinando con rigore e ironia una critica duplice: al capitalismo globale, con la sua classe politica e imprenditoriale, e ai nemici del Sistema che continuano a ragionare adottando schemi logici vecchi almeno di due secoli. Quali sono, a suo avviso, gli errori principali di coloro che, un giorno sì e l’altro pure, vorrebbero capovolgere il capitalismo e puntualmente non vi riescono?

Appunto il fatto che un giorno e l’altro pure, tentano, non vi riescono ma non riescono neanche a cumulare qualche avanzamento sostanziale nell’opera e dopo un secolo e mezzo non si pongono la domanda su cosa non va di questo loro tentare e non riuscire. Il sistema anticapitalista ha il suo problema nella sua stessa definizione, che è negativa. L’esercizio del negativo ha ragioni logiche che rispondono a valori, ma l’ordinatore del nostro vivere associato risponde solo alla capacità che ha di fornire un qualche tipo di adattamento. Possiamo criticarlo in quantità e qualità a piacere ma fino a che non verrà progressivamente mosso, manipolato intenzionalmente, per diventare qualcos’altro che produca miglior adattamento (magari non solo materiale, ma neanche solo ideale), da una parte rimarranno idee in forma di parole, dall’altra permarranno fatti in forma di prassi. Ultimamente sono stato preso da una delle Tesi su Feuerbach di Marx ma non l’undicesima che è la più nota, bensì la seconda che, tra l’altro, dice: “E” nell”attività pratica che l”uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”. Nel canone delle idee e delle prassi che hanno avuto come fine il cambiamento del nostro modo di stare al mondo si vede una certa indisponibilità all’auto-apprendimento, sembra un sistema non adattivo, non percepisce la realtà che vorrebbe modificare, non apprende dai suoi errori, è molto critico ma molto poco auto-critico, sembra indisponibile a ripensarsi con la radicalità che dovrebbe essergli propria, è immune alla falsificazione. Basato sull’astrattezza, ha prodotto metri cubi su metri cubi di librerie e biblioteche mentre il suo oggetto, ciò che critica, ha prodotto pochissimi libri ma tantissimo mondo. Del resto, questo canone, ha mostrato e mostra spesso tratti tipici di certe forme organizzate di credenza immodificabile, il dogmatismo, le scomuniche, l’impermeabilità al tempo ed al cambiamento, l’ ossessione per il Libro (il Capitale, il Manifesto, ad esempio), la formazione appunto di una “scolastica” con tanto di tentativo di subordinare la ragione alla fede, una fede inscalfibile su alcuni punti di analisi, prognosi ed anamnesi che però, non avendo prodotto ciò che dovevano produrre, andrebbero profondamente rivisitati. Ci si rivolge con passione, sebbene critica, a questo pensiero e soprattutto a coloro che ne condividono la supposta verità, perché sono queste le prime forze sulle quali si può contare per riprendere instancabilmente l’opera della trasformazione intenzionale del nostro modo di stare al mondo. Questa è una critica amica o meglio, una auto-critica.

Il primo punto, il punto originario dal quale si biforcano due diversi modi di sviluppare il discorso, è se ritenere questo modo dipendente dal gioco che s’instaura tra forze e rapporti di produzione – e tra questo sistema “materiale” e la sua proiezione “ideale” in quello che Marx chiama “modo di produzione” – o se ritenere il nostro modo di stare al mondo, una variante o diversa versione di una forma più semplice ed antica ovvero la forma gerarchica come forma d’ordine degli aggregati umani complessi. La gerarchia sociale cioè non origina dal modo di produzione e non è tentando la modifica del modo di produzione che s’annulla. Ha avuto forme di genere, di generazioni, di etnia, forme religiose, militari, politiche prima che economiche. La storia della gerarchia sociale, oggi che abbiamo qualche conoscenza archeologica ed antropologica maggiore di un secolo e mezzo fa, sembra dirci che la sua origine fu funzionale, forse addirittura delegata e solo nel tempo divenne un potere intenzionalmente conteso e difeso per ordinare tutto il complesso sociale. L’emancipazione da questa forma semplice, quella che per prima abbiamo trovato in una storia che ha solo 10.000 anni, che è ancora l’infanzia della complessità sociale umana, presuppone un percorso diverso che non modificare la proprietà dei mezzi di produzione. E’ un percorso in cui conta la massa critica e non questa o quella classe sociale, la distribuzione di conoscenza e non decisivamente questo o quel modo di organizzare il fatto economico che ne sarà conseguenza, il tempo della lenta trasformazione intenzionale e non il mito frettoloso della “rivoluzione”, la distribuzione quanto più equa ed ampia dell’intenzionalità politica e non il ruolo guida di questa o quella élite, anche di quelle “ben intenzionate”, le avanguardie che dovrebbero guidare le “masse”, termine questo che mi provoca un sussulto ogni volta che l’incontro. Già accorgersi dell’incongruità logica dell’idea omeopatica di combattere la gerarchia sociale con un sistema avanguardie/masse sarebbe un passo avanti.

Quali sono i libri e gli autori che hanno influenzato in modo profondo e corroborante le sue ricerche nel campo delle scienze, della filosofia e della critica sociale? In altre parole: può dirci qualcosa dei suoi compagni di viaggio?

Debbo premettere che la mia formazione è atipica. Ho lavorato nel “business”, addirittura in una delle sue enclave più avanzate per venticinque anni. Forse è anche per questo che quando poi sono tornato su i libri, in specie quelli di economia, ho faticato più che su quelli di fisica quantistica per capire questi signori di cosa stessero parlando. Nulla più del “verum ipsum factum” vichiano rivela il ruolo del tutto ideologico di certe costruzioni di pensiero. Tra le molte fortune che questo accidente esistenziale mi ha portato, oltre ad un senso della realtà concreta che ormai mi è istintivo, c’è stata la libertà di apprendimento: non sono stato formato dalla modellatrice istituzionale basata sulla divisione delle discipline. Credo che non sia molto chiaro il fatto che la divisione disciplinare è la forma che porta senza alternative a collezionare solo frammenti, viste frazionate, conoscenze irrelate di particolari che non hanno possibilità alcuna di riformar un generale. Forse Hegel nel suo linguaggio privato con “il vero è l’intero” voleva significare anche altro, ma trovo l’espressione geniale anche per denunciare il fatto che la parzialità specialistica degli sguardi impedisce in via di principio di porre nel pensiero gli oggetti macroscopici, l’Io, il Noi e l’Altro, il Mondo, il Tempo, le relazioni complesse che legano il tutto. E’ solo perché in cinque anni di studio l’apprendista economista non ha neanche un esame di antropologia o psicologia umana che è possibile definire dottori persone che credono nell’assunto surreale dell’homo oeconomicus. E’ solo perché il docente, anche marxista o critico, è geloso del suo recinto da cui proviene la sua posizione gerarchica che non si perisce di chiedere al collega di altra facoltà di venir a tenere almeno una lezione che aiuti a porre un po’ meno dogmaticamente ed astrattamente i fondamenti su cui poi costruire la formazione. Questo sistema di specializzazioni, nell’economia pratica, è proprio ciò che dà vita a quella forza di autorganizzazione che gli inglesi, inguaribili platonici, chiamarono “mano invisibile”. Ma nella conoscenza umana non c’è alcuna mano invisibile, c’è solo l’Io penso, l’unità di tempo e luogo in cui si accumulano le conoscenze in una unico motore mentale in grado di processarle. Marx, ad esempio, ebbe competenze nella precoce antropologia del suo tempo, praticamente inaugurò la sociologia e la storia culturale, s’infiammò nella lettura di Darwin e ne scrisse ad Engels, non gli si possono negare alte competenze nel pensiero economico, certo non era digiuno di filosofia, di diritto, di storia ed ebbe passione ma anche pratica politica attiva. Oggi, il nostro intero è molto più complesso e paradossalmente la possibilità di processarlo è molto minore di quella che ebbe Marx.

Mi scuso se non ho risposto direttamente alla domanda. Una guida molto approssimata dei pensatori della cultura della complessità, si trova sul mio sito. Ma in effetti, i miei compagni di viaggio sono stati tanti, dalla fisica alla metafisica e quello che mi sento di consigliare è proprio questo, farsi rapire da un libro di biologia, di archeologia, di world history, di geopolitica, di scienze cognitive, da Aristotele se si ha tempo, ricondizionare il proprio metodo e da ciò aprirsi a tutto l’albero delle conoscenze facendosi una idea in proprio. Dobbiamo riconquistare la capacità diffusa di indagare l’intero, altrimenti non lo cambieremo, mai.

Sul piano geopolitico il pensiero della complessità fatica a conquistare l’opinione pubblica. Ciò non stupisce ma è comunque molto grave, in quanto le crisi molteplici del presente richiederebbero di abbandonare semplificazioni e riduzionismi per essere colte al crocevia tra fattori ecologici, psicologici, culturali e politici. Può farci un esempio che renda conto dell’urgenza di un cambio di paradigma nella comprensione degli attuali (dis)equilibri fra potenze mondiali e interessi divergenti?

Come esempio possiamo prendere l’Italia e l’Europa. Partiamo dall’Italia. L’Italia è uno Stato-nazione di taglia europea, taglia europea significa relativamente piccola per ragioni storico-geografiche. Siamo divenuti un unico Stato tardi, poco prima della Germania e molto dopo la Francia e l’Inghilterra-Gran Bretagna, ma anche la Spagna. Il sistema eurocentrato ha dominato il mondo per tre secoli, poi è diventato parte di un macrosistema occidentale a perno americano con una prima corona nippo-anglosassone ed una seconda corona continentale. Nel frattempo, l’Europa, che negli anni ‘70 valeva il 37% del Pil mondiale oggi vale il 24%, valeva il 21% della popolazione ed oggi vale il 7%, sia il peso Pil, sia il peso della popolazione scenderanno nei prossimi decenni, è cioè una sistema in contrazione. Un sistema in contrazione, per la forma di ordinamento che si è dato e cioè l’economia di produzione e scambio, vede progressivamente ridotte le sue condizioni di possibilità. Questa sistema in contrazione poi, non è un vero sistema, nel senso che non ha una sua soggettività, non ha una sua intenzionalità politica, economica, culturale, militare unitaria. Ha una rete di trattati il cui fondamentale è stato scritto quasi un quarto di secolo fa. Si sa che questo stato di cose ha tolto sovranità e quindi intenzione politica ai singoli stati e non per darla ad un nuovo macro-soggetto. Ma la sovranità è persa anche per quanto riguarda il fatto militare, il che è ben grave dal momento che lo Stato moderno nasce anche per prelevare con le tasse le sostanze che permettono di pagare una forza di difesa, se il soggetto non è neanche in grado di difendersi non è soggetto ma oggetto. Ed è persa per lo più anche sotto il profilo economico poiché i suoi agenti economici che competono contro altri nell’agone planetario, sono per lo più di taglia media o piccola. Un investimento in ricerca e sviluppo di una azienda italiana ma in fondo anche europea, è ridicolo se confrontato con identico di una multinazionale americana. Quindi è persa anche dal punto di vista finanziario perché società di rating, stampa finanziaria, broker, fondi privati, pensione e sovrani, sono parti di altri sistemi concorrenti ed in più mentre negli altri sistemi la banca centrale agisce attivamente nel bene del sistema paese, da noi agisce nel bene di un principio di sostanziale neutralità monetaria che favorisce solo la Germania che ha una storia di competitività produttiva che non ricorre alla valuta.

Una spinta sarebbe allora in direzione di fare di questo aggregato europeo un vero sistema, ma letture riduzioniste e specialistiche della statualità, quindi della sovranità, dicono il contrario. Dicono si debba tornare allo Stato-nazione originario, poco importa se di taglia tale da non poter credibilmente esercitare sovranità su se stesso perché troppo piccolo e debole. A questa spinta che torna al piccolo si contrappone una confusa spinta opposta ad andare verso il grande, all’unione indiscriminata di qualche centinaia di milioni di individui che hanno storie, tradizioni, linguaggi, culture, religioni e forme sociali, politiche ed economiche del tutto eterogenee. Questa idea del pensar possibile l’unione degli europei si sostiene solo con l’intuizione entusiasmata, solo non andando al dettaglio razionale di chi fa cosa, quando, come e perché. Prendete le tabelle della popolazione degli stati ipoteticamente da unire, quelle che proporzionatamente dovrebbero esprimere i rappresentanti di un ipotetico parlamento e poi ditevi se la maggioranza “latina” dominerà su quella del “Nord” o viceversa oppure se quella “occidentale” sarà dominante o dominata da quella “orientale” e ditevi se ritenete ciò possibile, se ciò possa essere accettato in base ad un astratto principio democratico che però confligge con le geo-storia concreta. Provate a prevedere se e come comporre gli interessi di un’unica politica estera, fiscale, economica tra sistemi che non riescono a fronteggiare neanche la blanda migrazione di cui siamo meta. Blanda perché al di là della nostra impreparazione al mondo complesso una cosa è certa: aumenterà e non di poco. Io credo noi si debba, per ragioni esterne ovvero di adattamento al mondo nel senso planetario, raggiungere forme più massive del singolo stato nazione europeo che ha cinque secoli di anagrafe e non è più adattativo, né sovrano su nulla visto che l’ambiente è dominato da una megafauna di stati grandi per dimensioni territoriali, materie/risorse/dimensione economico-finanziaria e/o popolazione, ma credo che per ragioni interne noi si debba prima puntare a formare sistemi che non rigettino il reciproco trapianto. Prima di passare da 20 o 30 stati ad uno, logica della progressione vorrebbe noi si passasse attraverso il già difficile compito di istituire un sistema latino-mediterraneo, un sistema del Mare del Nord, un sistema slavo-balcanico, ovviamente tenendo fuori l’Isola (il Regno Unito) che per altro non aderirà di suo a forme sistemiche sovrastatali con i continentali. Sono questi i sistemi che hanno presupposti di lingua, tradizione, cultura, religione, interessi geo-politici, sviluppo, comuni e sono solo questi i presupposti necessari per forzare un cambiamento intenzionale, un costruttivismo storico inedito e per altro assai difficile.

Il cambio di paradigma è partire dalle relazioni. Devi avere relazioni con soggetti sovrani grandi, grossi e potenti? beh allora devi raggiungere anche tu una qualche forma relativa di potenza. Nel farlo devi mettere assieme cose che sono per tradizione distinte e quindi devi stare attento a non trovarti con pezzi le cui relazioni, connessioni, condivisioni, sono impossibili o molto improbabili. Devi trovare il giusto mezzo tra l’esser qualcosa di nuovo e la possibilità fattuale di esserlo.

Che opinione si è fatto circa il presunto superamento della dicotomia Destra/Sinistra? Queste categorie e i relativi concetti vanno abbandonati o piuttosto ripensati?

La dicotomia ha origine, com’è noto, rispetto alle reciproche sedute dei rappresentanti delle Assemblee del 1789 francese, prima e dopo il 14 Luglio. Si sedevano a destra coloro che ritenevano che alcune minoranze quali la monarchia, l’aristocrazia, il clero dovessero avere qualche diritto di decisione privilegiato ed una sovra rappresentazione nelle assemblee elettive, si sedevano a sinistra coloro che ritenevano tale diritto fosse egalitario ovvero si dovesse rappresentare il corpo sociale in forme indifferenziate, al di là dell’origine, il censo, il ruolo sociale, su pura base quantitativa. Nel contesto storico specifico quindi, era una dicotomia relativa alla dicotomia politica storica (presente in scritto sin dalla Politica di Aristotele ma in vivo probabilmente da molto prima, senz’altro dalla riforma di Clistene e secondo alcuni anche da Solone, forse con tracce anche in Eraclito, Vi°-V° secolo a.c.) tra oligarchici e democratici ovvero la dicotomia concettuale che vede un privilegio di capacità o diritto di decisione dell’intenzione politica della comunità nei Pochi (destra) o nei Molti, per approssimazione dei Tutti (sinistra). Su questa fondazione dei termini della dicotomia si è poi sovrapposto tutto il XIX° e XX° secolo, socialismi, comunismi, fascismi, progressismi e conservatorismi. Mi pare ci siano però pochi dubbi sul fatto che le lotte per l’estensione del diritto di voto, per una maggior eguaglianza dei diritti e dei doveri, dei redditi, della formazione, dell’educazione ed dell’informazione, nonché correttivi delle ineguaglianze come la fiscalità progressiva e l’erogazione di prestazioni sociali generalizzate, siano state battaglie definibili di sinistra in accordo al significato originale. Non trovo nel registro storico alcuna presenza di destra in quei movimenti ed atti politici.

Poiché la dicotomia fondamentale, quella dei Molti vs i Pochi permane e segna l’intera storia delle società umane complesse, cioè le società che originano a partire da 10.000 anni fa, non vedo ragioni per ritenerla estinta.

Chi sostiene questo superamento, obietta che trattandosi di un problema di sovranità (chi decide l’intenzione politica delle comunità?), il problema della sovranità, oggi, si configura come una lotta tra organismi economici sistemici (BM, FMI, BCE, NATO etc.) e l’egemone imperiale (USA) da una parte e i popoli ripartiti in stati (nazione?) dall’altra, e che questa partizione non coincide con quella in oggetto. Ma questo fatto non vedo come possa annichilire la dicotomia, questo fatto che è indubitabile, dice solo che la dicotomia è trasferita in una tricotomia per la quale permangono coloro che condividono l’idea che la comunità e solo la comunità debba decidere di sé (autonomia) ed una terza posizione che pensa che le comunità debbano sciogliersi in un ordine economico – finanziario – culturale vagamente cosmopolita ma che poi, in realtà, è a sua volta ordinato da un centro imperiale, quindi militare e politico ben preciso, precisamente anglosassone e decisivamente statunitense (eteronomia). Ora, le due posizioni dicotomiche che prima coprivano l’universo politico ed oggi ne coprono solo una parte, possono ben convenire sul fatto di voler escludere il terzo che punta ad un sistema di tipo logico diverso (economico vs politico), così come cattolici conservatori e financo preti da una parte e comunisti rivoluzionari financo atei dall’altra, cooperarono contro il terzo fascista ma questo nuovo fronte d’ingaggio non sospende il fatto che, ripristinata la sovranità nella comunità, la dicotomia si tornerà ad esprimere né più e né meno per come si espressa storicamente. La tricotomia si presentò con assetti diversi anche quando USA e URSS cooperarono contro la Germania nazista ma nessuno si sognò di dire che le categorie comunismo – capitalismo erano desuete perché cooperavano contro un terzo che volevano escludere (tertium non datur!). Anche la destra estrema italiana post bellica collaborò tramite servizi segreti e non solo, con la CIA quindi col “nemico americano”, nella lotta contro la sinistra e lo fece rimanendo apparentemente anti-capitalista ed anti-imperialista, in taluni casi. Così oggi vedo un po’ di confusione nel fronte anti-capitalista in cui si trovano sovranisti, nazionalisti, russi ortodossi, la Chiesa cattolica, l’islam militante oltre che socialisti, comunisti, anarchici, democratici radicali, quasi che l’anticapitalismo dell’YPG e quello dell’Isis (ammesso sia tale) debbano portare ad un loro affratellamento che, in effetti, è semplicemente impossibile. Il nemico del mio nemico può anche essere, rispetto a un diverso contesto, momentaneamente mio “amico”, ma la tattica è di tipo logico inferiore alla strategia.

Infine, per non smarrire la diritta via, consiglierei di pensare le categorie non solo in forma negativa ovvero “contro” chi o cosa combattiamo, ma anche in forma “positiva”, per chi e cosa combattiamo. E lo consiglio perché è questa l’essenza del “politico” che è l’ambito in cui agiscono queste categorie: si è contro qualcosa perché si è favore di qualcos’altro, non perché si crede a priori nella “potenza del negativo”. Posso anche convenire tatticamente con chi condivide l’opposizione al terzo ordine, ma quando poi ci confrontiamo positivamente su quale ordine politico darsi e come ordinarlo praticamente, con chi crede nella naturale ineguaglianza e crede giusta tale asimmetria non ho nulla a che spartire ed anzi, ritrovo subito ciò che Schmitt chiamava “il nemico”. Sull’urgenza di superare la dicotomia, non vorrei agisse la tenace convinzione di fondo di forme di pensiero tardo hegeliano sempre in caccia del veritativo Aufhebung (superamento, appunto) che confermi che il motore della Storia, come quello delle idee, è dialettico. In effetti, questa “furia del dileguare” la dicotomia sembra più un urgenza di certi intellettuali che, pur essendolo, non si vogliono più definire di sinistra. La destra politica mi sembra ancor bene convinta delle sue ragioni e delle sue definizioni e il fatto che la sinistra sia smarrita riguarda questo ramo della dicotomia non la sua sussistenza.

Arriviamo al “Cosa fare?”. Riaggiornando Marx, non ritiene che il mondo possa essere cambiato solo dopo essere stato interpretato adeguatamente? Come si pone il pensiero della complessità dinnanzi alla coppia concettuale dei fatti e delle interpretazioni?

Credo che Marx, nella famosa undicesima tesi, non dica che il mondo vada cambiato senza interpretarlo ma che la stessa interpretazione filosofica dovrebbe avere a traguardo il cambiamento e verificare nel mondo reale se riesce a produrre questo cambiamento, altrimenti come dice la seconda tesi, la verità di quel pensiero è nulla e la disputa sulla sua verità diventa scolastica. Da questo punto di vista si segnalano tre fatti: 1) il pensiero di Marx ha centotrenta o più anni ed essendo come diceva Hegel “tempo appreso nel pensiero” mostra la sua storicità; 2) alla verifica della sua capacità di aiutare il cambiamento mostra risultati modesti o contradditori; 3) lo scenario stato-nazionale europeo (stante che Germania ed Italia non erano neanche Stati ai tempi di Hegel e iniziarono ad esserlo ai tempi d Marx) di un mondo di un miliardo di persone debolmente connesse non è lo scenario con 200 stati nazione in un mondo di 7 e passa miliardi di persone fortemente connesse . Marx è stato forse l’ultimo aspirante sistemico in filosofia, che è comunque l’ambito del pensiero umano che guida l’azione sul mondo in senso ampio e generale, dopo di lui però non si è presentato nessuno con l’intenzione e la capacità di creare un nuovo quasi-sistema o un sistema propriamente detto in grado di ospitare-superare quello di Marx. Non è stato un caso, si è formato un vero super-paradigma della divisione dei saperi e delle competenze in accordo analogico con il tipo di formazione degli agenti economici che debbono operare nel gioco che è il mercato che ha agito da vero e proprio divieto. In più, il suo quasi-sistema è entrato a far parte di concrete dinamiche storico politiche (rivoluzioni, stati socialisti, partiti, sindacati e movimenti politici vari) che lo hanno imbalsamato e non vi è stata più disponibilità a problematizzarlo per una riforma a più voci, mani, menti. O meglio, pensieri che potessero modificare qualche erronea assunzione ivi contenuta sono stati anche formulati ma l’adozione del “libro” (il Capitale, il Manifesto) a fondamento ideologico oltreché la mancanza di pensatori sistemici ed anzi, una sorta di paradossale divieto e sistematizzare come se questo sistematizzare portasse di per sé a forme totalitarie, hanno paralizzato l’evoluzione di quella che rimane la principale se non l’unica tradizione umana di attivo ingaggio per cambiare lo stato di cose del mondo. Da cui lo stato di cose attuale.

Uno stato di cose che a fronte di ripetute manifestazioni di dissesto e disfunzione delle immagini di mondo e del mondo che queste ordinano, intendendo con ciò quelle dominanti, non presenta alcun vero fermento di cambiamento. Cioè dovremmo cambiare molto ed anche con una certa urgenza, è questa una sensazione tra l’altro molto più ampia dell’ambito che la razionalizza teoricamente, dovremmo cioè cambiare radicalmente per necessità e non più solo per volontà (“a calci nel culo” secondo la felice espressione usata recentemente da M. Cacciari), eppure poco o nulla si muove davvero. Il problema, credo, è proprio che il complesso sociale, si muove quando ha un posto dove andare, posto, tempi, modi, tappe, forme, ragioni fondate più che sulle sensazioni su conforti razionali, insomma una strategia con un fine positivo. Il solo fine negativo non è un telos, ordina solo la distruzione a non ordina nel senso di dare ordine.

La cultura della complessità non dice, come pensava Hayek, che non si debba tentare il progetto umano di forme complesse e dinamiche, dice solo che tale progetto non può essere deterministico e riducibile ad un unico principio. Dice inoltre che per vivere, i sistemi passano il vaglio dell’adattamento, adattamento ambientale ed a gli altri sistemi. Essendo quindi la nostra epoca complessa, lo è e sempre più lo sarà, il pensiero orientato al mondo, alla sua costruzione intenzionale, dovrebbe assumere le forme del sistema ed al contempo aprirsi a forme di verità di cui ben si comprende lo statuto di relazione a presupposti e contingenze. Verità provvisorie (che è poi lo statuto naturale della verità sebbene a noi piaccia pensare platonicamente l’indipendenza della verità dal tempo), tentativi ed errori con riformulazione continua del sistema interpretativo a cui ricorriamo per orientare l’agire. Non abbiamo prioritariamente bisogno di un preciso disegno di come le cose dovrebbero essere, abbiamo bisogno di un sistema dinamico per dargli la possibilità di essere. L’economico ha il mercato, il politico dovrebbe avere la democrazia radicale. Guardi, c’è una brutta notizia da dare a chi sogna un mondo migliore. Non c’è modo di cambiare decisivamente il mondo ed il modo di stare al mondo dei complessi sociali che dia effetti lungo l’arco di una singola vita, noi questo “modo e mondo migliore” non lo vedremo mai. Il “capitalismo” nasce nel XVI° secolo, se non prima per certi aspetti, come si può pensare di superarlo martedì prossimo facendo a), b) e poi c)?

Se mi posso permettere, a chiusura, vorrei concludere con una sintesi. L’era moderna origina nel XV° secolo sebbene poi abbia impiegato secoli per dispiegarsi completamente. La sua essenza è che per la prima volta i sistemi di vita associata hanno adottato l’economico come ordinatore, per me il materialismo storico è una ottima descrizione del moderno non della storia complessiva. L’economico ha subordinato il politico, da subito, dal 1689 con l’istituzione del parlamento inglese rappresentativo. La forma economica interna che l’ordinatore ha sviluppato è peculiare ma non è decisiva tant’è che si è trasformata più e più volte, in questo senso quello che vedo come obiettivo è superare l’econocrazia anche perché non è più una forma adattativa per molte ragioni, da quelle geo-politiche e quelle ambientali. E’ chiaro che quando l’economico sarà subordinato al politico e questo alla democrazia naturale (cioè non quella bizzarra forma che è la democrazia rappresentativa con elezioni ogni quattro – cinque anni), il capitalismo cesserà di essere quello che è e le forme economiche (private, pubbliche, cooperative, bene-comunitarie che poi significa propriamente proprietà democratica inintermediata, una cosa difficilissima) torneranno plurali ed embedded al complesso sociale. Tra l’altro siamo pieni di cose e quelle nuove o di sostituzione le produciamo in tempi sempre minori, quindi è ora di ridurre il nostro tempo-lavoro in forme generalizzate anche perché tenendo fisse le otto ore si forma disoccupazione strutturale. Noi dovremmo concentrarci su come costruirci una casa, un focolare radicalmente democratico non sulla presa del palazzo d’Inverno, altrimenti l’inverno del nostro scontento sarà molto lungo e molto freddo.

Pier Luigi Fagan, professionista ed imprenditore per 22 anni. Da più di dieci anni ritirato a confuciana “vita di studio”, svolge attività di ricerca da indipendente. Nel suo [url”blog”]http://pierluigifagan.wordpress.com/[/url] scrive sul tema della complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e soprattutto filosofica.

Infografica: © Wassilj Kandinskij, Composition VIII, 1923.

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